Stato d’azzardo

Scuola di giornalismo Walter Tobagi
in transITion
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13 min readMay 10, 2016

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di Andrea Cominetti e Michela Rovelli

Un edificio color prugna con i vetri oscurati e un chiaro invito a oltrepassare le porte scorrevoli. Sopra, le lettere dei colori dell’arcobaleno promettono “Las Vegas”. Ma dentro non c’è lo stesso sfarzo del Bellagio e degli altri casinò a stelle e strisce. Forse perché Milano non è la città del Nevada. E viale Jenner non è Las Vegas Strip. Sono in molti, però, a entrare in questa sala giochi e tentare la fortuna con videolottery e slot machine. Per cercare di fermare il tempo, annullare la realtà, dimenticare i problemi.

Qualche civico più in là c’è il Bar Persefone. Il primo locale di Milano a ricevere il certificato “no slot”. Un gesto netto, via le macchinette. Così il titolare Giuseppe Stallone ha iniziato, nel febbraio 2013, la sua piccola battaglia contro il gioco d’azzardo. «Anche il caffè è più buono nei bar senza slot», recita il motto del Comitato Jenner-Farini, l’associazione di quartiere che da tre anni premia le realtà che hanno seguito l’esempio di Stallone. Nato nel 2008, su base volontaria, con lo scopo di valorizzare un’area in profonda trasformazione, a una fermata di metropolitana dal nucleo di grattacieli di Garibaldi. È stato Luca Tafuni, fondatore e portavoce, a proporre la certificazione dei bar senza slot. E l’iniziativa ha superato i confini di zona. A oggi, sono una dozzina i bar che hanno aderito in tutta la città: dagli esercizi più centrali, nelle traverse di via Torino e vicino a Piazza Fontana, a quelli in aree più periferiche, come viale Zara.

Quella del Comitato Jenner-Farini è solo una delle tante iniziative nate dal basso per contrastare il gioco d’azzardo patologico. Gruppi di autoaiuto — per giocatori e famiglie — che si affiancano ad associazioni da tempo impegnate nella cura e nella prevenzione della malattia. Un problema marginale o un’epidemia? La ludopatia — più scientificamente nota come gioco d’azzardo patologico (o GAP) — è diffusa ma non si sa quanto. È noto il numero di persone che si sono rivolte ai servizi pubblici — Asl e Sert — ma non c’è una catalogazione sistematica a livello nazionale, né un metodo di valutazione unico. Gli ultimi dati disponibili risalgono a uno studio del ministero della Salute pubblicato nel 2012. Sono circa il 54% gli italiani che avevano giocato almeno una volta nei precedenti dodici mesi. E un numero compreso tra lo 0,5% e il 2,2% i giocatori compulsivi, tra i 300 mila e gli 1,3 milioni di persone. Ma questi risultati non tengono conto di tutti coloro che si sono rivolti ad associazioni del terzo settore o a privati.

Tante le sfaccettature del GAP: dalla diretta gestione delle problematiche psicologiche alle conseguenti ricadute economiche sulle finanze, senza dimenticare le dinamiche negative che si vengono a formare. Soprattutto nelle famiglie coinvolte. Con il decreto Balduzzi del 2012, prevenzione, cura e riabilitazione di chi è affetto da ludopatia sono rientrate nei “livelli essenziali di assistenza” garantiti dallo Stato. Da qui la creazione di un Osservatorio sulla dipendenza da gioco d’azzardo — prima sotto l’Agenzia delle Dogane e del Monopoli, poi, da circa due anni, sotto il ministero della Salute — che ha redatto un Piano d’azione nazionale per il biennio 2013–2015.

Limitazione della pubblicità e degli orari del gioco, distanze minime dai luoghi sensibili per l’installazione delle slot. Comuni e Regioni si sono dati da fare negli ultimi anni per dare una risposta e per arginare i danni del gioco d’azzardo patologico. Ciò che manca è un coordinamento nazionale. D’altronde, le entrate che il gioco d’azzardo porta allo Stato sono tante, circa otto miliardi di gettito fiscale solo nel 2014. Più di 84 miliardi i soldi scommessi dagli italiani nella rete fisica e online, con vincite che toccano quasi i 67 e perdite pari a 17 miliardi e mezzo. I ricavi maggiori — intorno ai quattro miliardi — vengono dalle macchinette: slot machine e videolottery. Sono circa 400 mila le prime, oltre 50 mila le seconde, sparse in 89 mila esercizi e 5 mila sale gioco. Sta tutto qui, in questo conflitto di interessi, la fatica dello Stato nello scrivere una legge nazionale.

