Si ringraziano, per questa e le seguenti foto di repertorio, l’Archivio della Borsa Italiana e il Centro per la Cultura d’Impresa

Voglio una vita speculativa

Scuola di giornalismo Walter Tobagi
in transITion
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16 min readMar 3, 2016

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di Angelica D’Errico e Camilla Colombo

Quattro istituti bancari accusati di aver venduto ai risparmiatori titoli ad alto rischio per coprire le ingenti perdite interne. Circa 12.500 obbligazionisti coinvolti in tutta Italia, di cui 1.010 esposti in modo importante: persone che in quelle quattro banche hanno investito spesso migliaia di euro, e sempre molto più che in qualunque altro titolo. Un decreto varato d’urgenza dal governo per cercare di salvare dal fallimento Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e CariChieti. E un mercato borsistico, quello di Piazza Affari, preso di mira dalle speculazioni sui listini bancari proprio per i problemi di gestione degli istituti di credito. Ecco gli ingredienti dell’ultima crisi bancaria che sul finire del 2015 ha sconvolto il nostro Paese.

Sebbene la solidità del risparmio dell’investitore medio italiano sia superiore a quello di tutti gli altri cittadini europei, l’Italia vive ciclicamente situazioni di forte instabilità finanziaria dovute alla peculiarità del suo stesso sistema economico. La presenza sul territorio di tante piccole e medie imprese in opposizione alle grandi società per capitali estere, quotate sul mercato azionario, è uno dei fattori principali del rincorrersi di gravi dissesti bancari nel nostro Paese. «Nonostante i cambiamenti strutturali degli ultimi vent’anni, manca in qualche modo la sostanza che dia mercato alla Borsa», spiega Giuseppe De Luca, professore di storia economica all’Università degli Studi di Milano. Sia per quanto riguarda l’offerta — «ciò che in Italia è big cap (una società con capitalizzazione superiore ai 10 miliardi) in America è a malapena small cap», sottolinea Francesco Salvatori, Head of Markets in UniCredit Bank — sia per quanto riguarda la mentalità degli imprenditori che, spesso, non vogliono disgiungere la proprietà dalla gestione diretta».

«Per noi italiani l’investimento è sempre stato la banca. Per questo il nostro sistema borsistico è molto banco-centrico, perché riflette la struttura economica del Paese», aggiunge De Luca.

L’ultimo scandalo che ha investito il sistema finanziario italiano ne è un buon esempio. Tre sono le cause principali che hanno portato alla liquidazione ordinata Banca Etruria e le altre tre banche e che hanno condotto alla nascita della bad bank e all’istituzione del bail in:

  1. i Non Performing Loans, i prestiti non performanti, ovvero i prestiti o i mutui concessi dalle banche alle aziende che non vengono poi ripagati dalle stesse PMI e che generano sofferenze all’interno degli istituti bancari
  2. l’ancora troppo mediocre etica dei professionisti e la poco attenzione degli stessi alla compliance (conformità) normativa — gli ex dirigenti di Banca Etruria, ad esempio, sono accusati di “omessa comunicazione di conflitto d’interessi”
  3. la scarsa cultura finanziaria degli investitori italiani.

Di tutto questo si è fatto portavoce il 29 e il 30 gennaio 2016 al XXII congresso di Assiom Forex, l’Associazione degli Operatori dei Mercati Finanziari, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Di fronte a una platea di oltre 1.300 delegati del settore, il successore di Mario Draghi ha spiegato che «al dissesto di queste banche, colpite come tutte le altre dal deterioramento della qualità dei prestiti derivante dalla lunga e profonda fase recessiva dell’economia italiana, hanno contribuito gravi fenomeni di mala gestio». Rimarcando che la fiducia è l’essenza della stabilità bancaria e che l’educazione finanziaria deve coinvolgere tutti — «è un problema da affrontare in via prioritaria», ha detto Visco — il governatore ha messo in luce la procedura che ha condotto il governo a varare il decreto “salva banche” del 22 novembre 2015.

