Sogni d’azzurro

Scuola di giornalismo Walter Tobagi
in transITion
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10 min readMay 12, 2016

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di Antonio Lusardi e Roberto Bordi

“L’importante non è vincere, ma partecipare”. È la frase che si usa ogni quattro anni per celebrare l’avvenimento sportivo più importante al mondo: i Giochi Olimpici, che nel 2016 si svolgono a Rio de Janeiro, in Brasile, dal 5 al 21 agosto. Pochi sanno che l’aforisma, attribuito all’ideatore delle Olimpiadi moderne, il francese Pierre De Coubertin, prosegue con un secondo verso: “La cosa essenziale non è la vittoria, ma la certezza di essersi battuti bene”.

Ammettiamolo. Sono massime valide per tutti, fuorché per chi si allena duramente in vista di un appuntamento speciale come le Olimpiadi. Specialmente se gli atleti in questione non ricevono stipendi da nababbi, come accade per il ventisettesimo sport olimpico: il calcio. Già, il ventisettesimo, perché ce ne sono altri 26 che qualche pressapochista osa definire “minori”.

A partire da una disciplina che trova nel combattimento con armi incruente la sua ragion d’essere: la scherma. Lo sport che con 121 medaglie, di cui 48 d’oro, ha dato all’Italia il maggior numero di soddisfazioni olimpiche. Nedo Nadi, Edoardo Mangiarotti e la più “moderna” Valentina Vezzali gli schermidori azzurri più titolati, con sei allori a testa.

Un curriculum eccezionale che sperano di ripercorrere due giovani spadisti siciliani — per la precisione catanesi — al loro debutto in un’Olimpiade: Marco Fichera ed Enrico Garozzo. Pronti a volare a Rio con la spada in una mano e la sfrontatezza nell’altra. Perché a vent’anni e poco più, come diceva il cantautore militante Claudio Lolli, si è ricchi di sogni.

Se la scherma è la regina incontrastata dello sport italiano, c’è un’altra disciplina olimpica che si piazza al sesto posto nella classifica del medagliere olimpico assoluto azzurro: il tiro a volo, che ha portato all’Italia 12 medaglie del metallo più pregiato. Una di queste l’ha conquistata nel 2004 Andrea Benelli, attuale Direttore Tecnico della Nazionale italiana, nella specialità dello skeet. «Si tratta solo di una delle tre varianti del nostro sport, insieme alla fossa e al double trap», spiega Benelli, raggiunto al telefono il giorno prima di partire alla volta di Rio de Janeiro per la “ricognizione pre-olimpica”. «Il tiro a volo ha una buona diffusione sul territorio nazionale, con circa 500 campi di tiro dove sparano 25 mila tesserati. L’equipaggiamento di base di ogni tiratore? In primis il fucile, procurato dalle società sportive e che non richiede il porto d’armi. Per quanto riguarda l’abbigliamento, è relativamente semplice: cappellino, occhiali con lenti particolari, paraorecchie, maglietta, pantaloncini e gilet. Oltre alle macchine lanciapiattelli. E sei pronto per salire in pedana».

A dire il vero, per diventare un bravo tiratore occorrono anche certe qualità: riflessi pronti, un’ottima preparazione fisica e soprattutto «la capacità di rimanere concentrati a lungo. Una gara di tiro a volo può durare diverse ore e basta sbagliare un paio di colpi per finire subito out», racconta il DT della Nazionale, a cui nel 2004, alle Olimpiadi di Atene, non bastarono 149 colpi su 150 per battere subito il finlandese Kemppainen (ci volle lo spareggio!). «Le differenze tra le tre specialità in estrema sintesi. Nello skeet ogni tiratore si alterna su otto pedane, in attesa dei due piattelli che possono essere sparati da destra come da sinistra in un tempo di lancio che può variare, dalla chiamata del tiratore, da zero a tre secondi. Mentre nella fossa (o trap) le pedane sono solo cinque, ma a differenza dello skeet la direzione del piattello può variare di 90° sul piano orizzontale e da 150 a 350 cm in altezza, il double trap prevede che il tiratore intercetti due piattelli lanciati simultaneamente, con traiettoria fissa, da due delle tre macchine presenti».

Ma per tirare non è indispensabile abbattere un piattello con il fucile. Possono bastare un bersaglio, una freccia e un attrezzo ad hoc. L’arco, nato come come strumento di offesa e di caccia, nel XX secolo è stato adattato alla pratica sportiva attraverso una serie di innovazioni tecnologiche. «Riser, dragona, clicker, patella sono tutti accessori di un arco professionale. Ma tirare è più semplice di quanto sembri», racconta il campione Mauro Nespoli. Vogherese, classe 1987, Nespoli ha vinto l’argento a Pechino e l’oro a Londra nella prova a squadre maschile.

