Impresa legalità

Scuola di giornalismo Walter Tobagi
in transITion
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11 min readMar 1, 2016

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di Carmela Adinolfi e Matteo Furcas

La parrucchiera all’angolo, il pub dove tifi con gli amici durante il derby fra Inter e Milan, l’edicola dove acquisti il giornale o le figurine dei calciatori per i tuoi figli. Luoghi della vita quotidiana, posti come tanti altri. Li conosciamo bene ma ignoriamo il loro passato fatto di spaccio, video-poker, estorsioni e traffici illegali. Sono i beni confiscati alle mafie a Milano: 456, secondo le ultime stime, fra appartamenti, negozi e aziende che un tempo erano in mano alla criminalità organizzata. Ce ne sono tanti in città, finiti al centro delle inchieste della magistratura e, solo alla fine di un lungo percorso fatto di sequestri e confische, restituiti alla collettività. In alcuni casi sono irriconoscibili perché oggi al loro posto sono nate attività completamente diverse. Eppure sono lì, a testimoniare la forza pervasiva con cui le mafie negli anni si sono infiltrate nelle maglie dell’economia locale. Ma anche a dimostrare l’impegno dello Stato nell’azione di contrasto e lo sforzo di riportarli alla legalità. Trovarli non è facile perché intorno alle “cose di mafia” — anche se di criminale non hanno più nulla — aleggia una coltre di indifferenza e reticenza: soprattutto quando si parla di imprese. Una volta diradata questa nebbia, però, ci si immerge in un mondo attivo, laborioso che ha tanto da raccontare.

Dietro i beni confiscati alle mafie ci sono volti e storie di persone che con la criminalità non hanno nulla a che fare. C’è una donna, volontaria dell’associazione Terza Settimana che dal 2013 gestisce il “Social market” per le famiglie in difficoltà di via Leoncavallo, nato sulle ceneri di un negozio di vestiti: nel retro del locale venivano occultati i carichi di cocaina in arrivo da Palermo. C’è l’appartamento di viale Jenner, un tempo dimora di un boss di ‘ndrangheta e oggi casa di ospitalità per anziani in difficoltà. Poi c’è il Balzo, l’associazione che anima la vita dei ragazzi del quartiere Baggio e che dal 2011 ha trovato casa negli spazi di un’ex edicola in mano ai clan. E, infine, Mauro Locatelli che manda avanti la birreria di famiglia in piazza Stuparich: in uno dei locali oggi di proprietà del Demanio, negli anni ’70 prosperava una spaghetteria della mafia.

L’elenco è lungo e si compone non solo di indirizzi e numeri civici ma anche di nomi e cognomi di cittadini che appartengono alla parte sana della società. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, introdotto dalla legge 109 del 1996, dopo la raccolta di un milione di firme da parte di Libera, è lo sviluppo più positivo del contrasto al malaffare: tante persone negli anni si sono assunte e continuano ad assumersi il compito di conservare questi beni e raccontare la memoria di ciò che sono stati. Cooperative e associazioni uniscono le forze per creare dei veri e propri presidi di legalità, dove l’attività sociale diventa il viatico per la crescita di consapevolezza delle nuove generazioni. In questi luoghi l’illegalità ha perso.

Nel mondo dei beni confiscati non gravitano solo ingenti somme di denaro o immobili. C’è un altro fronte, quello delle imprese sequestrate e confiscate che generavano ricchezza per le organizzazioni criminali: casi sempre più frequenti in una Lombardia ormai colonizzata dalle mafie che si sono radicate al nord. Individuarle può richiedere molto lavoro. Chi è coinvolto, dagli amministratori giudiziari agli ex dipendenti che nulla avevano a che fare con la proprietà mafiosa, non ne parla volentieri. Eppure è su queste vicende che i fari dovrebbero essere puntati. Non mancano le persone che attraverso progetti imprenditoriali provano a farle ripartire: una visione d’impresa, infatti, è il fattore decisivo per la salvezza di queste aziende. Lo sforzo necessario per rigenerarle e mantenerle floride nel circuito dell’economia legale è di gran lunga maggiore rispetto alle attività “tradizionali”. In alcuni casi, però, quella della legalità può rivelarsi una vera e propria impresa.

