Yekaterinburg!

Filippo Sala
Il Grande Mercoledi
5 min readFeb 1, 2017

Giorno 13–2 Ottobre 2015

È notte. Il rumore del treno che sfreccia a grande velocità e qualche fermata intermedia mi impediscono di dormire. Abbracciato allo zaino North Face in cui ho riposto ipod, diario e carta igienica — quelli che ormai considero beni di prima necessità — sento la parte destra del mio viso adagiata sul finestrino laterale, gelato. Lo spazio qui al piano di sopra è angusto. Devo aggrapparmi con un po’ di forza alla maniglia anti caduta del letto, per non sbattere ripetutamente la testa contro la parte in lamiera della carrozza.

Dirim è ancora a terra — russa — mentre tutti gli altri dormono; fa già abbastanza caldo, in aggiunta abbiamo una coperta in lana*.

*ogni passeggero riceve lenzuola pulite, copri cuscino e copri coperta — una per ogni letto, sufficientemente pesante — il tutto in un sacchetto in plastica trasparente sigillato: è un’efficienza che non mi aspettavo.

Finestrino dal letto in alto, lungo il corridoio, Transiberiana

Guardo l’orologio, sono le 11.00. Trascorro parte della mattina ancora a letto, sdraiato, guardando fuori dal finestrino con un po’ di musica nelle orecchie. Finalmente è giorno, ma poco cambia: la monotonia di questi paesaggi mi ricorda qualche ora prima, quando l’oscurità copriva ogni sagoma; eppure sento una certa malinconia positiva, un sentimento piacevole, di rilassatezza, di riflessione.

Mi decido, salto giù dalla branda e mi siedo lato finestrino. Sono intimorito: non ho nessuna voglia di passare altro tempo di fronte ad un russo ubriaco e molesto.

Dirim è sveglio, seduto al tavolino, come se nulla fosse. Ha il viso distrutto e puzza ancora di alcool. Ha gli occhi arrossati e lucidi, mi guarda insistentemente. Dice qualcosa, probabilmente parlando tra sé e sé. C’è una nuova bottiglia di vodka sul tavolo, continua a bere; me ne offre ancora, ma stavolta rifiuto.

L’ambiente è più vivace e rumoroso, diverso rispetto alla sera precedente. Scambio due parole con un suo compagno, Sasha. Sobrio, decisamente più giovane e sorridente: la mamma è insegnante di inglese, la sorella vive a Lisbona, lui mi mostra con orgoglio la maglietta fake del Portogallo che indossa.

Continuo ad essere un po’ a disagio. Intorno a me altri compagni di Dirim, meno simpatici di Sasha. Mi sposto dai miei vicini, conosco Boris e Svetlana. Intanto il responsabile di cabina, un uomo alto e deciso, rimprovera nuovamente Dirim per le sue parole — che non capisco — e il suo atteggiamento da alcolizzato molesto. Il capo carrozza è gentile, si rivolge a me facendomi intendere, tra gesti e parole, di avvertirlo se dovesse capitarmi qualcosa di sgradevole. Passerà più volte a rassicurarmi.

I russi cominciano ad essere incuriositi dalla mia presenza: si è formato un gruppetto di persone che chiacchierano in modo rumoroso proprio accanto a me. Sfortunatamente, solo un paio di persone riescono a comunicare in inglese, e nemmeno troppo bene. Tra una risata e un’altra, il responsabile mi chiede per quale squadra di calcio tifassi: “Milan!” dico io, “Ooooh Schevchenko…” risponde lui. Non poteva fare altrimenti. Grasse risate.

Ormai si è creata una bella atmosfera: una decina di persone, oltre a Boris, Svetlana e al responsabile di carrozza. Parla sei lingue mi dice, mi racconta del suo lavoro, degli ormai 20 anni di lavoro sul treno. Gli mostro un po’ di foto, del viaggio e della mia vita in Europa. Sono catturati dal mio telefono e da ciò che vedono: la curiosità è troppo forte.

Sono felice della mia scelta: la terza classe, senza porte, senza scompartimenti chiusi, unisce le persone durante il viaggio. Purtroppo è giunto il tempo dei saluti, ci sono: dopo 19 ore sono arrivato nella grigissima Yekaterinburg.

Stazione ferroviaria di Yekaterinbur

Fuori della stazione, una grande piazza e la fermata dei bus. Mi soffermo un attimo per capire la situazione: ha iniziato a piovere — debolmente — nonostante il cielo grigio piombo. Mi volto. La facciata della stazione, di epoca sovietica. ha la solita insegna rossa in cirillico e tutt’intorno campeggiano hotel e palazzi che sembrano usciti dagli anni ‘70.

Google Maps fa il solito egregio lavoro: in pochi minuti sono sul bus verso l’ostello. Seguo il percorso con il gps per capire a quale fermata scendere. Alloggio a DoBeDo, un ostello incredibilmente carino. Ho una stanza tutta mia ad un prezzo irrisorio.

Nonostante le 19 ore passate quasi completamente in posizione orizzontale, mi sento stanco. Ma non ho sonno. Disteso sul letto, inizio a chattare con Sasha, dj nel tempo libero, molto carina.

Esco. Non più una leggera pioggia, adesso diluvia. Non ho un ombrello, trovo rifugio in qualche negozio cittadino. Il benvenuto nel Distretto Federale degli Urali, non poteva che essere peggiore.

È sera. Ho un’incredibile voglia di pizza: l’orgoglio italiano sopraffà la curiosità di sperimentare la cucina del posto. La ricerca della pizza non va a buon fine: l’unica catena che trovo aperta, propone dei dischi rossi coperti da cose che ancora fatico a comprendere. Meglio optare per Burger King. Non certo un ristorante stellato, ma qui andiamo sul sicuro.

Mentre rientro in ostello mi ricordo di Sasha. Suona all’Ogonek Bar, non lontano da dove mi trovo; vale una deviazione. Attraverso una strada deserta, buia. Mi chiedo se sia stata una buona idea, in piena notte e in una grande città della Russia centrale. Poco importa, sono arrivato ancor prima di aver realizzato i miei timori.

Il locale è un ristorante/bar, frequentato da persone abbienti, adulte: di quelli che non sfigurerebbero nella “Milano da bere”. Da fuori sembra carino, decido di entrare. Ho una maglietta bianca, ma il piumino blu salva le apparenze e i buttafuori non fanno storie: forse un occidentale in mezzo a cosi tanti russi vale la mia non eleganza.

È da poco passata la mezzanotte. C’è chi termina la cena e chi ha già iniziato a ballare. Sono un po’ disorientato, ma un paio di moscow mule — senza cetriolo — mi chiariscono le idee. Arrivano Sasha ed un’amica, anche lei dj. C’è un po’ di imbarazzo iniziale, stemperato dall’ennesimo drink.

Mi raccontano della vita in città: a loro piace Yekaterinburg e non sembrano dipengere la Russia come i nostri media sono abituati a fare. Sasha ha 22 anni, studia biologia e lavora in una piccola azienda locale che produce gioielli (credo).

Troppo tardi. Sasha inizia a suonare; il mio cuore — già spezzato — sa già che non la rivedrò mai più. La saluto e rientro in ostello. Questa avventura finisce ancora prima di iniziare. Forse.

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