Un rifugio, nel lavoro

Scuola di giornalismo Walter Tobagi
in transITion
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7 min readMay 11, 2016

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di Clara Amodeo e Lara Martino

Si fa presto a dire “rifugiati”: nel passato di ciascuna di queste persone ci sono sofferenze e traumi che un timbro su carta non può certo cancellare.

Sono tanti gli stranieri in Italia ai quali è stato riconosciuto lo status di rifugiato: secondo l’Eurostat nel solo 2015 sono stati 29.630, il 44 per cento in più rispetto al 2014. Molti sono solo di passaggio. Altri cercano una nuova vita in Italia. Loro hanno il diritto, oltre che il dovere, di inserirsi nella società attraverso un processo che gli restituisca la dignità di esseri umani.

Così, a fianco della rete di conoscenze personali, il lavoro diventa un fattore integrativo tra i più importanti. I primi a riconoscerlo sono gli stessi rifugiati, e lo spiega il professor Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia dei processi migratori all’Università degli Studi di Milano: «Vogliono ridare qualcosa alle comunità che li accolgono, vogliono impegnarsi in lavori interessanti. Vogliono, banalmente, riempire il loro tempo facendo qualcosa di utile».

Certo, non è sempre facile che questo accada: la scarsa conoscenza dell’italiano, la bassa scolarizzazione, le sindromi post-traumatiche da migrazione e le diversità culturali sono i principali ostacoli all’inserimento lavorativo che un migrante porta con sé. A questo bisogna aggiungere le lungaggini burocratiche per il riconoscimento dello status e la crisi economica, che blocca i lavoratori nella ricerca di un impiego.

Ma non tutto è perduto: ad aiutare i rifugiati nel loro cammino verso l’integrazione lavorativa ci pensano la rete Sprar, il sistema statale di protezione per rifugiati e richiedenti asilo, le cooperative che aderiscono al progetto e i centri di mediazione al lavoro dei vari Comuni italiani. Senza però dimenticare che i veri artefici del loro futuro lavorativo sono gli stessi migranti.

Nicolò Reverdini è uno dei proprietari della Cascina Forestina di Cisliano, in provincia di Milano. Ed è il datore di lavoro di Ali: «In vent’anni di lavoro agricolo non ho mai incontrato un ragazzo che avesse manualità e moralità pari a quelle di Ali. Rivedo in lui quello che ero io da giovane, quando gli anziani mi hanno insegnato a lavorare con armonia, forza e cura del dettaglio. Ci tenevo a fare in modo che l’azienda funzionasse. E adesso mi ritrovo nella stessa situazione con lui, anche se l’anziano sono io».

Secondo Nicolò i motivi della buona riuscita del lavoro di Ali sono molti: «Alla base di tutto c’è il suo carattere, dolce ma determinato, che gli ha permesso di imparare bene e in fretta le mansioni che gli abbiamo di volta in volta assegnato, dalla cura del bosco e dell’orto alla semina. E poi la capacità di vedere subito il suo impiego come qualcosa di importante e utile, per nulla degradante». Ne è nata una relazione non solo lavorativa, ma anche umana: «Condividere il pranzo, i momenti di conversazione, la fatica, ha reso Ali parte della nostra famiglia. Con lui ho un rapporto scherzoso e giocoso, lui si confida con me e io gli do consigli volentieri».

