Psychedelia — Al lavoro e ritorno

Dioniso Ade
Il Regno di OZ
Published in
9 min readApr 16, 2017

Anche il tragitto per andare a lavorare può diventare… strano.

Sta succedendo qualcosa di strano, ormai da qualche giorno.
Non so se debba preoccuparmi, ad essere sincero, ma continuo a rimanere perplesso.

Vado a lavorare e il contachilometri della mia auto segna che ho fatto 23 chilometri. Torno a casa, facendo la stessa strada, e mi segna che ne ho fatti 24.

Il giorno dopo sono 23 sia all’andata che al ritorno. Quello dopo ancora ritornano ad essere 23 quando vado e 24 quando torno.

Primo pensiero: il computer di bordo sta andando a farsi benedire. L’auto ha un bel po’ di anni e l’età ha la sua influenza, non c’è niente da fare. Però quando faccio altri percorsi avanti-indietro, la distanza segnata non cambia.

Secondo pensiero: forse prendo le rotonde dalla parte più lunga al ritorno. Peccato che non sia così, visto che se anche una la faccio più corta, quella dopo la faccio più lunga. E poi la differenza tra le distanze sarebbe sempre costante, no?

Terzo pensiero: chissenefrega. Ma dai, saranno problemi questi? Pensa al gasolio che costa sempre di più, pensa a come fare per guadagnare più soldi, pensa al tuo lavoro, non perderti a pensare a stupidaggini. La gente come te non ha tempo per queste cose.

Poi inizio ad avere buchi di memoria.

Quando ritorno da lavoro e sono in mezzo al traffico, batto le palpebre e mi ritrovo a casa. La macchina segna ancora una volta 24 chilometri e io mi cago sotto. Impiego qualcosa di più di cinque minuti per autoconvincermi di essere stato semplicemente a scrivere messaggi sullo smartphone tutto il tempo e per questo ho perso la cognizione di dov’ero. Che poi non risulti dalle mie app che abbia inviato o fatto niente in quel periodo, poco cambia: ho già un’altra scusa pronta, e cioè che mi sono talmente immerso nella guida da andare in trance.

La scusa regge per altri due blackout mentali, ma al terzo vedo che il contachilometri stavolta segna che ho percorso 56 chilometri, e in effetti sono arrivato a casa in ritardo di quasi un’ora. Dove sono stato fino a quel momento?

Qui inizio a preoccuparmi più di un pochino.

Ne parlo con la mia compagna, ma lei non è molto comprensiva. Pensa la stia sfottendo e che stia inventando qualche elaborata scusa per non dirle che sono andato a bere al bar, a giocare, o magari anche con un’altra donna. Io non so come risponderle se non con la verità, che però non sembra bastare.

Quando succede di nuovo mi prendo un paio di schiaffi. La volta dopo mi accusa direttamente di tradirla e quella dopo ancora è anche l’ultima in cui la vedo, mentre se ne va per sempre dalla mia vita.

Non ho tempo per disperarmi più di tanto, perché nel frattempo i blackout aumentano e mi succedono anche mentre faccio altri tragitti. Perdo traccia di intere ore e mi ritrovo in posti dove non ricordo di essere andato. Inizio a sentirmi sempre di più il protagonista di Fight Club, ma non ho intenzione di far saltare in aria il mio appartamento, per cui vado a farmi vedere da un dottore. Poi da un neurologo. Poi da uno psichiatra: magari sono schizofrenico e in quei momenti di vuoto è una parte oscura di me che prende il controllo.

Nessuno capisce cos’ho e per tutti sono sano come un pesce.

Vado anche dal prete, giusto per non sbagliare. Non funziona.

Inizio a preoccuparmi di più.

Chissà cosa faccio durante quelle ore. Chissà dove vado. Sono abbastanza sicuro di non aver mai investito nessuno, perché la macchina non ha un graffio, ma la cosa rimane lo stesso inquietante. Anche perché succede sempre e solo quando sto guidando.

Dove cazzo vado?

Comincio ad accendere la videocamera dello smartphone ogni volta che salgo in auto. Me la punto addosso, la fisso e la lascio andare finché non sono a destinazione. Invariabilmente, sia che abbia o che non abbia blackout mentali, questa smette di registrare dopo cinque minuti.