I dati del 2014, tra le altre cose, hanno confermato il primato della Lombardia in questo settore (un giro d’affari di quasi 14 miliardi). E, in particolare, hanno consegnato — per il secondo anno consecutivo — la maglia nera del gioco d’azzardo alla città di Pavia.

Una notizia che ha fatto il giro del mondo: nel dicembre 2013 il New York Times — in prima pagina — l’ha incoronata capitale italiana del gambling. La cittadina, a 40 km da Milano, contava una macchinetta ogni 104 abitanti. Una popolazione di circa 70.000 persone che spendeva ogni anno in media 1.634 euro in slot. L’alta densità di punti da gioco ha portato con sé la diffusione della ludopatia.

Il primo ad occuparsi del problema nell’area pavese è stato lo psicologo Simone Feder. Da molti anni lavora nella comunità “Casa del Giovane”, dove è coordinatore dell’area Giovani e Dipendenze. I casi di persone e famiglie rovinate dalle slot sono aumentati sempre più. Feder vede le ricadute sui ragazzi e decide nel 2004 di fondare il Movimento No Slot. Che oggi si è diffuso in tutta la Lombardia, con tante associazioni e comitati che combattono per prevenire e curare il gioco d’azzardo patologico. «Il terzo settore è stato lo stimolo principale», spiega il sindaco di Pavia Massimo Deapoli, eletto proprio nel 2013. «Le realtà già presenti sul territorio hanno preparato le istituzioni sul problema. C’erano già azioni educative nelle scuole, così come sportelli di consulenza. Tutto questo ha fatto sì che le nostre azioni avessero poi successo. Se non ci fossero state queste associazioni, non ho timore a dirlo, avremmo ottenuto sì risultati, ma non così solidi e radicati».

Pavia ha reagito. Il Comune nel 2014 ha emesso un’ordinanza limitando gli orari di gioco a sette ore al giorno. Ventitré bar — su più di un centinaio — hanno scelto di eliminare le macchinette dai loro locali. Ad occuparsi, più di ogni altro, del gioco d’azzardo, è stata la vice-sindaco Angela Gregorini. Che oggi è contenta del risultato raggiunto nel primo anno di battaglia. Pavia non è più capitale d’azzardo. Lo scettro si sposta pochi chilometri più in là, a Voghera.

A Pavia c’è anche chi affronta la questione del gioco patologico da un punto di vista più scientifico. Lo psicologo Gabriele Zanardi viene dall’Alta Scuola di Specializzazione del Dipartimento di Politiche Antidroga della presidenza del consiglio dei Ministri. E da alcune ricerche su come le sostanze stupefacenti agiscono sul cervello umano, è arrivato ad interessarsi anche del gioco d’azzardo patologico. Le alterazioni, infatti, sono le stesse. Oggi è a capo di un gruppo all’interno della facoltà di psicologia dell’università pavese, che sta studiando le dipendenze comportamentali per trovare nuove soluzioni.

Un primo strumento è l’app “Game me”, attualmente in fase beta. È un mezzo per raggiungere soprattutto le fasce più giovani della popolazione. L’utente può informarsi sul GAP, chiedere aiuto tramite una chat privata, rispondere a un questionario per capire che tipo di giocatore è — se ricreativo o a rischio di patologia — e trovare con la geolocalizzazione i luoghi “no slot”. Il Comune di Pavia ha aderito con entusiasmo a questo progetto ed è stato il primo a fornire a Zanardi tutti i dati necessari. L’obiettivo a lungo termine è mappare tutto il territorio nazionale.

