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L’obiezione e la coscienza

Scuola di giornalismo Walter Tobagi
in transITion
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14 min readJan 12, 2016

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di Chiara Baldi e Chiara Severgnini

Tre anni dopo Formigoni, in Lombardia un ospedale su tre non fa aborti. Il 70 per cento dei ginecologi è obiettore di coscienza. E le nuove generazioni non sembrano intenzionate a invertire la rotta. Libera scelta? Non molto.

Laura ha poco più di 30 anni. Da qualche mese è stata assunta in un ospedale pubblico della Lombardia e ha scelto di applicare la legge 194, quella sull’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Si è specializzata in una struttura pubblica ma nessuno dei suoi docenti le ha insegnato a praticare aborti. Erano tutti — tutti — obiettori di coscienza. E così, per imparare a fare le ivg Laura ha dovuto chiedere ad altri medici. Sente di aver fatto «una scelta un po’ fuori dal coro»: nel suo ospedale ci sono altri giovani medici che hanno deciso di applicare la 194, ma sa che altrove non è così.

Oggi in Lombardia ci sono sempre meno ginecologi: colpa del blocco delle assunzioni. Gli obiettori, però, sono sempre di più. Secondo un monitoraggio realizzato dal gruppo regionale del Partito Democratico, nel 2012 nelle strutture pubbliche erano il 67 per cento, oggi sono quasi il 70. Solo un ginecologo su tre fa ivg. E così alcuni ospedali non permettono alle donne di interrompere la gravidanza, e molti di quelli che forniscono il servizio ci riescono solo grazie ai pochi non obiettori, oberati da turni e responsabilità in più rispetto ai loro colleghi. Decidere se fare aborti o no, in questo contesto, diventa sempre più una scelta di parte.

Su 736 ginecologi, 511 sono obiettori.
È il 69,4 per cento del totale.

Su 1.068 anestesisti, 473 sono obiettori.
È il 44,3 per cento del totale.

Su 4.542 operatori non medici, tra cui gli ostetrici, 1.534 sono obiettori. È il 33,8 per cento del totale.

Su 94 ospedali con un reparto di ostetricia e ginecologia, solo 62 effettuano ivg. È il 65,95 per cento del totale.

Diritti e doveri

Chi è l’obiettore di coscienza? Nel linguaggio comune, per molto tempo, era chi si rifiutava di prestare servizio militare, rischiando il carcere. Oggi questo significato è scomparso insieme alla leva obbligatoria: l’obiettore di coscienza, nel 2016, è il ginecologo che ha deciso di non praticare aborti. È la legge 194 stessa a prevedere quest’opzione, e non solo per i ginecologi ma anche per ostetrici e anestesisti: rifiutarsi di fare ivg per motivi di coscienza, purché la vita della donna non sia in pericolo, è un diritto.

«Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte (…) agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione. Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare (…) l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale». (Articolo 9, legge 194/78)

Del resto, nel 1978, introdurre la possibilità di obiettare era necessario, e non solo per rendere la legge accettabile ai cattolici. Bisognava tener conto di chi praticava la professione da prima che l’aborto fosse legale, e si voleva tutelare il pluralismo. Ma ora che la legge è vicina al suo quarantesimo compleanno c’è chi vorrebbe abolire o limitare l’obiezione di coscienza. Gli obiettori sono troppi, e non tutti per motivi di coscienza. Ma la legge non può distinguere i primi dai secondi: come si può definire la coscienza da un punto di vista legislativo?

«Agire secondo coscienza è un diritto. Ma esistono anche gli obblighi professionali», avverte Chiara Lalli, filosofa e bioeticista che ha dedicato diverse pubblicazioni al tema dell’aborto. «Si diventa ginecologi per libera scelta — aggiunge — e non per costrizione. In casi simili è legittimo appellarsi alla coscienza per sottrarsi a una parte del proprio lavoro? E poi, perché i medici sì, e altre categorie professionali no? Solo i medici hanno una coscienza?». Ma la questione non si esaurisce nelle scelte personali del singolo: «Il medico obiettore gode di un privilegio: non è costretto a svolgere una parte del suo lavoro. Lo chiamiamo con la stessa espressione che una volta identificava chi si opponeva alla legge per non fare il servizio militare. Ma gli obiettori alla leva erano molto penalizzati, e la loro scelta non andava a ledere diritti altrui».

Negli ospedali lombardi, invece, le scelte di molti ricadono su pochi. Più è alto il numero di obiettori in una singola struttura, più i loro colleghi devono farsi carico di turni e responsabilità per garantire l’applicazione della legge 194.