Questo bel rapporto nasce grazie all’incontro dei due tramite il Celav, centro di mediazione al lavoro del Comune di Milano, che si occupa di attivare tirocini di inclusione socio-lavorativa all’interno di cooperative e realtà economiche. Alcuni degli operatori del centro si dedicano solo ai rifugiati. E offrono un percorso formativo che dura dai tre ai nove mesi, alla fine dei quali il tirocinante può essere assunto con un contratto dall’azienda. «In un anno — racconta Angela Guma, operatrice Celav — il nostro servizio ha a che fare con circa 250 persone ospiti dei centri Sprar. L’età dei tirocinanti, per lo più provenienti da Eritrea, Somalia, Ghana, Nigeria, Gambia, Egitto, Afghanistan e Pakistan, va dai 20 ai 35 anni e l’80% di loro sono uomini. Alcuni abbandonano il percorso per altri progetti migratori, altri imparano a cercare un lavoro in autonomia, e circa la metà dei nostri interventi porta a un contratto, dallo stagionale all’apprendistato e al tempo indeterminato». È quest’ultimo il caso di Ali. Anche se lui ancora non lo sa.

«Il mio staff è già multietnico: oltre ai cuochi egiziani ce ne sono pure di pugliesi e napoletani!». È felice Enrico Scotti: nel suo ristorante greco “Itaka”, a Milano, ha debuttato la rifugiata Noor, che lavora anche come personal chef a domicilio.

I due sono entrati in contatto grazie a Susy Iovieno, presidente di Soserm, associazione del Comune di Milano che si occupa di fornire la prima accoglienza ai rifugiati in arrivo nel capoluogo meneghino. «Piuttosto che dare dei soldi in beneficenza — racconta Enrico — Susy e io abbiamo deciso di dare la possibilità a Noor di formarsi nel mio ristorante, permettendole così di inserirsi appieno all’interno della società».

L’idea gli è subito piaciuta: «Tanti ristoratori vedono la diversa provenienza dei propri collaboratori come un limite, ma per quanto mi riguarda non è così. Anzi, eventi come questo possono dare tanta visibilità al locale, oltre che un aiuto a persone meno fortunate». Enrico si augura che l’iniziativa possa evolversi in qualcosa di più grande e strutturato, ed è stato accontentato: a metà aprile 2016 è nato “Yalla yalla”, progetto di catering sociale di cui fanno parte, oltre a Noor, anche altri rifugiati e richiedenti asilo. I loro piatti forti sono quelli della tradizione mediorientale, cucinati nel ristorante Itaka con qualche variante occidentale.

«Ci vuole adattamento alle richieste della nostra clientela, che ha gusti molto diversi da quella dei nostri dipendenti arrivati da lontano», conferma Consuelo Granda, presidente della cooperativa Procaccini 14 di Milano. Qui c’è un reparto sartoriale in cui è stato assunto Cheikh. Viene dal Senegal e la poliomielite lo ha costretto alle stampelle: «Cheikh — racconta Consuelo — è arrivato da noi nel 2014 con un progetto, finanziato dalla regione Lombardia, che riguardava la cucina. Ma le sue condizioni di salute non gli hanno permesso di concludere il percorso e così, dopo avere saputo che se la cavava piuttosto bene con ago e filo, è arrivato in sartoria alla fine del 2015».

Le sue competenze alla macchina da cucire sono risultate talmente elevate che Cheikh si è risparmiato tutta la “gavetta”.

«L’abbiamo subito impiegato su capi di nostra produzione e abbiamo visto che la cosa funzionava: è preciso, riesce a organizzare il lavoro in modo autonomo nonostante le difficoltà fisiche, è una persona tranquilla, a volte anche troppo!». Alla fine del tirocinio Cheikh è stato assunto in base all’articolo 14 della legge 276: «La legge prevede che ci sia una commessa da parte di un’azienda. Questa garantisce la continuità lavorativa facendosi carico dell’onere del personale, mentre la nostra cooperativa deve solo coprire gli obblighi per l’assunzione di persone svantaggiate. È una possibilità che non tutti conoscono: in questo modo l’azienda delega alla cooperativa tutto il processo di assunzione e la cooperativa ha a disposizione personale a costo zero», spiega Consuelo Granda.

L’Unione Europea e la Turchia sono da poco giunti a un’intesa sull’immigrazione in Europa: respingere tutti i migranti illegali che arrivano in Grecia dalla Turchia.