Disoccupati e con mesi di stipendi arretrati, Alessandro e i suoi colleghi del Billiard Café si sono visti negare la possibilità di rilevare l’attività per riconvertirla in una birreria artigianale: «un locale che avrebbe avuto mercato», spiega malinconico Alessandro, che aveva già immaginato frotte di automobilisti in viaggio sulla statale che porta da Busto Arsizio a Varese fermarsi lì per una sosta. Ci ha provato anche l’Agenzia nazionale dei beni confiscati convocando poco prima dello sfratto un tavolo con tutte le parti in causa ma non è bastato. La proprietà dell’immobile è e resta di privati e dunque il campo d’azione dell’Agenzia è limitato. Lo sfratto è diventato operativo e Alessandro e i suoi colleghi hanno dovuto abbandonare il locale. Ora al suo posto sta nascendo una palestra: del Billiard Cafè resta solo l’ombra dell’insegna sull’edificio che lo ospitava. La sua storia, però, non è un caso isolato. Sono tanti i dipendenti di imprese gestite dalla mafie che restano senza lavoro e privi di tutele quando le aziende falliscono. Ed è proprio la difficoltà di garantire i posti di lavoro e tenere aperte le attività a essere uno dei punti più critici dell’attuale normativa: a esercitare il peso maggiore ci sono i ritardi del procedimento giuridico. Un percorso — concordano magistrati, amministratori giudiziari ed esperti della materia — che si inceppa nel passaggio tra il sequestro e la confisca definitiva: tra questi due provvedimenti, in genere, possono passare molti anni. Senza contare l’iter per la destinazione definitiva. I ritardi processuali però rappresentano solo uno dei problemi. A monte, ci sono sequestri spesso concepiti male, in cui non c’è distinzione tra la natura immobiliare e quella aziendale di un bene, con il paradosso che in qualche caso vengono confiscati solo gli immobili, solo l’azienda o solo le quote societarie. «Specificare cosa è oggetto di sequestro potrebbe aiutare a non far confusione sul patrimonio che poi si va a gestire», spiega Vincenzo Moriello, responsabile legalità di Cgil Lombardia. Amministrare un’azienda, poi, richiede un impegno diverso dalla conduzione di case e appartamenti: ci sono bilanci da controllare, personale da gestire, strategie di mercato da programmare. Non è sostenibile limitarsi alla gestione conservativa, senza verificare se un’azienda può o non può competere sul mercato. E non sempre l’amministratore giudiziario è in grado di fare tutto da solo.

Da anni si invoca una riforma della normativa dei beni confiscati che permetta sin da subito di affiancare, ai giudici in una prima fase e successivamente agli amministratori giudiziari e ai coadiutori, ingegneri, architetti, manager ed esperti in diversi campi a seconda della tipologia di bene. Un team di persone che sia in grado di valutare già in fase di sequestro se un’azienda ha tutte le carte in regola per competere legalmente sul mercato di riferimento: un ristorante non può essere diretto come un call center, anche se è un bene confiscato. «Bisogna inventarsi un sistema di tipo economico per fare in modo che i livelli occupazionali restino uguali a quelli dell’azienda al tempo della gestione mafiosa», sostiene il Procuratore Generale di Milano Roberto Alfonso, convinto che solo garantendo l’occupazione si ottiene l’appoggio dell’opinione pubblica nella lotta alle mafie, specialmente al Sud.

Lo spartiacque in cui molti sperano è la revisione del Codice Antimafia. Il testo, approvato l’11 novembre 2015 alla Camera dei Deputati, è arrivato al Senato dove dovrà essere discusso per l’approvazione definitiva. Oltre ad accelerare i tempi del sequestro e della confisca, prevede l’istituzione di un fondo per le aziende, valutazioni preventive e tavoli permanenti presso le prefetture per il monitoraggio delle condizioni di salute delle imprese. In cantiere poi c’è anche il riassetto dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati che dal 2010 gestisce per conto dello Stato 17.577 beni. Nel 2013 a sottoscrivere la proposta di legge di iniziativa popolare furono 120 mila cittadini. A fronte dei numeri — più del 90% delle imprese sottratte alla criminalità organizzata fallisce dopo la confisca — l’obiettivo era e resta uno solo: rendere più snella ed efficiente la complicata gestione di questo immenso patrimonio restituito alla collettività.

