Stupore

Gerlando Gibilaro
Indifeso Stupore
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3 min readApr 5, 2014

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Non ne posso parlare con persone che proverebbero un banale senso di compassione. Amici, certo, ma… Avverto il disagio di non essere compreso, di essere giudicato melenso, che sia normale, che è normale, ma poi il tempo fa il suo corso, si sa… Di essere giudicato cinico, razionale, maschera per un dolore. Di essere, forse, patetico.
Potrebbe essere entrambe le cose o tutte quante insieme.
Ci penso da un po’.

Sono giunto, tuttavia, alla conclusione che c’è di più in quei pensieri che arrivano, credimi, inaspettati ed indesiderati, sotto una doccia calda durata distrattamente più a lungo del solito; oppure lobotomizzato innanzi la rassicurante monotona ripetitività di una fotocopiatrice; ovvero ancora, al supermercato, nell’atto di prelevare un pacco di caffè da uno scaffale e percepirne il vuoto lasciato.

La verità è che da un po’ di tempo a questa parte mi capita di pensare a cose come la sua grafia su scritti ormai depositati in chissà quale archivio di una società di assicurazioni, nel reparto sinistri rc.
Vecchie pratiche ad ammuffire in scantinati in attesa dell’inevitabile. Ti è mai capitato di vedere qualche reportage su immobili costruiti per essere adibiti ad uffici della burocrazia e mai compiutamente utilizzati?
Ospedali per lo più, ma anche centri sportivi, o di ricerca, o che so io, utilizzati come discariche per documenti. Pile di scartoffie senza alcun valore, sparse ovunque nell’assoluto disprezzo per il loro contenuto, foss’anche dovuto per il rispetto della tanto famigerata quanto eterea privacy.
A volte le trovi agli angoli delle strade, accanto a qualche raccoglitore per l’immondizia, frutto di repentine, quanto ineluttabili e tristi dismissioni di uffici.

Intere vite dietro quei fogli: ordinarie, più o meno tristi, insignificanti o parassitarie, nel susseguirsi di giorni feriali in cui non ci si domanda il senso delle nostre azioni, dandolo per scontato, o avendolo dimenticato, ovvero ancora, fottendosene altamente.
Vite meschine, certo, dietro quelle carte, che nascondono la miserabile condizione umana, ma anche il “non detto” di quell’uomo nel giorno in cui, tornato a casa dal lavoro, ha trovato la tavola apparecchiata per la cena della vigilia di Natale.

Carte, quindi, senza valore alcuno, o forse di una qualche utilità per un improbabile zelante e curioso addetto ai lavori.
Ma a questi suoi scritti mi capita di pensare, e non ad altri, al ragionamento che li aveva prodotti, al senso che ne aveva tratto chi li aveva letti, alla sua cura per il quotidiano, alla miseria della loro attuale condizione: soli, abbandonati, corrosi. Credo fosse dovuta a questa dolorosa consapevolezza il motivo del suo amore per gli scritti di Robert Walser ed in particolare “la passeggiata”.

Essenzialmente penso a quella triste grafia che mi è sempre stata estranea, sebbene tanto cara.
Storie della sua vita lavorativa che riaffiorano e rivivo, con metodica creatività, quasi fossi lo spettatore nel ricordo filtrato dai racconti fatti la sera a cena.
Le dure scelte lavorative quali prove del senso di una esistenza, alcuni silenzi, il fissare il pasto, una sua smorfia, l’ostentare consapevolezza.
Licenziare o essere licenziati, perdere il lavoro a cinquant’anni, ricominciare da capo e sentire che il senso di una vita scivola via, si riduce a piccole scelte o che, infondo, è una cosa talmente privata che, con l’età che avanza, bisogna guardarlo con distacco.

Questi ricordi fanno sì che io mi senta derubato della sua presenza, e ciò senza un sentimento di odio o rancore per un destino ingiusto …
Credo di aver messo da parte anche il dolore della perdita, catalogandolo come inevitabile corollario dell’esistenza di ciascuno.

Ma, direi, quando mi assalgono a tradimento questi pensieri, mi sento nello stesso stato d’animo di colui, nel preciso attimo in cui, tornato a casa, la trova svaligiata, nell’assenza: indifeso stupore.

È tutto qui? Sta tutta qui la vita? In inutili fogli sparsi in abbandonati ruderi, mentre tutt’attorno la natura…

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