Tra i giuristi prevale l’idea che l’obiezione di coscienza, in quanto diritto riconosciuto dalla legge, non si possa eliminare. «Anche se si sceglie liberamente di diventare ginecologi — spiega il costituzionalista Davide Paris — questo non significa che l’obiezione sia un privilegio. Abolirla implicherebbe violare il diritto alla libera scelta della professione. Chi rievoca le conseguenze negative cui andavano incontro gli obiettori alla leva dimentica che oggi le riconosciamo come anticostituzionali: perché tornare indietro?».

Obiezione di struttura

Sulla cosiddetta obiezione di struttura, invece, non ci sono dubbi né dibattiti: la legge 194 impone a tutti gli ospedali pubblici e privati convenzionati di assicurare in ogni caso la possibilità di interrompere la gravidanza. Ma in Lombardia ci sono ospedali — anche pubblici — che non lo fanno.

L’azienda ospedaliera di Melegnano, a sud est di Milano, serve circa 630mila abitanti. Tre dei suoi presidi sono dotati di un reparto di ostetricia e ginecologia: Vizzolo, Cernusco-Vaprio e Melzo. Secondo i dati del Pd, nel 2014 a Vizzolo sono state effettuate 256 ivg, a Cernusco-Vaprio 282 e a Melzo, dove tutti e nove i medici assunti erano obiettori di coscienza, zero. Ma qui le ivg erano già state bandite in passato, e per anni. «Il primario non voleva che si facessero aborti, neanche terapeutici», ci ha detto un ginecologo che ha lavorato all’ospedale Santa Maria delle Stelle di Melzo per molti anni. «Ci diceva di dirottare le pazienti alla Clinica Mangiagalli di Milano». Il primario in questione, in carica dal 1999 al 2012, è Leandro Aletti, antiabortista e simpatizzante di Comunione e Liberazione. Nel 2009 ha urlato “assassine” a tre donne che si erano recate al Santa Maria per abortire: la sua stessa direzione sanitaria aveva preso le distanze da lui.

Il primario, a Melzo, è cambiato da anni. Eppure nel 2014 il servizio ivg continuava a non essere attivo. Di fronte a un dato simile, è lecito chiedersi se non si tratti di un’obiezione di struttura. Ma cosa si intende per “struttura”? La 194 parla di «enti ospedalieri» e «case di cura autorizzate», «tenuti in ogni caso ad assicurare (…) l’effettuazione degli interventi di ivg». I primi non esistono più, perché nel 1992 sono state istituite le aziende ospedaliere che accorpano più ospedali. Le seconde non sono altro che le cliniche private convenzionate con il sistema sanitario regionale. Per quanto riguarda le strutture pubbliche, l’interpretazione prevalente è che l’obbligo di assicurare l’applicazione della 194 riguardi l’intera azienda, non i singoli presidi. Nel caso di Melegnano, quindi, dal punto di vista formale non ci sarebbe obiezione di struttura. «Per le aziende è legittimo scegliere di attivare il servizio ivg solo in alcuni dei loro presidi per ragioni di efficienza o di organizzazione — spiega Paris — ma, in termini generali, non si può escludere che in alcuni casi questa argomentazione venga stiracchiata per mascherare un’obiezione di struttura di fatto».

Nel 2014 le 538 ivg dell’azienda di Melegnano sono state effettuale dai cinque non obiettori di Vizzolo e Cernusco, con l’aiuto — racconta il ginecologo che abbiamo intervistato — di un consulente esterno. Un gettonista, un medico che l’azienda ospedaliera assume a contratto quando non dispone di abbastanza ginecologi non obiettori. Avremmo voluto chiedere al direttore sanitario dell’ospedale di Melzo, il dottor Carmelo Lopez, i motivi per cui nella sua struttura non è stato ripristinato il servizio ivg, magari assumendo un consulente, ma l’ufficio stampa non ha risposto alla nostra richiesta di intervista.

255.556 euro: è questa la spesa totale del servizio sanitario regionale per l’impiego dei “gettonisti”, nel 2014

Secondo l’indagine del Pd, almeno nove aziende ospedaliere lombarde ricorrono ai consulenti per assicurare l’applicazione della 194. In un anno il costo di queste prestazioni può andare dai 10mila euro di Desenzano del Garda agli 80mila del Niguarda di Milano, e a pagare è la Regione. Possiamo considerare il costo dei gettonisti come una conseguenza dell’elevato tasso di obiezione? «Credo proprio di sì», ci ha detto il dottor Spreafico. Lui, che al Bassini aveva lavorato per più di trent’anni, aveva un compenso forfettario. Ma è un’eccezione: il nome stesso suggerisce che i “gettonisti” sono per lo più pagati a prestazione. Alcuni di loro lavorano per diversi ospedali, e sulle ivg hanno costruito un’intera carriera. E così le scelte di coscienza dei singoli creano una figura professionale ad hoc, che si fa carico — a spese dei contribuenti — degli aborti che i colleghi non vogliono fare. Quasi un paradosso.