Sto impazzendo e nessuno mi aiuta.

Vendo la macchina e ne compro un’altra. Perdo tempo e soldi e la nuova auto è un cesso rispetto a quella di prima, ma ho troppa fretta. Valuto anche di rimanere a piedi, ma non ci sono mezzi pubblici tra casa mia e il mio posto di lavoro e sono costretto ad avere una macchina.

Per due giorni tutto bene. Al terzo ho di nuovo un blackout.

Prendo ferie e per una settimana rimango chiuso in casa mangiando, bevendo, dormendo e sfondandomi di Netflix.

Riprendo a lavorare e riprendono anche i problemi.

A questo punto mi ritrovo stanco, impaurito e solo. Decido che non si può più andare avanti così e mi accordo con un collega perché, almeno per il lavoro, venga a prendermi e mi riporti a casa. I problemi organizzativi sono milioni, dal dover aspettare che lui finisca le sue riunioni o viceversa, alla sveglia anticipata, al ritorno ritardato: lo pago bene però, e se riesco a evitare blackout tutto ciò vale la pena.

Poi, dopo quattro giorni in cui tutto fila liscio, lui mi dice che ha paura che gli si stia rompendo il contachilometri, perché inizia a segnargli distanze sbagliate. Dopo una settimana mi chiede se per caso il giorno prima ci siamo fermati da qualche parte perché si trova ad aver fatto più chilometri del solito, ma non ricorda di aver fatto deviazioni. Io nego che ci siamo mai fermati, ma anch’io ho sofferto di nuovo di quei maledetti blackout. Faccio finta di niente, confidando che la negazione della realtà questa volta mi salvi. Ovviamente si rivela inutile.

Stiamo tornando dal lavoro. Affinché non succeda niente e avendo finito tempo fa tutti i santi cristiani, io sto pregando alcune divinità norrene di cui non si sente più parlare da prima del Medioevo. Il mio collega invece sta guidando e fingendo di non essere preoccupato. Poi ho un blackout, e fin lì niente di nuovo. Quando riapro gli occhi però non sono a casa, ma sono ancora in auto e quello che vedo mentre mi guardo intorno non ha il minimo senso.

Il cielo è rosa, ma non è un tramonto. È proprio tutto rosa. Non ci sono nuvole, non c’è sole, non c’è luna e non ci sono stelle. Corriamo su una strada che è di mattoni gialli, e se anche penso al Regno di Oz, molto di più penso alle strane creature che stanno correndo al nostro fianco con denti e artigli troppo lunghi per essere reali. Se anche penso a vecchie storie di Stephen King, molto di più penso alle montagne che sembrano spuntare d’improvviso dal cielo, e che sembrano volere abbassarsi a toccarci. Se anche penso al fatto che tutto questo è impossibile, molto di più penso alla faccia del mio collega. Il suo viso infatti inizia a mostrare segni di stranezze inquietanti come denti e peli che spuntano dove non dovrebbero. Quando poi si gira a guardarmi con occhi che sono diventati gialli, e allunga verso di me una mano che ormai sembra un artiglio, io non penso più. Mi contorco sul mio sedile e lo prendo a calci come ne andasse della mia vita, il che è probabilmente vero. Non succede come nei film che la portiera dalla sua parte che si apre subito e lui cade fuori, rimbalzando sulla strada per almeno cinquanta metri. Dopotutto siamo tutti e due legati con la cintura di sicurezza e dopotutto la portiera ha una maniglia da tirare per poterla aprire. Io però sono terrorizzato e continuo a colpirlo e colpirlo, e alla fine un calcio fortunato lo prende alla testa e lui sembra perdere conoscenza. Non mi fido e lo colpisco un’altra volta, ma lui non reagisce.

So che non ha senso, ma mentre io e il mio collega ci stavamo menando, la macchina ha continuato ad andare avanti, sfrecciando senza problemi sulla strada di mattoni gialli e con le montagne che ci scendono sulla testa. Non ha scartato, non ha investito nessuno e noi ci troviamo quindi ancora sani e salvi (o almeno io) a correre come indemoniati in un mondo sconosciuto.

