Edilizia scolastica: un punto d’arrivo o di partenza?

marco
Il digitale a scuola
5 min readMar 27, 2017

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Sembra che ogni anno la diatriba sulla scuola si concentri su un aspetto della questione: si iniziò qualche anno fa con i libri di testo (cartacei o digitali?), poi è venuto il periodo in cui tutti dovevano insegnare in modo capovolto, più recentemente si è parlato e discusso della formazione dei docenti — sempre beninteso senza rinunciare a polemiche, guerriglie e faide interne e conseguente polarizzazione delle posizioni. A quanto pare, il 2017 inizia focalizzando l’attenzione sull’edilizia scolastica.

Ed è proprio con l’osservazione degli spazi fisici della scuola che iniziavo il mio saggio Il digitale e la scuola italiana (Ledizioni):

Quando, nel settembre 2012, sono entrato nella classe di mia figlia, che allora frequentava la seconda elementare, sono rimasto molto stupito di vedere ancora, nella sua come in tutte le altre aule della scuola, una solida lavagna di ardesia in tutto e per tutto identica a quella che c’era nella mia aula negli anni ’70 e ’80, così come in quella dei miei genitori e sicuramente anche in quella dei miei nonni, negli anni ’20 o giù di lì. L’aula di mia figlia, classe 2005, non era molto diversa da quella in cui avevano imparato a leggere e scrivere, quasi un secolo prima, i miei antenati: sembrava che il tempo si fosse fermato tra quelle quattro mura. Quando poi ho preso in considerazione anche l’orario delle lezioni, la gerarchizzazione delle materie, l’edilizia scolastica, la campanella, i ritmi di studio, i compiti a casa, mi sono accorto che la distanza cronologica di quattro generazioni distribuite nell’arco di un secolo era pressoché nulla. (…) La scuola sembra essere rimasta fedele a un modello antico, un modello in cui dominavano incontrastati due concetti: la standardizzazione e la produzione di massa. Lezioni frontali in blocchi di un’ora, file di banchi, libri di testo, prove d’esame sempre uguali a se stesse, voti: sono tutti aspetti della struttura organizzativa della scuola concepiti per formare studenti a immagine e somiglianza della società industriale.

Il saggio proprio in questo periodo compie due anni, ma per fortuna (del libro) o purtroppo (per la situazione generale), non risulta ancora datato, dal momento che la soluzione ai tanti problemi individuati appare tutt’altro che vicina. La questione degli spazi è uno di questi e, come detto, ultimamente sembra che se ne parli più del solito: a gennaio infatti mi ero già imbattuto in questo articolo su EdTech, in sui si parlava di scuole statunitensi dove erano state adottate nuove soluzioni al motto di make every space in our building a learning space”. Risultato dell’operazione? Spazi di apprendimento flessibili dove attivare e mettere in pratica la collaborazione, la comunicazione e la creatività. L’articolo si concludeva con l’affermazione: “non è solo questione di spazi fisici, ma anche della mentalità, di ciò che intendiamo insegnare e del modo in cui intendiamo farlo, combinato con l’ambiente fisico.”

Non faccio nemmeno in tempo a liquidare il tutto come l’ennesima chimera made in USA, che trovo questo articolo nel sito di Giunti scuola dal titolo “Nuovi spazi educativi tra pedagogia e architettura”. Si tratta di un’intervista a Leonardo Tosi, uno dei curatori di Dall’aula all’ambiente di apprendimento, un libro appena uscito e che nasce da un progetto del 2012 dell’Indire. Lascio ovviamente alla lettura integrale dell’intervista chi vuole averne un quadro completo, qui voglio solo mettere in evidenza le formulazioni più interessanti di quello che viene presentato come un vero e proprio manifesto:

  • superamento dell’aula come spazio unico della lezione: l’aula diviene solo una delle soluzioni possibili in un ambiente che offre più opzioni per esigenze e necessità differenziate;
  • connubio tra metodologie didattiche innovative e spazi adeguati: non è possibile parlare di didattica improntata alla collaborazione in luoghi nati e pensati per scopi totalmente diversi.
  • modello 1+4: il numero 1 rappresenta lo spazio di gruppo, cioè secondo il manifesto una sorta di forma evoluta dell’aula tradizionale. Il numero 4 invece indica gli altri spazi: l’agorà, un grande spazio assembleare; lo spazio informale, con cuscini e divani per il tempo libero degli studenti (come nell’articolo di EdTech, anche in questo caso si parla di utilizzare in questo modo zone che di solito sono solo di passaggio: corridoi, mezzanini, pianerottoli, ecc.); lo spazio individuale, dove lo studente può concentrarsi e isolarsi; lo spazio di esplorazione, a quanto pare una “forma evoluta” di laboratorio, cioè uno spazio in cui si utilizzano strumenti o macchinari specifici.

L’Indire, per entrare più nel concreto, sta supportando una rete di avanguardie educative, cioè un’insieme di scuole che sta lavorando sull’idea di spazi flessibili e che sono insieme osservatorio e laboratorio continuamente in progress.

Personalmente, troverei tutto questo piuttosto interessante, se non avessi il solito timore che non mi ha mai deluso: il timore cioè che tutto venga poi lasciato cadere e ne rimangano solo frammenti sparsi qua e là, arcipelaghi di eccellenza incapaci di comunicare tra loro e creare pratiche replicabili. Del resto, è anche francamente difficile immaginare questo scenario di “aule 3.0” (sic) in realtà scolastiche che ben conosce chi va a scuola ogni giorno, tra aule fatiscenti, edifici cadenti o, al contrario, di altissimo valore storico e architettonico e quindi intoccabili (se non previa domanda domanda alla Sovrintendenza, all’Arcivescovado, al Ministero o alla Curia).

Infine, il solito dilemma dell’uovo e della gallina: da dove iniziare? L’edilizia scolastica deve anticipare, accompagnare o seguire la formazione dei docenti e lo sviluppo di nuove metodologie? E il digitale (che sembra comunque uno degli elementi cardine del manifesto dell’Indire), in tutto questo, come si innesta, con quali spese, quali prospettive, quali priorità?

Forse il mio pessimismo è eccessivo? Lo spero, ma non lo credo.

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L’immagine della scuola è tratta da qui.

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marco
Il digitale a scuola

redattore editoriale, scrivo di tecnologie applicate alla didattica.