Orientarsi nel silenzio con DeLillo
Quando l’ho ritirato in libreria mi aspettavo una cosa grossa tipo Underworld, e invece per racchiudere il silenzio bastano un formato da 13x18 cm e poco più di cento pagine.
Diciamo che Il silenzio di Don DeLillo è una specie di minitablet o uno smartphone un po’ ciccione, e questa cosa ci dice tutto ancora prima che iniziamo a sfogliarlo e a leggerlo:
La storia comincia già dal contesto, sta già scritta nella fisicità del libro.
Si parla di essenzialità, di corpi ridotti all’essenzialità, di corpi svuotati dentro Il silenzio di DeLillo.
Tutto è ridotto al margine minimo, abbozzata la trama, accartocciati i personaggi; tanto che trascorso qualche giorno dalla lettura, i loro nomi ti fuggono dalla testa, evaporano inconsistenti e ti devi sforzare per ricordarteli. Perché sono evanescenti e confusi, come chi legge.
Siamo noi quella confusione.
Soltanto il senso di disorientamento ti resta appiccicato come colla alle zampe delle mosche. È tutto scomposto, senza possibilità di capire da che parte cominciare per rimettere insieme il quadro.
Disse: — È una di quelle situazioni in cui bisogna pensare a quello che vogliamo dire prima di dirlo?
È la confusione dei pensieri che nella storia di DeLillo si fanno vedere come interferenze luminose dentro un vecchio capannone abbandonato.
Quello che accade lo dice la quarta di copertina: “All’improvviso, non annunciato, misterioso: il silenzio. La tecnologia digitale ammutolisce”.
Non si racconta Il silenzio. Si sente.
Si percepisce nell’impotenza della vulnerabilità, dell’essere messi fuori uso dalle cose. Masse sconfitte dall’energia.
Descrivere la latenza, l’eventualità con i frammenti, come cercando di vedersi nel coccio di uno specchio nero andato in frantumi. Don DeLillo ci riesce.