Ormai certo che non sta fingendo, mi allungo verso il mio collega e gli slaccio la cintura di sicurezza. Sono tentato per un momento di aprire la portiera e buttarlo fuori, ma poi non ne ho il coraggio. Lo sposto con fatica sui sedili posteriori e lo blocco meglio che riesco usando le cinghie di sicurezza. In tutto questo la macchina continua a correre imperterrita e io ormai nemmeno spreco più tempo a preoccuparmi di come ciò sia possibile.

Ritorno sui sedili davanti e mi piazzo alla guida: non devo fare molto, perché la strada è dritta e non se ne vede la fine, le montagne sospese in cielo non sembrano voler scendere a schiacciarci, e le bestie demoniache non sembrano voler attaccarci. In più la macchina si guida da sola e anche quando metto le mani sul volante sento che la mia presenza è inutile. Continuo ad essere spaventato, ma inizio a pensare un po’ più razionalmente. Il mio viaggio psichedelico non sembra voler finire nel prossimo futuro, ma magari stavolta posso a farlo finire io, se mi concentro sulla volontà di tornare a casa con tutte le mie forze.

Non ci credo molto, ma ci provo, che non si sa mai. Chiudo gli occhi. Penso intensamente. Li riapro.

Vorrei tanto essere in una di quelle storie che odio, adesso, quelle con l’autore pigro e che finiscono con il protagonista che si sveglia e tutto era solo un sogno.

Il cielo è diventato rosso e mi ferisce gli occhi, ma la strada è ancora gialla, io sono ancora ben lontano da casa e ci sono ancora dei demoni che corrono (ma dove cazzo stanno andando?) a fianco dell’auto.

Mi arrendo all’evidenza. Questa volta non tornerò indietro così facilmente. Almeno a me non stanno spuntando denti e peli dove non dovrebbero essere, però. A questo proposito mi volto a controllare che il mio collega stia ancora dormendo il sonno del giusto e per fortuna non rimango deluso, anche se ogni tanto un artiglio si agita in modo inconsulto. Noto che i peli e la lunghezza dei denti sono aumentati, ma preferisco non soffermarmi a pensarci su. Giusto per curiosità provo a premere il freno e a girare lo sterzo, ma è come se fossi su una giostra per bambini, e niente funziona. La macchina continua per la sua strada e io sono lì, intrappolato.

Poi sbatto le palpebre e sono sul vialetto di casa. Il mio collega mi sta salutando e io esco dall’auto senza voltarmi indietro, andando col pilota automatico e conscio che stavolta l’ho scampata bella. Conscio che la sua faccia ha tutti i suoi peli e i suoi denti a posto e che la macchina non mostra segni di aver corso in nessun posto diverso da una strada normale del normale mondo occidentale.

Tiro un sospiro di sollievo lungo un secolo ed entro nel mio appartamento. Finalmente mi posso rilassare, anche perché ho preso una grossa decisione tra il momento in cui sono sceso e quello in cui ho infilato le chiavi nella porta d’ingresso.

Non salirò più su nessuna auto.

Se questo significa perdere il lavoro per trovarne un altro in zone servite dai mezzi pubblici, così sia. Non so cosa mi stia succedendo, non so perché questa… cosa mi stia seguendo, ma non mi interessa più. Il nodo gordiano non è stato sciolto, ma tagliato con un colpo di spada, e questo è il mio modo di tagliare. Se sono i viaggi in macchina il problema, smetterò di muovermi in macchina. ‘Fanculo, faccio anche del bene all’ambiente, così. Mi prendo una bici, mi faccio l’abbonamento per il treno e a posto.

Mentre mollo giù chiavi e giacca e mi dirigo alla mia camera sto già pensando a dove andare a comprarmi una bella bicicletta a pochi soldi. Sorrido quasi, perché stavolta me la sono fatta sotto, ma per fortuna ne sono uscito, e ora non mi fregheranno più. Col cazzo che salgo di nuovo su un’auto, io.

Poi apro la porta della mia camera e quello che vedo davanti a me non è un letto matrimoniale sfatto e una copia da pochi soli di un Monet, ma un cielo verde, delle montagne sospese nel nulla e una strada di mattoni gialli che sembra stendersi verso l’infinito.

Mentre mi ritrovo disperato ad urlare per la frustrazione, vengo di nuovo ingoiato da questo mondo alieno.

Continua, forse…

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Originally published at oz-tales.com on April 16, 2017.

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