Un secondo oggetto di studio è un braccialetto dotato di sensore di campo. I principali destinatari sono giocatori patologici che hanno già deciso di farsi aiutare. L’accessorio percepisce le alterazioni di frequenza cardiaca e il livello di conduttanza cutanea, due sintomi dell’eccitazione data dalla giocata. Quando il sensore rileva livelli superiori alla norma, vibra. Il segnale può essere interrotto dal soggetto in due modi: rispondendo a semplici domande aritmetiche sullo smartphone — distraendosi, l’utente distoglie l’attenzione dalla slot machine — o allontanandosi volontariamente dalle macchinette. «In questa fase il trattamento è su base volontaria — spiega Zanardi — vengono distribuiti tra i gruppi di autoaiuto dove le ricadute nel gioco sono circa il 30%. La prospettiva però è collegare un braccialetto ad ogni singola macchina, così chiunque inizia ad utilizzarla viene monitorato. Siamo ancora in una fase di sperimentazione: il nostro obiettivo al momento è diffonderne diecimila unità. Per una produzione industrializzata mancano i fondi».

Il Comune di Pavia, così come Simone Feder e Gabriele Zanardi, hanno trovato grande collaborazione negli uffici della Regione. Viviana Beccalossi, assessore al Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, da anni si impegna per arginare gli effetti del gioco d’azzardo in Lombardia.

Il 21 ottobre 2013 il Consiglio ha emanato una legge che ha portato risultati concreti sia dal punto di vista della diffusione delle slot machine sia sull’aspetto sociosanitario.

Una norma all’avanguardia rispetto a quelle delle altre 14 regioni italiane che hanno legiferato su questo tema. Su tutto il territorio lombardo non verranno rilasciate nuove licenze, né si rinnoveranno quelle già esistenti, per macchinette in un raggio di 500 metri da luoghi considerati sensibili: scuole, asili, ospedali, chiese, oratori.

Per ogni trasgressione, la sanzione prevista è di 15 mila euro. Inoltre gli esercenti che decideranno di aderire al movimento “No Slot”, rinunciando così ai guadagni del gioco d’azzardo, avranno una riduzione dello 0,92% dell’aliquota IRAP. Si è deciso inoltre di prendere sul serio il problema della ludopatia, con una maggiore attenzione verso i malati e un piano operativo specifico. Infine, si stanno finanziando progetti pensati da associazioni ed enti locali contro il GAP: tre milioni di euro solo nel 2014. Le iniziative sono state 68 e hanno coinvolto più di 1.500 soggetti.

I primi risultati sono già arrivati, così come i primi ricorsi al Tar, soprattutto per la norma sulla distanza minima. Nessuno, per ora, è stato accolto. L’assessore Viviana Beccalossi ha snocciolato i successi della sua legge: «Possiamo contare 8.000 slot in meno, con un calo del 12% sul totale degli apparecchi installati. E, ancora, sono state dismesse 283 videolottery, macchine ancora più pericolose, perché consentono di giocare anche 500 euro alla volta. Inoltre, 1.283 esercizi commerciali che nel 2013 disponevano di macchinette, nel 2014 non le avevano più. Gli assistiti dalle Asl, infine, sono stati 2.111, raddoppiati nel 2015 secondo i primi dati parziali».

Il governo di Enrico Letta prima e l’attuale primo ministro Matteo Renzi poi, hanno deciso di non impugnare la legge regionale della Lombardia, nonostante il gioco d’azzardo sia una competenza “concorrente”: spetterebbe allo Stato dare le indicazioni generali sulla materia.

Da più parti chiedono una norma nazionale, che detti delle linee guida comuni. Se n’è parlato alla “Conferenza Unificata Stato, Regioni ed enti locali” del 5 maggio. Intanto il governo ha iniziato a dare i primi segnali d’interesse con la Legge di Stabilità 2016. Le novità importanti sono due. La prima riguarda le licenze per nuove slot machine: il nulla osta viene rilasciato solo per la sostituzione di quelle già esistenti. Inoltre, viene vietata l’installazione negli esercizi pubblici dei totem, le macchine tramite cui è possibile accedere alle piattaforme di gioco online che negli ultimi anni si stanno diffondendo sempre più.

La spesa dei giocatori sul web nel 2015 è aumentata del 13%, raggiungendo gli 821 milioni di euro: circa il 5% sul totale. Di questa, i due terzi vengono dalle slot online. Sempre più persone, inoltre, si connettono da smartphone e tablet: il mobile ha un tasso di penetrazione del mercato che raggiunge quasi il 20%.

In attesa di una guida statale, i giocatori compulsivi si trovano spesso nella condizione di doversi aiutare da soli. Con questo spirito è nata l’associazione dei Giocatori Anonimi, decollata da Los Angeles nel 1957 e atterrata in Italia nel 2000.