«Condivido la valutazione negativa che le maggiori Ong hanno dato dell’accordo — prosegue il professor Ambrosini — prima di tutto perché chi scappa dalla guerra difficilmente può attraversare le frontiere con regolari documenti. Gli stessi scafisti, presentati come la causa dell’arrivo dei richiedenti asilo, sono semmai l’effetto della mancanza di una politica migratoria sensata. Credo che l’idea di perseguire gli ingressi illegali potrebbe avere un certo fondamento solo se l’Unione Europea aprisse canali legali. Ma si guarda bene dal farlo».

Il docente è critico anche nei confronti del processo di riconoscimento dell’asilo politico, spesso segnato dalla discriminazione: «Se è abbastanza acclarato che un siriano merita di essere accolto perché in Siria c’è la guerra, non appare scontato che una persona dell’Afghanistan o da certe regioni del Pakistan possa soffrire le stesse condizioni di persecuzione, di soprusi, di conseguenze di eventi bellici. Il nostro Paese è tradizionalmente un ponte per i migranti e la sua politica non scritta è sempre stata quella di facilitare i transiti, tanto che non abbiamo una legge unica sull’asilo. Solo recentemente le circostanze e le pressioni di partner stranieri ci hanno obbligati a progettare un sistema più organico di protezione e assistenza nei confronti dei richiedenti asilo. Da circa 12 anni è nato e si è sviluppato il sistema Sprar».

Ma come si ottiene lo status di rifugiati? A spiegarlo è Lorenzo Tomai, responsabile del progetto Sprar della cooperativa Comunità Progetto di Milano, di cui è anche vicepresidente: «Quando una persona arriva in Italia e decide di fare richiesta di asilo deve recarsi in questura o dall’autorità competente e fare domanda: qui, dopo il foto segnalamento, le impronte digitali e il rilascio di un primo permesso di soggiorno di sei mesi per richiesta di asilo, gli viene fissata la data dell’audizione alla commissione territoriale. Questo è un momento centrale del percorso perché il richiedente deve raccontare alla commissione le ragioni, spesso dolorose, che lo spingono a presentare la domanda. È in base a queste che la commissione decide se concedere o meno i documenti richiesti».

A questo punto possono essere rilasciate diverse tipologie di permesso di soggiorno: l’asilo politico (la protezione più forte riconosciuta sia dallo Stato italiano sia dalla comunità internazionale), la protezione sussidiaria (permesso di soggiorno di poco inferiore ma che dà le stesse tutele dell’asilo politico) o la protezione per motivi umanitari (protezione rilasciata solo dall’Italia e che non esiste negli altri Paesi europei). Qualora la persona venga “diniegata”, ha diritto a fare ricorso. «I tempi di questo iter sono complessi da definire. Una recente legge definisce in tre mesi il tempo per l’audizione alla commissione territoriale e in tre giorni quello per la decisione, ma nella realtà abbiamo visto che bisogna aspettare tre o quattro mesi solo per il primo accesso in questura. Da noi alloggiano persone che sono arrivate a giugno 2014 e che sono ancora in attesa di potere accedere alla commissione territoriale», spiega Eleonora Farinelli, del progetto Sprar della cooperativa La grangia di Monluè.

E mentre i richiedenti asilo aspettano di vedersi riconosciuta la legittimità di abitare in Italia, molti scelgono di non rimanere con le mani in mano. Alcuni cercano di inserirsi in percorsi formativi per imparare un mestiere. Come quello organizzato dalla Onlus Fiab Ciclobby in collaborazione con l’associazione Sos Erm. Nei locali di una ciclofficina nel quartiere Isola di Milano ragazzi e ragazze di diversa provenienza, dall’Eritrea al Gambia, si sporcano le mani tra catene e pedali. L’obiettivo è imparare a riparare le biciclette e magari costruirsi una prospettiva lavorativa con un mezzo a due ruote che alcuni di loro non hanno nemmeno mai avuto.

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