Secondo gli ultimi dati dell’Agenzia nazionale (settembre 2015) fino a oggi in Lombardia i beni confiscati in via definitiva sono 1266, di cui 777 destinati (cioè ricollocati in diversi modi), 454 in gestione e 35 usciti dalla gestione. La Lombardia è quinta fra le regioni per numero di beni confiscati dopo Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. Prima in assoluto fra le regioni del nord Italia. Secondo le statistiche della Cgil Lombardia, le aziende confiscate in via definitiva a maggio 2015 in Regione sono 260 e rappresentano l’11% delle confische nazionali. Di queste, 175 nella sola Milano. Tra i settori più infiltrati dalle mafie ci sono il commercio (27%), alberghi e ristoranti (22%), edilizia (17%) e a seguire attività immobiliari, servizi alla persona, logistica e aziende con interessi nella finanza e nella manifattura. Ciò che distingue la Lombardia dalle altre realtà è la tipologia aziendale: 129 su 260 sono s.r.l., ovvero società a responsabilità limitata che hanno pochi vincoli burocratici e richiedono un investimento iniziale esiguo: il capitale sociale da stanziare è di soli 10 mila euro. Non è secondario, poi, che questo tipo d’impresa si possa facilmente affidare a prestanome, riuscendo così a garantire il gioco di scatole cinesi con cui i clan gestiscono e celano i loro affari.

In Lombardia il numero di confische di rami d’azienda e di società è più alto della media nazionale ed è indicativo di una specifica penetrazione mafiosa nel tessuto economico-produttivo: l’azienda a partecipazione mafiosa. Delle 260 aziende, ad oggi, 119 risultano in gestione, sono cioè in fase di fallimento, in cancellazione dal registro delle imprese o in liquidazione. Alcune di queste sono state sospese o risultano in vendita. Le altre 141, invece, sono uscite dalla gestione perché cancellate dal registro delle imprese, liquidate, vendute o ne è stata revocata la confisca.

Sono pochissime dunque, dati alla mano, le aziende che riescono a sopravvivere. E questo in sostanza perché non sempre si riesce a intervenire in tempo, a salvaguardare il capitale umano e a tenere in attivo la contabilità. Sono due le fasi più delicate: il sequestro e il passaggio alla confisca. Ma un’azienda, se non è solo una lavatrice di denaro sporco, può essere rilanciata. E per farlo serve un team di professionisti che lavori in squadra. É già accaduto quando gli amministratori giudiziari si sono avvalsi della consulenza di manager ed esperti: una procedura non ancora prevista dalla legge ma diventata consuetudine. Tant’è che sono nate associazioni come Manager WhiteList in cui professionisti prestano la loro opera: «Siamo una cinquantina», dice la presidente Paola Pastorino, che insiste sulle tempistiche: «intervenire su un’azienda al momento della confisca significa intervenire su un’azienda già decotta: in molti casi non c’è più nulla da fare».

Non è il caso dell’hotel Moonlight di Siziano. La struttura, che sorge lungo la statale che conduce a Melegnano, è sempre stata aperta sia durante il sequestro che durante tutto il periodo fino alla confisca. Da più di vent’anni, cioè da quando negli anni ’90 l’inchiesta della magistratura tolse ad alcuni esponenti di cosa nostra il complesso, l’attività non si è mai interrotta. Di fatto, dunque, il bene è rimasto nelle mani dello Stato — del Demanio prima e dell’Agenzia poi — senza essere venduto o assegnato. E continua a generare utili. Senza però essere messo al centro di un piano di rilancio che consenta di rendere competitiva sul mercato l’offerta dell’hotel. Un bene su cui dunque i segni del tempo stanno condizionando il valore e compromettendo le potenzialità.