Una passione nata per caso in una piccola località della provincia di Sondrio. «Avevo 10 anni ed ero in vacanza ad Aprica con i miei genitori. È lì che ho imbracciato per la prima volta un arco, quasi per gioco. Poi, tornato a Voghera, ho scoperto che in città c’era un campo di tiro. E da quel giorno non ho più smesso». A differenza del tiro a volo, il movimento italiano di tiro con l’arco dispone di un Centro federale, situato a Cantalupa, in provincia di Torino. Ciò non toglie che la pratica di questo sport sia fortemente decentralizzata. Secondo Nespoli, «in Italia ci sono campi di tiro un po’ ovunque, anche in paesini di provincia: il caso di Cantalupa è evidente. Eppure, abbiamo un grosso problema: non ci sono polisportive come per esempio in Corea, il Paese che più ci fa concorrenza nella mia specialità. Da noi manca un progetto sportivo a 360 gradi — prosegue l’arciere piemontese — per coinvolgere più discipline e persone possibili. Anche a Voghera, per praticare più di uno sport, occorre andare da una parte all’altra della città. In questo possiamo e dobbiamo migliorare».

Il tiro con l’arco ha il vantaggio notevole di non avere bisogno di strutture particolari per essere praticato. Basta un tappeto erboso di 50 metri di linea di tiro e di 200 metri di profondità. Oltre all’arco, naturalmente, che arriva a costare anche più di 1000 euro. Bazzecole, rispetto al prezzo della bicicletta avveniristica di Francesco Ceci, campione italiano di ciclismo su pista. Nato ad Ascoli nel 1989, si è trasferito da più di un anno a Montichiari, in provincia di Brescia.

Il motivo? Si allena nel velodromo cittadino, l’unico in Italia al coperto omologato dall’Unione ciclistica internazionale. Ma gestirlo… Che fatica! Specie se a farlo non è la Federazione competente, ma un’associazione senza scopo di lucro, di cui è responsabile l’ex agricoltore in pensione Pietro Bregoli. «Inaugurato nel 2009, il “nostro” velodromo vive tutti i giorni grazie all’attività di volontariato prestata da cinque persone. Ma le spese sono ingenti. La struttura va riscaldata e illuminata — racconta Bregoli — con lampade e luci da sostituire ogni quattro mesi. Per non parlare della pulizia del legno della pista, un anello che necessita di essere sempre in condizioni impeccabili per ragioni di sicurezza».

Già, la pista. Realizzata con listelli di pino siberiano, è lunga 250 metri e ha una pendenza massima del 43 per cento. È un attimo perdere l’equilibrio, specialmente quando si corre ad altissime velocità (si arrivano a sfiorare i 90 km orari). Sulla pista si sale attraverso una passerella collegata alla parte interna dell’anello, dove è presente la zona che ospita i tecnici, le attrezzature ginniche, le biciclette e gli atleti impegnati nel riscaldamento. Mentre alzando gli occhi al cielo, lo sguardo si perde nella conformazione futuristica della copertura, articolata in 6506 pezzi d’acciaio tenuti insieme da 1506 nodi poliedrici. Una struttura costata circa 15 milioni di euro.

Per fortuna, non tutti gli sport richiedono impianti del genere. È il caso del canottaggio, che ha il suo Centro di preparazione olimpica a Piediluco, in Umbria, sulle sponde del lago omonimo, dove gli atleti della Nazionale preparano i grandi appuntamenti internazionali. Questo sport, diventato epos grazie alle memorabili telecronache di Giampiero Galeazzi, è ad alto contenuto tecnologico. Dalle barche in fibra di carbonio agli strumenti per test innovativi e tecnici di alto livello, la Federazione italiana di canottaggio finanzia le sue attrezzature con i contributi del Coni e degli sponsor.

Il vantaggio di concentrare tutte le attività in un unico Centro? La possibilità di armonizzare lo stile di voga e migliorare il più possibile la preparazione degli atleti in vista delle Olimpiadi di Rio, che a oggi (fine aprile) vedranno partecipare complessivamente 5 equipaggi. Il Centro di Piediluco è il cuore del movimento remiero italiano, dove la giornata-tipo dei nostri atleti si svolge secondo un copione prestabilito. Sveglia presto, allenamento, briefing tecnico, debriefing di fine mattinata, pausa pranzo, riposo, allenamento pomeridiano e briefing finale di giornata. Tutto si svolge in un contesto dove convivono oltre 150 persone tra atleti, dirigenti, tecnici e staff medico.

A livello locale, per il canottaggio come per le altre discipline olimpiche, la pratica sportiva è possibile grazie al lavoro di migliaia di società private, affiliate ognuna alla rispettiva Federazione. In Italia, ogni Federazione sceglie una strada diversa, organizzando in modo autonomo le proprie attività, pur nel rispetto delle regole e delle modalità dettate dal Coni. «Un modello diverso dalla Francia, dove esiste un Centro federale unico che raggruppa tutte le Federazioni sportive nazionali. E diversissimo dalla Cina…», racconta Yang Min, ex olimpionico di tennis tavolo, nato a Shanghai nel 1963.