In poche parole cos’è e come funziona la bad bank? Prendiamo ad esempio una banca di un Paese in grave crisi economica, dove le imprese falliscono e non sono più in grado di ripagare i debiti (i Non Performing Loans) contratti con gli istituti di credito. Per la banca questo è un problema perché rischia di far aumentare le sue sofferenze interne, ovvero quelle parti di capitale che sono a rischio in caso di mancata copertura del debito. Così facendo la banca entra in crisi e non è più in grado di svolgere quel ruolo fondamentale di catena di trasmissione dell’economia reale.

Per evitare il fallimento dell’istituto di credito si crea quindi una nuova banca — la cosiddetta bad bank — che non è un’istituzione che prende depositi e fa prestiti come i tradizionali istituti bancari, ma è un veicolo societario al quale la banca in sofferenza trasferisce i crediti cattivi così da ripulirli e presentarli sul mercato come nuovi strumenti di investimento. Lo Special Purpose Vehicle, un veicolo societario giuridicamente distinto sia dalla banca in crisi sia dalla bad bank, cartolarizza i “crediti cattivi”, ovvero li impacchetta in obbligazioni garantite dalle stesse sofferenze sottostanti e li piazza sul mercato affinché vengano acquistati dagli investitori istituzionali o privati. Con il ricavato della vendita la bad bank paga alla banca in crisi il valore convenuto delle obbligazioni, risanando quindi il bilancio interno della banca sofferente.

Ma la bad bank non è l’unica novità in materia di prevenzione e gestione delle crisi bancarie. Dal 1° gennaio 2016 sono entrate in vigore a livello europeo nuove norme che prevedono, nei casi di dissesto economico particolarmente grave di un istituto di credito, l’applicazione del salvataggio interno della banca — il cosiddetto bail in. La normativa europea BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive, 2014/59/EU) sancisce che in caso di crisi bancaria devono intervenire a sostegno dell’istituto di credito gli azionisti, gli obbligazionisti e, se necessario, i correntisti oltre i 100 mila euro per lasciare indenni i conti correnti e le obbligazioni ordinarie dei clienti.

L’aiuto del sistema, ovvero del Fondo di Risoluzione, arriva solo dopo che gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati (coloro che hanno accettato un rischio maggiore a fronte di una cedola molto più alta della media sull’investimento eseguito) hanno partecipato al salvataggio della banca. Ecco quindi evitata l’accusa all’Italia di aiuti di Stato, accusa spesso mossa dalle istituzioni europee nei casi di fallimento di società o istituti bancari del nostro Paese, ma ecco anche e soprattutto entrare in gioco l’importanza dell’educazione finanziaria dei cittadini risparmiatori e investitori.

«Non bisogna avere tutta questa diffidenza nei confronti di un tema che sembra sempre complesso, scostante, antipatico», sottolinea Giuseppe De Luca. «L’economia è una parte fondamentale della vita di ogni uomo. La cultura finanziaria deve essere insegnata non soltanto agli specialisti a livello alto, ma a tutti, nelle scuole, come si insegna educazione civica. Bisogna far capire che se si sta guadagnando sul mercato delle azioni, delle valute o delle obbligazioni, è perché si sta rischiando».

Nelle Giornate di Educazione Finanziaria organizzate a Roma tra novembre e dicembre 2015 dalla Consob e da Assiom Forex «si è evidenziato un basso livello di cultura finanziaria da parte dei partecipanti», aggiunge Claudia Segre, direttore responsabile delle pubblicazioni Board Member di Assiom Forex. Lo scarso livello d’istruzione economica rende gli italiani particolarmente vulnerabili alle fluttuazioni della Borsa. «Senza un’adeguata conoscenza e consapevolezza del mercato, si alimenta la paura e si generano mostri», chiarisce Giuliano Palumbo, portfolio manager di Arca. «Come sostenuto dal governatore Visco all’ultimo Assiom Forex di Torino, in Italia c’è una scarsa conoscenza del sistema finanziario da parte degli investitori e dei ‘cassettisti’. Sul piano dei professionisti però non abbiamo nulla da invidiare agli altri Paesi europei», puntualizza Francesco Salvatori.