I motivi di una scelta

Per capire le motivazioni che spingono i medici a optare per una o per l’altra scelta abbiamo incontrato una decina di ginecologi. Il risultato è una trama in cui si intrecciano vissuto personale e convinzioni religiose, militanza politica e stress lavorativo, senso del dovere ed esperienze professionali. Molti non obiettori sostengono che l’obiezione di coscienza sia spesso una maschera indossata per nascondere motivazioni tutt’altro che etiche: firmare la dichiarazione di obiettore significa rinunciare ai turni per le ivg, agli aborti urgenti nelle ore di reperibilità e ai rischi che si corrono nel fare un’operazione chirurgica in cui qualcosa può sempre andare storto. Tanto più che si tratta di un intervento routinario, tecnicamente semplice e poco gratificante: non fa curriculum, non offre spunti per pubblicazioni prestigiose, non aiuta la carriera. Dall’altra parte della barricata, alcuni obiettori negano: l’obiezione di comodo, secondo loro, non sarebbe che uno strumento di propaganda degli abortisti.

E poi c’è chi lo dice apertamente: «C’è chi obietta per lavorare meno, o chi, dopo anni a praticare aborti, si stanca dei turni dovuti agli alti tassi di obiezione”. Sono tanti gli obiettori di comodo? «Il 90 per cento”, dice qualcuno. «Il 70 per cento”, secondo qualcun’altro. Per quasi tutti, comunque, sono la maggioranza. L’obiettore di comodo lo citano in tanti, ma nessuno si dichiara tale.

Capita poi che l’obiezione di coscienza sia condizionata da esperienze personali, come nel caso di ginecologhe che non riescono ad avere figli e, per questo, non se la sentono di interrompere le gravidanze altrui. Altre volte ad essere decisivi sono fattori esterni, come la tecnologia. Grazie ai progressi nelle tecniche ecografiche, quello che avviene nell’utero è sempre più chiaro a chi sta dall’altra parte del monitor. Il ginecologo, più che il medico della donna, diventa il medico del feto; e il feto, più che un feto, un bambino. E così l’ivg diventa una procedura sempre più sgradita. Poi c’è chi obietta perché contrario alla 194. Secondo Paris, l’obiezione diventa in questi casi un «improprio strumento di lotta politica»: «la ratio della legge — spiega — non è quella di permettere a una ristretta cerchia di consociati di contestare una scelta democraticamente legittimata contestandone l’applicazione».

Non per sempre

«Credevo nella 194. Ma bisogna distinguere: un conto sono le donne che abortiscono ma vivono questa scelta con sofferenza, un altro quelle che considerano l’aborto un contraccettivo».

Matteo, nome di fantasia di un ginecologo 40enne che lavora in un ospedale pubblico milanese, ci racconta che all’inizio della sua carriera non era obiettore. Ma la scelta, in un senso o nell’altro, non è per sempre, nonostante la dichiarazione che si deposita in direzione sanitaria per sollevare obiezione. «Ci sono persone che ti fanno venire il vomito — continua il medico — a 20 anni sono già al terzo aborto. Io non voglio essere il braccio di quella roba lì».

Incontriamo un altro ex non obiettore, stavolta di Melegnano: un medico che all’inizio degli anni ’90, dopo più di dieci anni di carriera, ha deciso di non fare più aborti. «Non ne potevo più. Alcune donne mentivano sulla data dell’ultima mestruazione: durante l’intervento scoprivo che il feto aveva più di 12 settimane, a volte li tiravo fuori a pezzetti».

Non è stato facile intervistare gli obiettori, anche se sono la maggioranza. Spesso sono schivi e molti chiedono di non essere citati per nome. Sono convinti che la loro scelta non riguardi che loro. I non obiettori, invece, sono più disponibili a raccontarsi. «Chi decide di fare ivg lo fa veramente per scelta etica — ci ha raccontato una specializzanda di Varese — perché si accolla delle responsabilità in più, quindi ci deve credere per forza». Quando la legge è stata scritta si pensava che gli obiettori sarebbero stati delle eccezioni alla norma, ma le cose sono andate diversamente. Non obiettare è una scelta cui si arriva per motivazioni precise: una forte etica del lavoro, la convinzione che le leggi dello Stato debbano essere applicate e, per i più anziani, il ricordo della stagione in cui l’aborto era clandestino. I giovani ginecologi non hanno vissuto in prima persona queste conquiste. Se non scelgono l’obiezione è perché credono che sia la cosa giusta da fare: «Il numero di aborti — ci ha detto Laura — è in calo: questa è la prova più bella dell’efficacia della legge, che non ci impone solo di fare ivg, ma anche di occuparci della prevenzione».