«Vogliamo che lo Stato sequestri e confischi tutti i beni di provenienza illecita, da quelli mafiosi a quelli dei corrotti. Vogliamo che i beni confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i comuni alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi, sicurezza e lotta al disagio». (Incipit della proposta di legge popolare del 1995 per l’approvazione della legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati)

Tredici settembre 1982. Sull’onda emotiva dell’uccisione da parte della mafia dell’onorevole Pio La Torre e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, viene approvata dal Parlamento la legge n. 646, nota come “legge Rognoni-La Torre” e presentata alla Camera più di due anni prima. La norma, fondamentale per il contrasto alla criminalità organizzata, introduce il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. E prevede il sequestro e la confisca dei beni dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza, che siano disponibili direttamente o indirettamente all’indagato per associazione di tipo mafioso. Passano più di 10 anni: il Maxiprocesso di Palermo, la stagione delle stragi con gli assassini dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sconvolgono l’Italia. Nel 1995 nasce Libera — Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, che presenta una petizione popolare culminata con l’approvazione della legge 109 del 7 marzo 1996 per il riutilizzo sociale dei beni confiscati. Da qui si succedono numerosi provvedimenti legislativi che andranno a costituire il Codice antimafia, istituito con il decreto legislativo 159 del 2011. Nel 2010 nasce l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC), posta sotto la vigilanza del Ministero dell’Interno.

Dietro ogni singolo bene, c’è una storia. Dietro ogni storia, una procedura. Ma come funziona l’iter che permette di sottrarre alle mafie la gestione di capitali, appartamenti, fabbriche e attività commerciali? Dapprima c’è il sequestro, disposto dal tribunale nei confronti di un sospettato di appartenere a un’associazione mafiosa quando il valore dei beni risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta. Alla fine del procedimento il sequestro dovrà essere confermato entro un termine prestabilito da un provvedimento di confisca. Con il provvedimento di sequestro viene nominato l’amministratore giudiziario, che ha il compito di custodire, conservare e amministrare i beni e di predisporre delle relazioni. Dopo la confisca di primo grado spetta all’ANBSC decidere la sua destinazione. I beni immobili possono essere venduti, mantenuti al patrimonio dello Stato, oppure destinati agli enti locali che potranno concederli in uso gratuito ad associazioni per finalità sociali. Procedura diversa per le aziende, che restano al patrimonio dello Stato. L’Agenzia può affittarle con un canone (a imprese private o pubbliche) oppure a titolo gratuito a cooperative di lavoratori dipendenti dell’impresa confiscata. Oppure può destinarle alla vendita: come si è visto, però, nella maggioranza dei casi le aziende confiscate imboccano la strada della liquidazione.

Cosa ci dice, insomma, l’esperienza? Che a fronte di tante aziende che non ce la fanno e muoiono sotto i colpi dei ritardi della burocrazia e delle falle normative, ci possono essere anche delle eccezioni, quando tutto si incastra alla perfezione, come in un puzzle dove ogni pezzo è al posto giusto. Tutto sta nella sequenza: prima l’assegnazione di un bene confiscato a un ente locale da parte dello Stato, poi il bando pubblico; la collaborazione stretta tra associazioni che decidono di mettere in comune le loro competenze professionali, la rinascita del bene con ricadute economiche sull’intera comunità. È quanto è accaduto a Rescaldina, paese di 14 mila abitanti in provincia di Milano, dove un’ex pizzeria confiscata alla ‘ndrangheta ha riaperto a dicembre 2015 ed è rinata come “osteria sociale”. L’attività de “La Tela” — questo il nome del locale — è frutto della collaborazione tra due cooperative, quattro associazioni e due enti professionali e attualmente dà lavoro a sei giovani. Dietro questa esperienza c’è un profondo significato: i boss non controllano più questo pezzo di territorio. Qui è lo Stato ad aver vinto, e insieme a esso il buon capitale sociale. Ora l’osteria è un bene di tutti: difficile da accettare per le mafie.

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