«Dai tempi del film Wall Street, nell’immaginario di tutti lo speculatore si identifica con il volto di Michael Douglas, che impersonando Gordon Gekko, da una spiaggia dell’oceano sibila con voce profonda: “Greed is good!”(L’avarizia è un bene!) al suo giovane emulo Bud Fox. Fuori dalla finzione cinematografica però l’opinione di Gekko non riscuote molto consenso… Questo perché si crede che la speculazione abbia un effetto destabilizzante sui mercati. Non è proprio così. Anzi, in prima approssimazione, gli speculatori come Gekko fanno proprio il contrario, cioè con la loro attività di trading stabilizzando l’andamento dei prezzi di mercato… Perché dunque le Consob di tutto il mondo osteggiano la speculazione? Perché qualche volta gli speculatori sbagliano i loro conti».

Francesco Daveri 25.01.2016 Corriere Economia

Il trader (in italiano, operatore finanziario) è un commerciante moderno. È colui che acquista e rivende sul mercato strumenti finanziari: titoli, azioni, obbligazioni, opzioni, futures, swap (derivati), commodities, CDO (Collateralized Debt Obligation), CCT (Certificati del Credito del Tesoro), BTP (Buoni del Tesoro Poliennali). È la persona che grazie all’esperienza, alla capacità di analisi e alla propria lungimiranza è in grado di fare gli investimenti migliori. Per sé o per gli altri. Sì, perché non esistono solo i trader indipendenti, ovvero coloro che operano sul mercato con il proprio portafoglio, mettendo in gioco i propri soldi, ma avendo un impatto limitato sull’andamento dei titoli.

Ci sono anche i trader dipendenti o gestori di portafoglio altrui che lavorano negli istituti di credito o nelle Sim (Società di Intermediazione Mobiliare), che comprano e vendono in base al mandato di gestione dei clienti e che possano incidere in maniera significativa sulle Borse internazionali. La sfida che entrambi affrontano ogni giorno è la volatilità del mercato, considerata la preoccupazione numero uno da parte di tutti i grandi investitori istituzionali secondo i sondaggi condotti da Natixis a fine 2015.

E questo inizio 2016 non sembra da meno, anzi. La folle volatilità del nuovo anno, innescata dalla riunione della Banca Centrale Europea del 3 dicembre scorso che non ha soddisfatto le attese di crescita dei mercati, è particolarmente temuta perché violenta, non lontanamente preventivata e velocissima. «Tutto accade in pochissime sedute. Non c’è tempo di correggere in corsa la propria strategia», spiega Gianluca Beccaria, gestore di portafoglio in Directa Sim. «Il problema è che non sono sorti nuovi fattori. Il rallentamento della Cina era già noto, il prezzo basso del petrolio pure. È questo a preoccupare gli investitori: il fatto che non ci siano novità rilevanti».

Vale la pena quindi sopportare tutta questa oscillazione e volatilità? «È una domanda cui non ho ancora una risposta certa», sorride Gianluca. Esiste allora un giusto bilanciamento tra i fondamentali dell’economia — «se fossero assenti, il mercato sarebbe solo una scommessa», commenta Francesco Salvatori — e l’eccessiva volatilità che porta un titolo a perdere 20/25 punti in poche sedute di Borsa? «La soluzione ideale», concordano a distanza Salvatori e Palumbo, «è un’alta volatilità dei mercati unita a una direzionalità costante. In questo modo sia le perdite sia i guadagni sono contenuti, perché ciò che fa davvero male e che porta alle vendite indiscriminate e quindi al panico sono i picchi».

