Il Veneto è Rock
Io sono da una parte dello spiazzo. Con me, almeno un centinaio di persone. Siamo pronti.
Sono in prima fila, come sempre, e davanti a noi, dall’altra parte, c’è un gruppo di persone in numero simile al nostro. Anche loro sono pronti.
Ci fronteggiamo, aspettando il segnale, mentre tutto attorno il rumore diventa sempre più forte.
Quello che vedo sulle facce che mi fissano dall’altra parte è un riflesso di quello che c’è sulle nostre. Sorrisi, risate, entusiasmo, voglia di vivere.
Poi, dall’alto, arriva il grido che stavamo aspettando:
- FEVE MAE! -
E lì si scatena un inferno che Massimo Decimo Meridio avrebbe solo potuto invidiare.
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Scopro i Catarrhal Noise quando è da poco iniziato il Ventunesimo Secolo.
Devo andare in discoteca per poterli vedere, ed è una cosa che nella mia giovane vita di adolescente metallaro non ho mai fatto perché va contro ogni mio principio. Questa volta però mi hanno detto che nel giardino estivo suonerà un gruppo metal che canta in dialetto veneto. Come posso rifiutare, nonostante il rischio concreto che l’ascolto del tunz-tunz potrebbe portare alle mie cellule cerebrali?
È una folgorazione istantanea.
Grezzi, volgari, e che suonano hard rock in dialetto. Come potrebbero non piacermi?
Inizio a seguirli a qualche concerto. Inizio a pogare ai loro concerti e anche questo è segno che si tratta di un gruppo serio. Sì, perché poter pogare significa che le canzoni sono abbastanza lanciate, ma anche che c’è abbastanza pubblico e che quel pubblico non è di fighetti. Chi poga è qualcuno che è disposto a lasciarsi prendere dalla musica e a lasciarsi coinvolgere con tutto il corpo. Un fighetto, per definizione, è una persona falsa e costruita e non sa nemmeno cosa voglia dire lasciarsi andare.
Poi iniziano a diffondersi. Album dopo album, live dopo live, crescono in abilità tecnica, in bravura compositiva, in popolarità. Io do il mio piccolo contributo, facendoli conoscere a tutti i miei amici e portando ai concerti chiunque abbia voglia di godersi una serata diversa. E vedendo i loro spettacoli dal vivo nel corso del tempo, è evidente come non sia l’unico a farlo: folle sempre più grandi si riuniscono per andarli a vedere.
Mentre scopro gruppi sempre diversi, dai Verdena ai Linea 77, dagli Slipknot ai Metallica, i Catarrhal Noise rimangono una presenza fissa nella mia vita. Band come quella di Marilyn Manson parlano al dolore e alla rabbia degli adolescenti e post-adolescenti come me, ma loro parlano a tutto il resto.
Parlano a chi ha voglia di vivere e di fare festa, a chi sa che una compagnia di buoni amici è la cosa più importante che ci sia, a chi vuole divertirsi senza tante preoccupazioni.
Ma parlano anche agli esclusi, a quelli che sono guardati dall’alto in basso perché non hanno vergogna di mostrare ciò che sono. Se ne fregano del politically correct, di quello che si può dire e non dire e si fregiano del titolo di ruji senza alcuna vergogna. Quando esce “Re d’Italia”, per molti di noi diventa subito un inno e un manifesto di vita.
Eccoli lì, quelli che ci guardano come fossimo pezzenti. Quelli che vengono da un paese un po’ più grosso del nostro e che di conseguenza si considerano migliori. Quelli che hanno i soldi di mammà e papà dietro alle spalle e si vestono da fighi. Quelli che parlano solo italiano, magari, anche se poi lo sanno usare come io saprei usare un assorbente. Quelli che si vergognano a parlare dialetto, ad essere veneti, ad arrivare dalla terra, come è comune a tutti in questa regione.
Loro fingono di essere gran signori, noi accettiamo la nostra origine e ne facciamo un vanto. Perché i Catarrhal Noise, a modo loro naturalmente, predicano l’importanza dell’autenticità, di vivere la vita secondo le proprie regole. E una delle regole principali è quella di divertirsi e di non prendersi troppo sul serio, che a prenderti troppo sul serio ti fai male.
Andare ai loro concerti ti regala un botto di energia, tante risate, e la consapevolezza di non essere solo, di non essere sbagliato. E questa consapevolezza, quando te la porti dietro nella vita “normale”, fa tutta la differenza del mondo.
