Un Nobel per l’altruismo

Filippo Bruno Marano
Il gene ribelle
Published in
4 min readOct 7, 2015

La medicina dimostra che l’uomo è un animale sociale

Da qui, messere, si domina la valle. Ciò che si vede, è. Ma se l’imago è scarna al vostro occhio, scendiamo a rimirarla da più in basso e planeremo in un galoppo alato entro il cratere ove gorgoglia il tempo. — Banco del Mutuo Soccorso

Come ogni anno, anche nel 2015 ottobre è il mese dei premi Nobel. Chimica, economia, fisica, letteratura, medicina, pace [in rigoroso ordine alfabetico]: su questi campi, puntualmente si scatena il toto-nomi relativo ai possibili vincitori. Con tanto di scommesse, reali e virtuali.

Ufficialmente, l’onorificenza viene attribuita a persone che si sono distinte, nel rispettivo campo, «apportando considerevoli benefici all’umanità». Nella versione originale di Alfred Nobel: to those who, during the preceding year, shall have conferred the greatest benefit to mankind. La specie umana concepita come un tutto, senza distinzioni di alcun tipo: è questo uno dei valori più importanti di tutta questa cerimonia (anche mediatica).

Per [la fisiologia e] la medicina, quest’anno sono stati premiati tre ricercatori che hanno permesso di realizzare farmaci utilizzati contro alcune malattie che colpiscono le aree più povere del mondo: William C. Campbell e Satoshi Ōmura, per le loro scoperte relative a una terapia contro le infezioni causate dai parassiti ascaridi (come la cecità fluviale e la filariasi linfatica), e Youyou Tu, per una terapia contro la malaria. Si tratta di patologie che rappresentano tutt’oggi delle vere e proprie piaghe per intere popolazioni africane e asiatiche, causando milioni di morti, ma che sono praticamente ignorate dall’opinione pubblica dei Paesi occidentali.

Le ricerche della cinese Youyou Tu, in particolare, hanno portato alla realizzazione, nel corso degli anni Settanta, dell’Artemisinina, un medicinale che ha ridotto in maniera significativa il tasso di mortalità dei pazienti affetti da malaria. Tutto ciò a seguito di un progetto segreto lanciato nel 1967 da Mao Zedong, conosciuto semplicemente come 523. Dopo molti studi, Tu ebbe successo laddove centinaia di ricercatori avevano fallito. Anche grazie al suo altruismo. Come riportato da New Scientist, poco dopo essere stata chiamata per il progetto 523, fu spedita nella provincia di Haina, nel profondo sud del Paese, per osservare gli effetti della malattia con i propri occhi. Poiché il marito di Tu aveva ricevuto l’ordine di rimanere nelle campagne, la scienziata affidò la figlia di quattro anni a un orfanotrofio locale. Probabilmente, è stato un altruismo influenzato dal suo senso del dovere nei confronti dello Stato cinese. Ma di cui hanno beneficiato i suoi concittadini. Il lavoro — che ha dato tanti frutti — era la sua priorità.

Mentre le due superpotenze dell’epoca si facevano la Guerra (Fredda) a colpi di missioni spaziali e testate nucleari, una giovane donna sconosciuta si dava da fare alle estremità della Cina per trovare un modo di salvare i suoi concittadini dalla puntura letale di una zanzara. Una puntura che, fino al 1950, ha rappresentato un flagello anche per alcune popolazioni italiane.

L’altruismo è da sempre uno dei problemi più dibattuti dell’evoluzione di Homo sapiens. Com’è possibile che ci siano individui che che compiono azioni a vantaggio degli altri, se il meccanismo della selezione naturale — secondo un’interpretazione standard della teoria di Charles Darwin — dovrebbe premiare gli egoisti? Probabilmente, perché siamo animali sociali; come, del resto, api, formiche e termiti, specie in cui non a caso ci sono intere categorie di individui che lavorano il benessere degli altri. Tanto da meritarsi, in un celebre libro degli entomologi Bert Hölldobler e Edward O. Wilson, la definizione di superorganismi. Come afferma un altro grande Wilson, un biologo statunitense capace di collaborare con gli umanisti su diversi temi, «all’interno di un gruppo l’egoismo batte l’altruismo. I gruppi altruisti battono i gruppi egoisti». Un approccio gerarchico all’evoluzione, questo, che rende obsolete tutte le prese di posizione sulla inutilità o sulla dannosità dei comportamenti altruistici, anche fra gli esseri umani.

Ecco perché fa particolarmente specie un post di Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, che — nel giorno dell’assegnazione dei premi Nobel — ha evidenziato un mostruoso commento sulla pagina Facebook della rivista scientifica. Che traccia una distinzione netta tra i “problemi da terzo mondo” e le “scoperte a beneficio dell’intera umanità”. Ossia, l’esatto opposto rispetto allo spirito che animava l’inventore della dinamite.

Potrebbe sembrare un episodio superfluo, ma in realtà è significativo proprio perché il commento viene da una persona che: 1) utilizza Facebook; 2) è interessata all’assegnazione dei premi Nobel; 3) segue Le Scienze. Una persona che fa parte di una fetta non molto ampia del pubblico italiano e che, evidentemente, considera il benessere degli altri, soprattutto se non appartenenti allo stesso presunto primo mondo da cui proviene lei, non degni di attenzione da parte della comunità scientifica.

Qualcuno dica a questa persona che è anche lei un animale sociale.

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