I disegni di Gigi Vitale mostrano i gesti della Borsa tradizionale per comprare i principali titoli del listino italiano

In questa moderna arena internazionale saper gestire la propria emotività diventa uno degli elementi più importanti della figura dell’operatore finanziario. «È una parte fondamentale», dice Antonello Rendina, trader indipendente di Torino dal 1998. «È il collo di bottiglia dove si incanala tutta la tua azione di trading quotidiano. Ti devi approcciare in maniera abbastanza distaccata al mercato, se no rischi di farti condizionare troppo dalla sua volatilità».

Gli fa eco Davide Biocchi, ex albergatore, anche lui trader indipendente dal 1998. «Bisogna essere in grado di gestire le proprie emozioni di fronte alle grandi fluttuazioni del mercato per sapere sempre come investire con lucidità il proprio portafoglio azionario». Lo stesso vale se si è gestori di investimenti altrui. «Spesso ti fai carico tu dello stress dei tuoi clienti. Diventi un po’ psicologo nei loro confronti per rassicurarli sulla validità delle operazioni compiute, nonostante le forti oscillazioni della Borsa», spiega Gianluca Beccaria.

In questo approccio al mercato c’è una forte differenza tra essere un uomo o una donna. Le professioniste del settore sanno essere più disciplinate, sono meno emotive e sono capaci di performare anche meglio degli uomini nelle situazioni di grande volatilità. «Come responsabile di team misti, ho notato spesso come le donne siano capaci di darsi uno stop loss che gli uomini fanno fatica a rispettare», puntualizza Claudia Segre.

Oltre al sesso, quali sono i fattori che fanno di un trader un professionista vincente del mercato finanziario? Essere camaleontici. Saper cavalcare il mercato giorno per giorno e non cercare di prevederlo. Lungimiranza, capacità di analisi, dinamicità, competenza, umiltà nel saper cambiare strategia per limitare le perdite o sfruttare le occasioni, consapevolezza di quello che sta accadendo anche a lungo termine. Prontezza di riflessi di fronte al rischio — ecco perché in questo lavoro essere giovani è un valore aggiunto — e comprensione di ciò che desidera il cliente, nei casi in cui si è gestori di portafoglio altrui o sales di una grande banca.

Insomma, le risposte sono molto diverse tra loro, ma tutti i professionisti del settore sembrano concordi nel sottolineare la lontananza del trader dall’immagine stereotipata di eccessi, di lusso e di vita sregolata che i film di Hollywood trasmettono.

Anche se di personaggi che vivono il trading in maniera ossessiva, H24, ce ne sono: sono operatori finanziari che non si staccano mai dal monitor, che si sentono un po’ come dei tifosi per cui quando il mercato va bene gioiscono euforici, ma quando va male cadono in depressione. La maggior parte però pare avere una vita normale: famiglia, casa, lavoro, vacanze. Con un unico di più. Una finestra molto particolare sul mondo da cui trarre il maggiore profitto possibile: lo schermo del loro computer.

L’avvento delle nuove tecnologie e del mercato telematico è stato la vera svolta del mercato finanziario italiano», spiega il professor Giuseppe De Luca. «Fino ad allora sopravvivevano delle Borse locali, delle Borse fisiche, dei parterre. Nel 1986 la grande trasformazione del London Stock Exchange ha generato dei cambiamenti in tutte le Borse europee. Milano, Roma, Genova, Venezia, tutte le piazze italiane si sono unite in un unico grande mercato telematico orden driven che è quello che vediamo ancora oggi».

Sono gli anni Novanta gli anni della grande rivoluzione borsistica, gli anni in cui il legislatore cerca di far uscire il mercato finanziario italiano da una secolare tradizione di minorità. Nel 1991 agli agenti di cambio, gli intermediari finanziari che operavano sul mercato fisico dei titoli tramite un fondamentale rapporto di fiducia, subentrano le Sim (Società di Intermediazione Mobiliare). Nel 1994 si assiste alla fine della contrattazione privata tra individui che comunicavano tra loro con i tipici gesti della Borsa gridata e si vive la nascita della negoziazione unificata nel mercato telematico.

