Cieca dall’occhio destro?

Edoardo Toniolatti
Il Segnale
Published in
7 min readFeb 22, 2017

La Germania e il ritorno dell’estrema destra

Il 17 gennaio di quest’anno la Corte Costituzionale tedesca, con sede a Karlsruhe, ha emanato il verdetto: la NPD, Nationaldemokratische Partei Deutschlands, il “Partito Nazionaldemocratico di Germania” di destra estrema/praticamente neonazista, non è anticostituzionale. In una sentenza di quasi 300 pagine, i giudici hanno stabilito che non ci sono gli estremi per una misura così radicale: il partito è chiaramente ostile ai principi della Costituzione (la Grundgesetz, “Legge fondamentale”) e si ricollega direttamente al passato hitleriano, ma non è al momento in grado di minacciare in alcun modo le basi democratiche della società tedesca, data la sua esiguità — 5200 iscritti nel 2015, che su una popolazione totale di un’ottantina di milioni non sono proprio moltissimi.

La sentenza ha però causato molta insoddisfazione. L’impressione è che la Corte abbia deciso di non decidere, evitando di prendere una posizione definitiva e ancorando la sua scelta a un contesto che potrebbe comunque cambiare: anzi, per certi versi proprio rimandando una presa di posizione definitiva a quando il contesto eventualmente cambierà.

Non era la prima volta che si tentava la strada della messa fuorilegge, con la NPD. Ci si era provato già fra il 2001 e il 2003, e anche in quel caso la Corte Costituzionale espresse parere contrario: le motivazioni dietro la sentenza, però, suscitarono stupore e preoccupazione, e non poche polemiche. Si scoprì infatti che una trentina degli uomini di vertice del partito e di altre organizzazioni più piccole ad esso collegate erano in realtà informatori (i cosiddetti V-Leute, abbreviazione di Vertrauensleute) o membri delle forze dell’ordine sotto copertura — e proprio questa massiccia presenza dello Stato ai livelli più alti rendeva impossibile per la Corte identificare con certezza chi e cosa si stava giudicando. Una gigantesca operazione di infiltrazione che però non era riuscita in alcun modo a indebolire il movimento (soprattutto nell’ex-Germania Est, roccaforte del neonazismo tedesco) e anzi faceva sorgere un terribile sospetto: che questa infiltrazione pervasiva funzionasse, più che per smantellare i gruppi neonazi, per proteggerli dalle indagini e permettergli di operare in sostanziale tranquillità.

Sospetto che è tornato a strisciare nell’opinione pubblica tedesca nel 2011, quando si è venuti finalmente a capo di una serie di omicidi che hanno rivelato l’esistenza del nucleo neonazista armato che di quegli omicidi era responsabile, la Nationalsozialistischer Untergrund (“Clandestinità Nazionalsocialista”, NSU). Composta, a quanto pare, da soli tre membri, la NSU è stata attiva per poco meno di 15 anni, compiendo attentati mirati fra il 2000 e il 2007 che causarono la morte di nove persone, quasi tutte di origine turca — tanto che i media iniziarono a parlare, con pessimo gusto e neanche troppo celato razzismo, di Döner-Mörde, “delitti del kebab”. La polizia stessa concentrò le indagini su lotte intestine alla malavita organizzata turca, finché nel 2011 una serie di circostanze fortuite e decisamente da film — leggete questo pezzo del Guardian, davvero — rivelò la verità: tutti questi omicidi erano stati compiuti da una cellula terroristica neonazista, sempre con la stessa arma (una pistola Česká 83), usando una bicicletta come mezzo di fuga. Lo shock in Germania fu profondo, e di nuovo si tentò di mettere al bando la NPD, che con la NSU sembrava avere legami ben più che superficiali: e di nuovo, venne fuori che l’Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione (Bundesamt für Verfassungsschutz) aveva più di 130 informatori e infiltrati nel partito, molti anche in posizioni di vertice. Di nuovo lo stesso sospetto, la stessa domanda: non è che anche la NSU ha potuto operare praticamente indisturbata perché è stata in qualche modo protetta, aiutata proprio da coloro che avrebbero dovuto invece sgominarla?

Dei tre oggi è viva solo Beate Zschäpe, sotto processo a Monaco dal 2013 — la sentenza è attesa in primavera. Dalle udienze emerge un quadro inquietante, fatto non solo di problemi strutturali di sicurezza (collaborazione carente fra le diverse agenzie a livello locale e federale, mancanza di coordinazione, informative che si perdono per strada o non vengono condivise) ma anche di rappresentanti delle autorità che chiudono un occhio un po’ troppe volte perché si tratti di semplici episodi o casi isolati. Tanto che ci si fa di nuovo la stessa domanda che poneva negli anni Venti Emil Julius Gumbel, matematico e antinazista tedesco che mostrò oltre ogni ragionevole dubbio come le corti di giustizia, nella morente Repubblica di Weimar, ignorassero sistematicamente le prove che riconducevano gli omicidi politici alle camicie brune, rivelando nel suo libro Vier Jahre politischer Mord (“Quattro anni di omicidi politici”) che su 376 delitti commessi fra il 1919 e il 1922 ben 354 erano da attribuirsi al nascente movimento hitleriano. Come allora, anche oggi la Germania si chiede: ma non è che il nostro sistema giudiziario e poliziesco è auf dem rechten Auge blind, cieco dall’occhio destro?