Alla base delle riunioni, il racconto. Un dialogo sulle rispettive esperienze e sui problemi causati dall’ossessione per il gioco d’azzardo. Solo a Milano, quattro i punti di incontro: Palestrina, Niguarda, San Pio V e Santa Rita. Chiunque può partecipare, l’unico requisito è «il desiderio di smettere di giocare». Nel più assoluto rispetto dell’anonimato.

Giulio è l’ex coordinatore di uno dei gruppi dei Giocatori Anonimi. E da nove anni, grazie al loro aiuto, tiene sotto controllo la sua malattia: «Gli ex giocatori non esistono. Nessuno guarisce, siamo tutti giocatori in recupero». Un percorso lungo e difficile, da affrontare giorno per giorno, «ventiquattro ore alla volta». Il campanello d’allarme sono state le valigie fuori dalla porta, un gesto «disperato di mia moglie», che l’ha convinto a chiedere aiuto. «Appena sono arrivato ai G.A. mi è stato consegnato un libretto che rappresenta il cammino del nostro recupero. Dentro sono descritti dodici passi, che ognuno deve percorrere per ritornare alla vita».

A partire dal primo, che coincide con un’assoluta ammissione di impotenza di fronte al gioco d’azzardo. Segue la compilazione di un inventario morale e finanziario «profondo e senza paura» in cui ammettono a loro stessi e a un’altra persona «la natura esatta dei nostri torti».

Un’altra cosa importante è la prevenzione, soprattutto nelle scuole. Tanti gli incontri a cui i Giocatori Anonimi e i loro familiari si prestano per sensibilizzare ragazzi e ragazze sulla ludopatia.

Come quello di lunedì 21 marzo, organizzato a Cusano Milanino per tre quinte superiori dell’Istituto Professionale Carlo Molaschi. Sono le nove, la campanello è appena suonata, e i ragazzi — tutti maschi — iniziano a prendere posto nell’aula magna. Davanti a loro, seduti alla cattedra, ci sono tre donne e due uomini, con vite diverse eppure uguali.

Il primo a prendere la parola è Enrico, che mette subito in chiaro le cose: «Il mio problema non era il gioco, ero io nei confronti del gioco». Poco più di 40 anni, corporatura robusta, nessun capello sulla testa. Ha un linguaggio semplice, che arriva al cuore delle cose e riesce a catturare l’attenzione degli studenti. Racconta di un problema che è iniziato «già alle elementari, quando mi giocavo le figurine coi miei compagni».

Da ragazzo passa alle scommesse — cavalli e poker — e al biliardo, dove arriva a perdere tutto l’oro dei genitori: «Ai tempi non sapevo neppure di avere un problema, sentivo solo una sorta di disordine che non riuscivo a sistemare». La causa, è poi arrivato a comprendere, era il rapporto con suo padre, e l’eccessiva libertà che gli aveva sempre concesso. Nel frattempo si sposa e ha due figlie, ma le cose non cambiano: «Sono sempre stato un marito e un padre assente. Il mio grande amore non erano loro, ma il gioco». Un’affermazione che risuona nel silenzio della stanza e che lascia i ragazzi senza parole. Uno di loro, in prima fila, alza la mano. Gli chiede se ha mai pensato a quanto si è giocato, in totale. Enrico sorride, dice che gli hanno insegnato a non sommare le perdite. Ma che ha finito con il dover cambiare lavoro, vendere la casa, chiedere aiuto agli strozzini, «ma mi sono fermato fortunatamente in tempo».

Arriva a 37 anni senza più soldi per andare a giocare. E si fa convincere a chiedere aiuto ai Giocatori Anonimi: «All’inizio non avevo troppa fiducia, tanto che dopo la prima riunione sono andato a giocare alle macchinette». Da allora sono passati 14 anni, un lungo periodo di tempo in cui Enrico ha imparato soprattutto a perdonarsi: «Sono diventato l’amorevole genitore di me stesso».