Nel 1997 infine la Borsa valori di Milano smette di essere un’istituzione pubblica e diventa una Società per Azioni. «Anche se nel linguaggio comune si usa ancora il termine Piazza Affari, oggi in realtà Palazzo Mezzanotte è un grande luogo di eventi dove gli uffici della Borsa occupano solo una piccola parte», conclude De Luca. «Nel 1999–2000 essere un operatore online significava avere un vantaggio su una grande massa che operava ancora presso il canonico canale bancario», ricorda Davide Biocchi. «Poi il trading è stato reso accessibile a chiunque, anche alla grande massa, quindi certi privilegi si sono persi. Infine sono arrivati i software, quelli che i trader in gergo chiamano “le macchinette”, e ora la Borsa è solo un grande software elettronico».

Con l’avvento di internet il luogo fisico in cui si effettuano le operazioni finanziarie — la Borsa gridata per intenderci — ha smesso di avere importanza. La globalizzazione dei mercati ha fatto sì che ciò che accade in un luogo abbia effetti in tutto il mondo. Ecco perché è possibile lavorare in qualunque Piazza avendo le stesse probabilità di guadagno e di perdita. «La tecnologia ha reso effettivo il real time», spiega Francesco Salvatori. «Non è cambiato il mercato in sé, si è solo accorciata la catena, il tempo di risposta. Il real time è ciò che all’atto pratico è stato la vera rivoluzione delle nuove tecnologie».

Lo sviluppo spasmodico delle piattaforme ha moltiplicato in maniera esponenziale le possibilità di fare trading, ha messo fine al rapporto telefonico tra cliente e sales, cambiando radicalmente il modo di svolgere la professione dell’operatore finanziario. Stefano Limonta, amministratore delegato di Kline Srl, società italiana che sviluppa piattaforme per il trading dal 1998, racconta come il passaggio dalla Borsa gridata al mercato telematico abbia fatto venire meno il rapporto personale, di fiducia, tra gli agenti di cambio. «È stato reso tutto un po’ più asettico, perché hanno cominciato a parlare solo e squisitamente i numeri, perché si è dato più spazio agli automatismi. I cosiddetti blackbox (sistemi applicativi di input e output) hanno in parte sostituito l’azione del trader, ma l’elemento umano rimane imprescindibile e sarà sempre così», precisa Limonta. «Se tutti per assurdo dovessero adottare gli stessi algoritmi, il mercato finirebbe per diventare unidirezionale. Se tutti nello stesso momento applicassero esattamente lo stesso algoritmo, il mercato stesso perderebbe di senso. È come se alla lotteria tutti giocassero lo stesso numero».

Quindi, quando parliamo di software in Borsa a cosa dobbiamo pensare? «Alla programmazione di Excel», spiega Limonta. «Noi creiamo le celle che poi l’utilizzatore riempie. Non è il software in sé a scrivere già la combinazione di numeri di cui servirsi. È il cliente a scegliere l’algoritmo che può essere lungo anche decine di migliaia di righe di codice. Gli ultimi sistemi informatici sono in grado di far capire all’operatore come stanno cambiando i numeri, come si sta muovendo la Borsa. La nuova frontiera è inserire ordini sul mercato in modo da confondere il software avversario, in modo da far credere che si sta operando in una direzione quando in realtà si sta facendo l’opposto».

I software, precisiamolo, non sono tutti uguali — «è un po’ come scegliere tra una Ferrari e una Porsche: vanno tutte e due su strada, ma le prediligi per ragioni diverse», specifica Limonta — ma è fondamentale ricordare un elemento. Non è il software ad assicurare i profitti. Sono le persone che lo utilizzano a fare la differenza tra perdita e guadagno. Anche in un mercato digitale.