“L’abortificio”

Con 1.342 interruzioni volontarie di gravidanza nel 2014, la Clinica Mangiagalli di Milano, un centro d’eccellenza per l’ostetricia e la ginecologia, è considerata da alcuni «l’abortificio della Lombardia». Qui i ginecologi non obiettori sono 26 contro i 39 obiettori: è l’ospedale che dispone di più medici per garantire l’applicazione della legge in tutta la Regione. Non a caso è tra i pochi a effetturare ivg quattro giorni a settimana, mentre altrove gli aborti non d’urgenza vengono concentrati in un solo giorno.

Per anni a gestire il servizio di ivg è stata la dottoressa Uglietti, ma da settembre, dopo il suo pensionamento, l’incarico è stato attribuito al dottor Giorgio Aimi, che lo racconta così: «È una macchina che funziona e non c’è motivo di cambiare le cose». Ma organizzarla non è semplice. «Nessuno di noi, me compreso, fa solo ivg: bisogna incastrare i turni per lasciar tempo ai colleghi di dedicarsi anche ad altro, e la richiesta è alta», spiega Aimi. A volte sono gli altri ospedali lombardi a dirottare sulla clinica milanese le loro pazienti: se sono quasi alla scadenza dei termini di legge (90 giorni), lì hanno più chance di ottenere un appuntamento in tempi rapidi.

Alla Mangiagalli dal 1984 ha sede il Centro di Aiuto alla Vita (Cav), ideologicamente contrario all’aborto, che offre sostegno, anche economico, alle donne incinte in difficoltà. Ma l’atmosfera che si respira in ospedale è laica. Gli specializzandi che si formano in un ambiente simile sono meno condizionati nel momento della scelta tra obiezione e non obiezione. Da altre parti non è così.

«Le pressioni esistono, in un senso o nell’altro, a seconda di dove si fa la specialità», racconta Laura. «Se il primario è particolarmente contrario all’interruzione di gravidanza ci si può sentire obbligati a obiettare per evitare problemi. E se ti formi in una struttura che ha carenza di non obiettori può capitare che ti facciano capire che una scelta in questo senso sarebbe gradita».

Ideologia e tradizioni

Il contesto fa la differenza. A dirlo è anche Eleonora Cirant, una giornalista che all’aborto in Lombardia ha dedicato numerosi articoli. «Ci sono ospedali dove il servizio di ivg funziona bene perché è radicato nella loro storia: un esempio è il San Carlo Borromeo di Milano, dove alle donne che abortiscono viene proposto l’inserimento gratuito della spirale contraccettiva. Tutto questo è un’eredità di uno dei padri della 194, il dottor Mauro Buscaglia, che è scomparso nel 2012 ma ha lasciato il segno. In altri ospedali il ragionamento si rovescia: se le ivg sono sempre state marginalizzate, è più facile che rimangano tali».

Così, quando si sceglie se obiettare o no, entra in gioco un’interferenza esterna. E la sua influenza non è trascurabile, come spiega l’antropologa Silvia de Zordo, autrice di una ricerca sul tema di prossima pubblicazione: «I cambiamenti tecnologici che avvicinano i ginecologi ai feti e le questioni etiche più intime sono uguali da tutte le parti, eppure in alcune zone ci sono tassi di obiezione significativamente più alti che in altre: l’ambiente gioca un ruolo fondamentale».

Non conta solo la tradizione del singolo ospedale. «Quando lavoravo come consulente a Cantù — racconta Spreafico — c’era una signora che si presentava all’ambulatorio ivg e ci dava degli assassini, sia a me e ai miei colleghi sia alle donne. Un giorno ho chiesto l’intervento delle forze dell’ordine, ma non c’è stata alcuna conseguenza per la signora, tanto che dopo un po’ si è ripresentata». Episodi simili non sono rari, anche nelle grandi città, e rischiano di condizionare la scelta dei medici.

