35 ore

Filippo Sala
Il Grande Mercoledi
4 min readFeb 2, 2017

Giorno 14–3 Ottobre 2015

Nonostante le ore piccole di ieri sera, mi sveglio presto. I primi sintomi del jet-lag o train-lag se preferite, si fanno sentire. Ho già cambiato tre fusi orari da quando sono partito e sono soltanto all’inizio. Mi attende un lungo viaggio, 35 ore non stop verso Krasnoyarsk, con ulteriore cambio di fuso. Partenza programmata in serata mentre fuori piove ancora, insistentemente.

Questa città, sembra non volermi accogliere.

Non mi arrendo. Decido di cambiare i miei piani. Forse il mio amore per Sasha rimarrà soltanto platonico, ma ho ancora molto tempo a disposizione — con un visto da 30 giorni — e Yekaterinburg potrebbe rivelarsi una perla nascosta della Russia centrale.

Cambiare biglietto online è più complicato del previsto. Chiedo aiuto alla reception dell’ostello:

“buongiorno, potrebbe aiutarmi a modificare la data della mia prenotazione, vorrei spostarla a domani”

La signorina annuisce, sorride e mi spiega che non ci dovrebbero essere problemi. Come non detto. Chiama in stazione, niente di fare, non si può modificare. Peccato, ci avevo sperato. Stasera si parte in direzione Krasnoyarsk.

Intanto in ostello ho conosciuto Noemi, una ragazza di Bergamo che ha vissuto e lavorato per due anni in Australia. Sta partendo, direzione Mosca; dall’Indonesia, ha attraversato gran parte del Sud Est Asiatico, Cina, Mongolia e adesso sta tornando in treno in Italia. Qualche domanda veloce, per immaginare in alta definizione ciò che verrà.

Università degli Urali, Yekaterinburg

Nonostante il diluvio, esco a fare due passi. Noto un cartellone all’esterno di un palazzo molto elegante che pubblicizza una mostra d’arte. Non capisco il cirillico, colgo solamente la parte infografica. Entro e raggiungo quella che credevo fosse una cassa:

“Quanto costa il biglietto?”

“Quale biglietto??! Qui non si paga!”

Mi sento rispondere con tono alquanto infastidito.

Il perchè, lo capisco poco dopo. Non c’è nessuna mostra d’arte, siamo all’interno della Facoltà di Economia dell’Università degli Urali; e quella, era molto probabilmente la Segreteria. La mostra esisteva, chissà in quale parte della città. Maledetto cirillico.

È quasi impossibile camminare. Piove troppo forte. Mi fermo in un negozio sportivo, specializzato in attrezzature da hockey, all’interno di un centro commerciale. Guardo l’orologio. Il tempo di tornare in ostello, prepararsi una pasta al burro, caricare la batteria del cellulare e sono pronto per andare in stazione.

Stazione di Yekaterinburg, in attesa del treno numero 56

Il mio treno è il numero 56, delle 16:43 (orario di Mosca): le 18:43 a Yekaterinburg.

Sono in anticipo, come sempre. Nonostante la puntualità impeccabile dei treni russi, ho sempre timore che qualcosa vada storto: dal traffico in città al controllo documenti prima di salire in carrozza.

18:53. Il treno è decisamente più tranquillo — e meno affollato — del precedente. Di fronte a me una signora russa. Non saprei dargli un’età: ha uno sguardo serio, severo. Le donne russe o sono belle, giovani e attraenti oppure no; lei sembra essere della seconda categoria.

Provo a presentarmi. Sorride e risponde gentilmente. Qualche minuto di silenzio e poi si mette a dormire. La luce della carrozza è ancora accesa. Il viaggio verso Omsk, dove scenderà lei, è lungo. Forse non le sto simpatico. Nonostante i miei sforzi, ho tutta l’aria del classico europeo in viaggio: tuta della nike, ipod — Elliott Smith in cuffia — orologio Casio, Lonely Planet e taccuino.

A sinistra il letto di Janna, a destra il mio

Mi sale un senso di colpa: quella che per me ed altri occidentali è soltanto un’esperienza — viaggiare in una terza classe russa — per la quasi totalità di queste persone è una necessità senza troppe alternative: che siano 20, 30, 40 o 100 ore di viaggio, il treno rimane di gran lunga il più flessibile ed economico mezzo di trasporto a disposizione.

La signora si sveglia. Mi guarda. La guardo. Decido di ripresentarmi: “Filippo!”. “Janna” mi risponde lei. Utilizzo il frasario russo per cercare di interloquire. Ha 73 anni — ottimamente portati in realtà — e una nipote di 19 anni che studia a Mosca. Sta tornando proprio dalla Capitale russa, “vado a trovarla spesso, ogni volta che posso”, mi dice. Che altro: non ama cucinare, ma adora — ovviamente — i pelmeni, i ravioli tipici siberiani/russi. Provo a raccontargli anche qualcosa di me: non semplice. Dopo circa un’ora di questa intensa e complicata conversazione, ci mettiamo un po’ a dormire.

Non riesco a prendere sonno. La luce in carrozza è spenta, tutti si sono messi a dormire, c’è un grande silenzio. Questo momento non lo dimenticherò mai, è complicato anche solo descriverlo. C’è una tranquillità e una pace che non percepivo da tempo, solo il rumore del treno — come sempre — fa da colonna sonora alla mia vita da ormai qualche giorno. Sono solo, sto viaggiando verso est. So che attraverserò la Siberia, poi la Mongolia e poi chissà dove mi porterà la voglia, lo spirito. Non ho limiti. La consapevolezza o l’illusione di essere inarrestabili. Un attimo, prolungato, di felicità pura. Cosa rara.

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