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Dopo qualche anno, in cui (lo dico con un certo senso di colpa) inizio a dare per scontata la loro esistenza, il fulmine a ciel sereno: i Catarrhal Noise si sono separati. Ormai non sono più un adolescente e mi sono abituato a vederli come una presenza costante nel panorama musicale veneto. Scoprire di non potermeli più godere dal vivo è un colpo al cuore. Per tirarmi su mi dico che almeno sono riuscito a vederli in uno dei loro ultimi concerti, alla Gabbia di San Giorgio in Bosco.
Dalle ceneri dei Catarrhal Noise scopro però che nasce un’altra band, chiamata Rumatera.
Nel 2008 non esiste Spotify e l’unico modo per ascoltare le canzoni di qualcuno è alla radio, su MTV o comprandone i CD.
I Rumatera (e prima di loro i Catarrhal Noise) non sono certo gente che trovi così facilmente in radio o in TV, per cui si rimane alle ultime due possibilità. Peccato che gruppi come il loro non li trovi facilmente nemmeno nei negozi di dischi.
Tutto questo per dire che arrivo al loro primo concerto totalmente impreparato, con in testa un’idea di quello che dovrebbero essere (i nuovi Catarrhal Noise) che si rivela completamente sbagliata.
Dov’è andato a finire il metal? E la cattiveria? E si può pogare con quella roba? Cos’è, punk?
Gli do un paio di possibilità, poi smetto di andare ai loro concerti. Quella che mi sembra una pallida imitazione di ciò che è stato un caposaldo della mia vita mi fa solo stare male, e non riesco ad apprezzarli. Bestemmiando contro il destino infame dei miei gruppi preferiti (nel frattempo anche Marilyn Manson si infatti è ampiamente avviato a fare schifo, commerciale e senz’anima), mi rifugio nel passato e in altra musica, rifiutandomi di sentire mai più una sola nota dei Rumatera.
Poi arriva l’Home Festival, quando ancora è un evento che si può definire rock, e cado addosso quasi letteralmente ad un loro concerto. Negli anni che sono passati hanno perso ogni richiamo a quello che erano stati i Catarrhal Noise. Si sono staccati da qualsiasi nostalgia e si sono costruiti una loro identità che poi, negli anni a venire, si sarebbe sempre più rinforzata.
Io nel frattempo sono cresciuto e sono diventato un po’ meno manicheo in campo musicale (non troppo).
In breve, a partire da quel concerto, scopro che i Rumatera sono dei grandi.
Sono cresciuto e finalmente posso apprezzare quell’identità diversa che era evidente già dal primo album, e la cui unica colpa era non di essere quella a cui ero abituato.
In più sono degli animali da palco. Mi rendo subito conto di quanto può essere divertente andare ai loro concerti, se mi lascio andare. E poi realizzo che non c’è solo divertimento, ma anche un certo spirito nascosto dietro alle loro canzoni, che mi fa tornare indietro nel tempo. L’orgoglio di essere quello che si è. La voglia di autenticità e il rifiuto di ciò che è falso e costruito. La fierezza di essere veneti e il fatto che non ci sia niente di male ad esserlo, anche se non è mai stato di moda. E la voglia di vivere, di fare festa, di non farsi mangiare la testa da troppe seghe mentali. È facile per me ritrovarmi in tutto questo, soprattutto ora che ho iniziato a perdere tutte le pare da post-adolescente.
Un album dopo l’altro e un concerto dopo l’altro c’è una crescita costante, ma anche un cambiamento costante, che mi fa venire in mente i Metallica. Ecco qui qualcuno che decide di seguire quello che è il suo percorso artistico con coraggio, facendo scelte che sa benissimo potrebbero alienare una parte dei fan, ma andando avanti lo stesso. Perché se l’idea è di essere autentici non è possibile piacere a tutti, e questo bisogna accettarlo.
E sebbene io stesso alcune di queste cose non le apprezzi, apprezzo però il coraggio di chi segue la sua via. E i Rumatera stanno di sicuro seguendo la loro via.
Sì, voi che mi guardate male dagli spalti: lo so bene che sto parlando di gruppi i cui argomenti principali sono le feste, le ragazze, i campi, le grigliate in compagnia. E allora?