E poi c’è il contesto politico. Il coro dei ginecologi che rimproverano alla Regione un approccio di parte è quasi unanime. «Sappiamo che la Lombardia ha una gestione contraria all’aborto: anche dopo l’arrivo di Maroni le cose sono rimaste invariate», sostiene il dottor Spreafico. La stessa accusa arriva dal Pd lombardo: «C’è una chiara pregiudiziale ideologica che non è cambiata con la giunta Maroni», afferma Sara Valmaggi (Pd), vicepresidente del Consiglio Regionale.

La «pregiudiziale ideologica» viene confermata anche da altri. Non è un segreto che le posizioni apicali negli ospedali siano tutte politiche: i direttori sanitari vengono nominati dalla Regione e sono loro a scegliere i primari, due figure che possono influenzare non poco il contesto ospedaliero. «Alcuni primari quando vengono assunti pongono come condizione quella di portare con sé determinati colleghi», spiega il dottor Spreafico. Nel 2014, all’ospedale di Iseo, nel reparto di ginecologia e ostetricia, tra ginecologi, personale non medico e anestesisti erano in 46, tutti obiettori di coscienza. In molte regioni sono le cliniche private a fare la maggior parte degli aborti, ma non è il caso della Lombardia, dove il 99,9 per cento delle interruzioni nel 2013 è stato fatto in una struttura pubblica. La 194 prevede che anche le private convenzionate forniscano il servizio ivg, ma nella regione più popolosa d’Italia questo non accade. Il motivo? La Regione non chiede loro di farlo. Abbiamo contattato il Presidente Roberto Maroni, che è anche assessore pro tempore alla Sanità, per chiedergli chiarimenti, ma non si è reso disponibile per un’intervista.

Aborto in pillola

E poi ci sono i dati sull’aborto farmacologico, introdotto in Italia nel 2009. Nel 2014, in Lombardia, solo il 4,5 per cento delle ivg sono state effettuate con la pillola abortiva Ru486. In Emilia Romagna la percentuale sale al 21, 8 per cento. Perché? «Il problema sono i tre giorni di ricovero imposti dalla Regione per l’aborto farmacologico», spiega il ginecologo di Melegnano. «Spingono le donne a preferire le ivg chirurgiche, che si fanno in giornata». Mentre in Emilia la pillola abortiva viene somministrata in day hospital, in Lombardia l’informativa da sottoporre alle pazienti enfatizza il ricovero di 72 ore, frutto di un’applicazione alla lettera delle linee guida ministeriali — non vincolanti — sulla Ru486. E così la pillola abortiva la scelgono in poche, e quasi tutte firmano per essere dimesse in anticipo. «In tanti anni a me è successo solo due volte di vedere una paziente restare per tutti e tre i giorni — prosegue il ginecologo — ma per l’ospedale il problema rimane, perché il letto deve essere garantito anche se sappiamo tutti che quasi nessuna lo occuperà per il tempo consigliato dal Ministero». Nel 2014, trenta ospedali pubblici lombardi non hanno effettuato alcun aborto farmacologico: molti non lo propongono neanche alle pazienti.

Dietro alla scelta di applicare pedissequamente le linee guida ministeriali sull’aborto farmacologico, come dietro a quella di permettere alle cliniche private di non attivare il servizio ivg, sembra esserci non tanto una particolare attenzione verso le pazienti, quanto quella «pregiudiziale ideologica» di cui molti accusano la Regione, eredità della giunta di Roberto Formigoni (1995–2013). È stato il suo Consiglio Regionale, nel 2007, a introdurre il «modulo di sepoltura dei feti»: un atto che impone alle direzioni sanitarie di informare i «genitori» della possibilità di seppellire i feti abortiti, compresi quelli sotto le 20 settimane. Anche in assenza di una loro esplicita richiesta, però, le strutture sono comunque tenute a procedere con la tumulazione. Anche quando l’aborto è stato volontario.

«Bomboniere: noi le chiamiamo così. Sono le piccole casse in cui l’ospedale deve mettere i prodotti abortivi». A raccontarlo è il dottor Spreafico, che ne parla più come di una scorrettezza imposta dall’alto che di una premura verso le pazienti. «Alcuni ospedali non lo fanno, ma in teoria è obbligatorio. E alza i costi».

«Tutti gli aspetti legati alla salute riproduttiva — ci ha detto la dottoressa Uglietti — sono invasi, anche a discapito della serietà scientifica, da considerazioni di tipo ideologico». Tutti i medici con cui abbiamo parlato, obiettori e non obiettori, concordano su una cosa: abortire in Lombardia non è impossibile, né particolarmente difficile.

Quello che sembra impossibile, per un ginecologo, è scegliere liberamente se fare obiezione di coscienza oppure no.

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