È il turno di Veronica, 18 anni, viso tondo e capelli alle spalle. Fa parte dei Gam-anon, il gruppo di autoaiuto rivolto ai familiari dei giocatori compulsivi. Mogli, mariti, figli. Ma anche parenti e amici. Chiunque — insomma — abbia una vita turbata da un malato di ludopatia. Nel suo caso, il ludopatico in questione è il padre: «Già all’età di sette anni ho capito che qualcosa non andava, ma soltanto nel 2010 — insieme a mia madre e alle mie sorelle — ho scoperto che aveva accumulato debiti per oltre 25 mila euro».

Da lì, la decisione di farsi aiutare, lui e tutte quante loro. All’inizio, spiega Veronica che allora aveva solo 13 anni, andare alle riunioni di Gam-anon significava soprattutto accompagnare la madre per darle conforto. Poi, con il passare del tempo, la frequentazione è diventata sempre più cosciente e volontaria: «Le persone che non sono toccate dal problema, non riescono a capirlo fino in fondo. In questi incontri, invece, arrivi a conoscere gente che vive le tue stesse esperienze e che, perciò, capisce davvero le cose che gli dici».

I maturandi restano in ascolto. Forse si rendono conto che Veronica ha più o meno la loro stessa età e la sua storia potrebbe essere quella di ciascuno di loro. Uno di questi, occhi e capelli nerissimi, alza la mano e le chiede di adesso e del suo rapporto con il padre. «Bellissimo. Abbiamo sviluppato un grande dialogo, ora vedo che ha voglia di stare con noi e di essere coinvolto nelle cose di casa. Mi sto godendo il mio padre migliore».

Un altro modo di affrontare il problema — a metà tra l’autoaiuto volontario e le direttive istituzionali — è rivolgersi alla sempre più fitta schiera di psicologi specializzati. Dalle Asl ai centri privati.

«Arrivano soprattutto due tipologie di persone — spiega Stefano Marchi, 45 anni, psicoterapeuta del Centro Moses di Treviglio, in provincia di Bergamo — la prima comprende donne e uomini di 25/30 anni, che spesso hanno già altri problemi di dipendenza: droga, shopping compulsivo, consumo di alcolici. La seconda riguarda i più anziani che hanno subito cambi di vita radicali e si sono ritrovati a frequentare i bar per occupare il tempo».

La scelta di rivolgersi allo specialista non è quasi mai spontanea, ma dovuta all’insistenza di uno o più familiari: «Per questo, la prima fase della terapia prevede la creazione di una motivazione che — almeno all’inizio — è pari a zero». Successivamente si vanno a smontare, proprio da un punto di vista matematico, le certezze che i malati hanno del gioco: «Anche quando perdono sono convinti di dover continuare a giocare perché prima o poi “arriverà la volta buona”, ma la statistica dice il contrario». La terza fase va a indagare i motivi, che possono essere intrinsechi — «C’è un elemento di piacere legato al gioco e alla possibilità di vincere, che riguarda tutti, verso cui loro sono particolarmente sensibili» — o personali. E in quest’ultimo caso coincidono con il tentativo di sopire le emozioni negative: «Molti giocano per superare la noia, la tristezza, la rabbia, la depressione. Ma si tratta di sensazioni con cui devono imparare a convivere».

A livello pratico, si parte con la privazione del denaro: «Gli si lascia soltanto una disponibilità settimanale, una sorta di paghetta che gli permette di mantenere uno spazio di autonomia controllata». Dopo, viene l’organizzazione del tempo. Si concorda come verrà utilizzato e in quali spazi, predisponendo a un cambio radicale di abitudini.

La terapia, almeno nella sua fase più acuta, va dai sei ai dodici mesi, con una seduta a settimana, massimo due, di «non più di un’ora». Poi gli incontri diventano di monitoraggio e si fanno meno frequenti — una volta ogni 30 e poi 60 giorni — fino al semplice sms, mail o telefonata: «Ciò che è importante è far riconoscere a queste persone di avere una sensibilità particolare rispetto al gioco, così da riuscire a non esserne più schiavi».

Anche la cooperativa sociale Hikikomori di Milano si è specializzata sul gioco patologico. In generale, il gruppo di psicologi, che nel 2012 ha aperto il centro, ha deciso di concentrarsi sullo prevenzione e sulla cura delle “nuove dipendenze” o “dipendenze comportamentali”, quelle slegate dall’assunzione di una “sostanza”. Andrea Silva è uno di loro e si occupa dell’assistenza di chi è affetto da ludopatia.

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