Beate Zschäpe, sotto processo a Monaco

La novità del 2017, però, è che questa cecità potrebbe aver contagiato anche lo scenario politico: è sostanzialmente inevitabile, infatti, che dopo il voto di settembre entrino al Bundestag, il Parlamento Federale, quelli di Alternative für Deutschland, il partito populista di destra dai forti connotati xenofobi.

AfD orbita stabilmente intorno al 10% nei sondaggi, ben sopra la soglia di ingresso del 5%, quindi (anche se ultimamente sta perdendo qualcosa, pare). Ma nonostante i tentativi della leader, Frauke Petry, tesi a rendere il partito il più presentabile possibile, accattivante per tutto l’elettorato scontento di Merkel e non solo per nostalgici e nazionalisti, forse in queste settimane è venuto fuori il vero volto del movimento: quello (manco a farlo apposta, biondo e con gli occhi azzurri) di Björn Höcke.

Björn Höcke è uno dei deputati di AfD in Turingia, e a metà gennaio ha tenuto a Dresda, durante un incontro dell’organizzazione giovanile del partito, un discorso in cui affrontava, fra le altre cose, il rapporto della Germania con il suo passato recente: augurandosi niente di meno che una “inversione di 180 gradi nella politica della memoria”, a un certo punto Höcke, riferendosi al Memoriale per le vittime della Shoah di Berlino, ha detto che il popolo tedesco “è l’unico al mondo ad aver piantato un monumento alla vergogna (Denkmal der Schande) nel cuore della propria capitale.” Naturalmente è esplosa la polemica, e il braccio di ferro nel partito fra chi vorrebbe espellere Höcke — perché certe cose non si possono dire, se si vuole essere competitivi a livello elettorale — e chi invece lo difende — perché “altrimenti che alternativa siamo?” — sembra si sia risolto a favore dei primi, ma è interessante andarsi a rivedere bene tutto il discorso di Dresda. L’ha fatto ad esempio Sascha Lobo, editorialista dello Spiegel riconoscibile tra l’altro per il vistoso tomahawk rosso. Lobo ha scavato nelle frasi, nella scelta stessa delle parole usate da Höcke, e quello che ha trovato è un discorso autenticamente goebbelsiano, davvero nazista — pieno di richiami al Volk, il popolo, che deve “riprendersi la Germania pezzo per pezzo” fino alla vollständigen Sieg, la “vittoria totale” (copyright Joseph Goebbels, 1943). Un’analisi testuale il cui obiettivo è smascherare un alibi: gli indizi, le prove ci sono tutte, scrive Lobo, perché sia ormai impossibile ignorare che votare AfD — magari come voto di protesta, perché si è stanchi di Merkel e della sua politica di accoglienza dei migranti, o perché si vuole un cambiamento radicale purché sia — vuol dire votare anche questa cosa qui. “Possiamo scrivere la storia”, dice Höcke nel suo discorso: il punto però, conclude Lobo, è che questa storia è già stata scritta, e non possiamo più fingere di non saperlo.

Se c’è un elemento che ha contribuito più di ogni altro a dare forma all’identità tedesca postbellica è proprio la consapevolezza del passato nazista, l’accettazione di quella colpa ineliminabile che non si può emendare né dimenticare. Una gigantesca assunzione di responsabilità collettiva, che ha definito l’essere tedeschi fin nelle manifestazioni più innocenti — come tirar fuori le bandiere quando gioca la nazionale: una cosa che si è rivista solo negli ultimi anni, ad esempio per i Mondiali in casa del 2006, perché c’è sempre molto disagio quando si finisce dalle parti dell’ “orgoglio nazionale”.

Allo stesso tempo, però, anche una pressione costante, che più passa il tempo più diventa difficile da gestire: e che anzi, forse oggi può rivelarsi controproducente, come ricostruisce questo bel pezzo del New York Times.

Un equilibrio instabile, un’oscillazione dagli esiti imprevedibili che rischiano però, con le elezioni di settembre prossimo, di diventare parecchio tangibili.

Ed è forse questo l’aspetto più inquietante, nel complicato rapporto che la Germania ha con il suo occhio destro.

Se vi interessa, qui potete iscrivervi alla mia newsletter dedicata alle elezioni tedesche che si terranno a settembre prossimo: un modo per arrivare preparati, si spera, a un appuntamento non importante, di più. Se poi non ne avete ancora abbastanza, ho anche un blog, Sutasinanta, dove ogni tanto scrivo di altre cose.

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