Yang, che ha partecipato ai Giochi di Atene con la maglia azzurra (ha preso la cittadinanza italiana dopo essersi trasferito a Cagliari nel 1988), racconta in un perfetto italiano l’intreccio che in Cina lega lo Stato allo sport. «Nel “mio” Paese esiste l’Amministrazione generale dello sport, un dipartimento governativo che coordina e gestisce tutte le attività di organizzazione e promozione delle pratiche sportive. Da esso dipendono gli oltre 3 mila training centers cinesi dove i ragazzi si dividono tra studio e sport».

Gli allenamenti sono duri e selettivi, improntati a una severissima disciplina, che alcuni, in Occidente, assimilano alla tortura. «Che esagerazione! In estremo Oriente c’è solo una diversa mentalità», spiega Yang Min. «Nonostante i cambiamenti economici e politici degli ultimi anni, con l’apertura del Partito agli sponsor privati in campo sportivo, in Cina vige ancora il modello di insegnamento che era adottato dal Giappone degli anni Sessanta. Per raggiungere ogni obiettivo — scandisce l’ex campione di ping pong — è necessaria la di-sci-pli-na».

In Cina lo sport è praticato dai giovani di ogni età, dall’infanzia fino all’Università. Gli atleti più meritevoli sono scelti al termine di selezioni durissime, proprio come avveniva ai tempi di Yang Min ma, a differenza del periodo della “Rivoluzione culturale”, possono decidere di allenarsi all’estero, senza dipendere per forza dallo Stato sotto il profilo economico. Eppure, chi vince una medaglia olimpica non può ritirarsi quando vuole. È il Partito ad avere l’ultima parola. Un modello che di recente, come spiega Yang Min, è stato parzialmente rivisto, con un’apertura economica (oltre che “mentale”) che ha consentito alla Cina di passare dalle 54 medaglie di Barcellona 1992 alle 100 di Pechino 2008, con una sostanziale tenuta nei Giochi di Londra 2012 (88 podi).

Tornando all’Italia, la pratica sportiva non è un monopolio delle associazioni private. Basti pensare che il 67 per cento degli atleti azzurri che hanno partecipato alle scorse Olimpiadi di Londra era tesserato per un gruppo sportivo militare. Infatti, nel solco di una tradizione che affonda le proprie radici negli ultimi anni del XIX secolo, nel nostro Paese le Forze Armate e di Polizia dispongono di sezioni che si occupano di organizzare l’attività sportiva (anche agonistica) dei propri membri. Emblematico il caso dell’arciere Mauro Nespoli, che gareggia per il Centro sportivo dell’Aeronautica militare, mentre gli spadisti Garozzo e Fichera combattono rispettivamente sotto le insegne del Corpo dei Carabinieri e della Polizia di Stato.

Cosa significa? Che gli atleti cosiddetti “militari”, compresi quelli iscritti ai gruppi sportivi delle Forze di Polizia (Fiamme Gialle per la Guardia di Finanza, Fiamme Azzurre per la Polizia penitenziaria e così via), hanno lo stesso grado — e lo stesso stipendio — di chi è in servizio nelle forze armate. Una misura, disciplinata attualmente dalla legge 78 del 2000, che consente agli atleti militari di concentrarsi soltanto sull’attività sportiva. A cui si aggiunge la possibilità, a fine carriera, di proseguire la vita lavorativa all’interno del proprio corpo di appartenenza, non necessariamente in campo sportivo. Ovviamente, l’ingresso nei gruppi sportivi è vincolato al possesso di due requisiti essenziali: età tra i 17 e i 35 anni e il conseguimento di “risultati agonistici almeno di livello nazionale certificati dal CONI”.

Ma quanto arriva a guadagnare un atleta olimpico? I fattori che incidono sullo stipendio di uno sportivo professionista sono tanti. Ragionando in termini standard, le principali fonti di reddito sono: lo stipendio della società sportiva (o del corpo militare) di appartenenza; i contributi versati dalla Federazione; i soldi versati dagli sponsor e i premi incassati per iscriversi — e magari trionfare — alle competizioni internazionali. Pur senza riportare cifre precise, gli atleti intervistati nel nostro reportage hanno fatto intendere di disporre di un guadagno base nella norma, a cui si aggiungono introiti supplementari legati alle prestazioni.

Un aspetto che incide in maniera determinante sulle motivazioni di questi atleti, che sanno di dover dare il massimo, in allenamento come in gara, per conseguire ottime gratificazioni economiche. Inoltre, ci sono almeno 140 mila motivi per cercare di vincere una medaglia d’oro olimpica. 140 mila come il premio in Euro che il Coni ha versato a ogni atleta azzurro salito sul gradino più alto del podio ai Giochi Olimpici di Londra 2012, a cui si aggiungono 75 mila euro per la medaglia d’argento e 50 mila per quella di bronzo.

D’altronde, non si vive di sola gloria. La stessa gloria che Valeria Straneo, nata ad Alessandria nel 1976, ha saputo conquistare grazie allo sport a cui è associata da sempre la parola fatica: la maratona. 42 chilometri — e 195 metri — infiniti, da percorrere con il mix giusto di testa e gambe.

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