A parte che non è solo così (provate ad ascoltare “Nassare qua”, per esempio), il punto comunque non cambia. Questa è arte, mettetevela via, e i Rumatera sono dei cazzo di artisti.
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Dopo un po’ di tempo, il destino pensa di farmi un regalo.
I Catarrhal Noise decidono di ritrovarsi, una e una sola volta, per un concerto di beneficenza a Dolo. Un concerto enorme, insieme anche ad altri artisti, che attira una folla oceanica.
Il destino però in verità mi sta facendo lo scherzone, perché io in quel periodo sono letteralmente dall’altra parte del mondo e non riesco ad esserci, a quell’unico concerto. Quel giorno stabilisco un nuovo record di bestemmie giornaliere.
Poi però succede qualcosa: forse si accorgono che gli manca suonare assieme, forse si riappacificano, forse non importa cosa.
I Catarrhal Noise ricominciano a suonare insieme. Pochi concerti, solo canzoni vecchie, ma a quel punto io sono di nuovo in Veneto, e questa volta il regalo del destino me lo godo appieno.
E dopo un po’, quello che sinceramente non mi sarei mai aspettato.
Un nuovo album.
E che nuovo album.
Quando senti parlare di nuove canzoni dopo una reunion, o comunque di opere create dopo un bel po’ di tempo dalla nascita di un gruppo, di solito quello che ti becchi è robetta moscia, poco innovativa, noiosa. Pensiamo a Chinese Democracy dei Guns N’ Roses, giusto per fare un esempio.
Qui è tutto il contrario.
Sembra che il tempo passato separati sia stato solo un modo per prendere la rincorsa e creare uno delle loro opere più belle in cui cattiveria, orgoglio, creatività e tecnica vanno a braccetto. Uno spettacolo.
Nello stesso tempo, in questi anni, anche i Rumatera si sono costruiti un arsenale di canzoni che spaccano e da cantare in compagnia, oltre ad una presenza scenica indimenticabile.
Mi faccio un 2019 in cui un week end sono a vedermi i Rumatera, l’altro i Catarrhal Noise.
Festa granda e via.
Mentre programmo già come sarà il mio 2020 (giugno con i Korn e i System of a Down, luglio al Rock in the Castle, tutto il resto del tempo in giro per il Veneto a concerti) arriva il Covid del cazzo.
Uno dei miei ultimi live è quello dei Catarrhal in un locale, a fine 2019.
Uno degli unici che riesco a farmi nel 2020 è invece quello dei Rumatera all’Anfiteatro del Venda, e anche quella volta riescono a farmi andare via col sorriso. Questo anche se suonano unplugged e anche se il grosso rischio è di tornare con la malinconia nel cuore per tutto quello che ci stiamo perdendo in questo periodo.
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Ora è già il 2021 e tutte le cose che abbiamo perso l’anno scorso, quelle che danno senso e gusto alla vita, forse potranno ritornare pian piano. Concerti, viaggi, ritrovi con gli amici al pub, grigliate in compagnia. Non vedo l’ora.
Non riuscirò a beccarmi nessuno dei grossi live per cui mi ero già comprato i biglietti nel 2020. Temo che per quelli, se sono fortunato, si andrà al 2022.
Ma per essere felice mi basterebbe che ci fossero almeno le sagre e gli eventi all’aperto di dimensioni più piccole. Mi basterebbe questo.
Sentir partire l’inizio di “Assa perdare i Pin Floi” e lanciarmi a fare il Gioco dell’Abbraccione, il Wall of Death targato Rumatera che ogni volta regala grosse soddisfazioni. Cantare in compagnia “Na seen”, mentre indosso la mia t-shirt con scritto “Bevemo el Piave”. Ridere, divertirmi, apprezzare la musica e la compagnia, pogare appena possibile anche se ormai non ho più vent’anni. Aspettare Lady Poison e tutti i comprimari in festa sopra al palco. Sganasciarmi con Italo, attendere con ansia la “Rubrica dell’Agricoltore Agricolo”, vedere se anche questa sera ci saranno gli ospiti musicali che hanno aiutato a creare piccoli capolavori come “Braghe de Legea” e “Deltone”.
Se saremo fortunati, a tutto questo manca poco. Se saremo fortunati, tra poco potremo di nuovo inrujarse, cantare in compagnia e fare festa insieme.
Se saremo fortunati, la musica tornerà finalmente ad illuminarci la vita.
Ragazzi, vi stiamo aspettando.
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