La bolla tecnologica del 2000. Il fallimento negli Stati Uniti di Lehman Brothers e la fusione di Bank of America and Merrill Lynch nel 2008, l’attacco frontale allo spread nel 2011 in Italia. Ecco alcune delle più gravi crisi finanziarie degli ultimi 16 anni. Su tutte svetta il biennio 2007–2008 perché, come spiega Giuliano Palumbo, «ha segnato un pre e un post nelle politiche regolamentari dei grandi istituti di credito». Il crollo di quelle istituzioni definite “too big too fail” (“troppo grandi per fallire”) ha segnato uno spartiacque a livello internazionale nell’adozione di nuove normative volte a evitare il ripetersi di crisi sistemiche.

L’internazionalizzazione dei principi contabili segna il passo verso la condivisione delle stesse metriche di controllo e degli stessi criteri di liquidità di tutte le banche del mondo. Gli accordi di Basilea II, entrati in vigore nel 2007, e Basilea III, da attuare entro il 2018 e siglati dal Comitato per la Vigilanza Bancaria istituito dalle banche centrali dei Paesi del G10, e Mifid II, la Direttiva Europea sugli Strumenti Finanziari del Mercato pubblicata nel 2014, sono il tentativo di rendere il sistema finanziario più solido e trasparente.

«La ratio che sta dietro alle nuove decisioni in materia di governance mira a uniformare e internazionalizzare il sistema regolamentare del mercato borsistico», dice Palumbo. «Dalla bolla speculativa dei subprime americani, i prestiti rischiosi che hanno portato alla crisi del 2008, è iniziato un doppio percorso di cambiamento che dovrebbe vedere la sua realizzazione effettiva entro il 2018–2019. Da un lato l’istituzione di un quadro di vigilanza e di governance comune di tutti gli istituti bancari. Dall’altro l’avvio di un processo di sensibilizzazione e formazione di tutti gli operatori finanziari, perché quello che manca ancora tanto nel settore è un alto livello di cultura finanziaria e di attenzione al rischio e all’etica».

Con l’introduzione delle nuove politiche remunerative che premiano la performance aggiustata per il rischio si è cercato di infondere la cultura della compliance laddove prima veniva incentivata l’attività di trading che puntava tutto sui massimi guadagni e quindi sui massimi rischi speculativi. «Dal 2008 in poi le autorità di sorveglianza sono diventate più invasive e si sono presentate sul palcoscenico internazionale come una molla all’innovazione finanziaria», precisa Francesco Salvatori. «Oltre al bisogno del cliente e alla profittabilità della banca è entrato in gioco un altro fattore che porta a creare sempre nuovi prodotti finanziari: il regolatore legislativo».

Quindi tutto sistemato dopo la bolla dei mutui subprime? Non proprio. «L’innovazione tecnologica tende a scavalcare i paletti imposti alle banche», spiega De Luca. «Le shadow banks (sistema bancario collaterale a quello tradizionale) ad esempio si comportano come gli istituti di credito senza però essere soggette alla stessa regolamentazione. Prima c’erano i derivati, poi i CDO, ora ci sono già nuovi prodotti che vengono venduti sul mercato e che a livello globale creano un’enorme difficoltà di rincorrere il tema della vigilanza bancaria».

Un altro esempio? Le clearing house, società private che si fanno garanti della buona riuscita di una transazione finanziaria. Nate per scongiurare nuove crisi sistemiche dopo il crollo del 2008, dovrebbero essere la cassa di compensazione dove le due controparti che svolgono un’operazione finanziaria registrano e saldano la loro contrattazione. Il problema è che per ora mancano degli stress test per queste clearing house, come invece accade per i normali istituti di credito, in grado di stabilire se in caso di crisi sappiano resistere o meno di fronte a un possibile default.

Altro punto dolente è che le suddette clearing house possono abbassare gli standard di garanzia richiesti per aumentare il giro d’affari perché per ora nessuno ha imposto loro di rispettare certi parametri pena delle sanzioni. Infine in caso dovessero fallire o andare in crisi di liquidità, chi pagherebbe il conto di queste società? Stando al finale de La grande scommessa la risposta è piuttosto semplice: noi cittadini, perché in realtà nulla è davvero cambiato dopo il crollo di Lehman Brothers.

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