“Non è più il momento del genio nel garage”

Simone Tosoni, Professore associato dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ci racconta come stanno cambiando i social media, quali trend li caratterizzano oggi e quali, invece, potrebbero imporsi in futuro

Sofia Cesaracciu
Innovation Eye
5 min readMar 6, 2024

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di Morgana Cotta Ramusino e Sofia Cesaracciu

Nel panorama dinamico dell’era digitale, i social media sono diventati una forza indispensabile a definire il modo in cui comunichiamo e consumiamo informazioni.
Dalla loro origine come piattaforme per il networking personale, essi sono diventati un fenomeno poliedrico che continua a adattarsi all’ambiente e alle preferenze degli utenti: due aspetti, questi, in continua evoluzione.
A parlarcene è Simone Tosoni, Professore associato della Facoltà di Scienze Politiche e Sociali al Dipartimento di Comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro cuore di Milano, esperto di media tradizionali, digitali ed emergenti.

Simone Tosoni (Foto di Morgana Cotta Ramusino)

Sin dall’apparizione dei primi social media, ne abbiamo visti arrivare tanti, restare alcuni e sparire molti. Quali sono, secondo lei, i fattori di successo e di fallimento di un social?

Questa è una domanda veramente complicata e che mi è stata posta diverse volte. Al di là dei discorsi sulla formula, sul funzionamento dell’algoritmo e sulle forme di engagement, attualmente bisogna considerare i social media come una potenza: per avere successo, occorre sicuramente avere una forza produttiva tale da potersi imporre sul mercato. Credo sia finita la fase in cui, da un garage, una persona poteva presentare al mondo un’idea geniale.
Dunque, a mio avviso, per penetrare in un mercato saturo, è necessario avere sia un forte assetto produttivo, sia una buona idea. Mi viene in mente Foursquare, un social network che si basa sulla geolocalizzazione attraverso dispositivi mobili, che aveva avuto l’idea, ma non aveva saputo sfruttarla utilizzando un modello comunicativo valido.

A proposito di social media che non hanno saputo sfruttare il loro potenziale, potrebbe farci un esempio di social che ha avuto un iniziale successo e poi è fallito?

Sicuramente, prima di parlare di fallimento di un social media, bisogna considerare le nicchie economiche in cui riesce a collocarsi. Un esempio potrebbe essere Clubhouse che, dopo il successo iniziale, quando tutti ne parlavano e tutti volevano provarlo, non ha dato i risultati sperati. Eppure, era un social molto interessante: basava il suo funzionamento sull’audio e sembrava anche uno spazio in cui si potesse fare qualcosa di utile: conferenze, gruppi di chat, gruppi di lettura e via dicendo.
Un altro esempio emblematico è SixDegrees, il primo social network in assoluto, che ha chiuso nel giro di pochi anni perché, probabilmente, era arrivato troppo presto.

Quali sono, secondo lei, le tendenze attuali in materia di social media?

Si sta verificando un evento macroscopico, che sta cambiando non solo il funzionamento dei cosiddetti social mainstream, ma anche il modo di fare ricerca nell’ecosistema mediale, ovvero il fenomeno della “tiktokizzazione”. Il modello TikTok è interessante perché apre una fase post social: non si tratta più di un social media in senso stretto, ma ci avviciniamo sempre di più ad una piattaforma di micro-broadcasting. La differenza sta nel modo in cui i contenuti vengono veicolati agli utenti: nel caso dei social network più tradizionali, l’algoritmo agisce diffondendo i contenuti solamente all’interno dello spazio comunicativo che un utente si costruisce attraverso gli amici o i follower, mentre nel micro-broadcasting, l’algoritmo lavora su tutta l’offerta dei contenuti, i quali vengono diffusi in modo massivo a chiunque. È come se ciascun utente fosse un piccolo canale televisivo che si rivolge ad una audience indifferenziata.
Tutto ciò diventa paradigmatico, poiché il successo di TikTok fa sì che anche altri social network, come quelli del gruppo Meta, si adeguino a questa tendenza; Instagram, infatti, cerca di assomigliare sempre di più al suo competitor cinese, spostando l’attenzione dall’immagine al video.

Quali social emergenti potrebbero avere successo in futuro?

Credo che dipenda sempre da quale criterio si utilizza per misurare il successo di una piattaforma. Bisogna considerare che il mercato dei media digitali è altamente stratificato: ci sono player di massa, ma ci sono anche quelli che agiscono nelle nicchie. Questi ultimi, ovviamente, hanno meno utenti, ma ciò non significa che non possano funzionare. Prendiamo ad esempio BeReal: attualmente, nulla fa prevedere che abbia il potenziale per diventare uno dei grandi player del futuro, eppure il suo modello di business continua a funzionare bene in una determinata fetta di mercato. Le piattaforme non devono obbligatoriamente essere aziende della grandezza di Instagram o Facebook per continuare ad esistere e funzionare.

Parlando di dati: secondo il report “Digital 2024 — i dati globali” pubblicato da We Are Social all’inizio di quest’anno, c’è un trend interessante che riguarda l’aumento della spesa pubblicitaria sui social del 9,3% nel corso del 2023.
A cosa è dovuto a suo parere questo aumento e c’è da aspettarsi una tendenza simile anche per il futuro?

Credo che sia sempre molto difficile fare delle previsioni di qualsiasi tipo in questo campo, perché la storia dei media ci invita ad essere cauti. Tuttavia, ritengo che ci sarà un continuo aumento dell’investimento pubblicitario sulle piattaforme, dato che i social sono sempre più al centro del nostro ecosistema mediale.

Viste le ultime controversie in materia di social media marketing e comunicazione digitale, come la polemica attorno al caso Ferragni, pensa che in futuro ci sarà una regolamentazione più stringente di questi strumenti?

Certamente. È già in atto una regolamentazione a controllo di questi strumenti. Tuttavia, è necessario regolamentare sia gli utenti, sia le piattaforme. Queste ultime, infatti, hanno sempre cercato di declinare qualsiasi responsabilità rispetto ai contenuti pubblicati su di esse. Ora, dopo numerose controversie, di cui il caso Ferragni o il caso Facebook -Cambridge Analytica sono solo alcuni degli esempi, si sta andando progressivamente nella direzione in cui i social media diventano degli editori che devono moderare i contenuti pubblicati dagli utenti, in particolare se si tratta di grandi player.

Sempre secondo We Are Social, nel periodo della pandemia i nuovi utenti dei social media sono stati più di 1 miliardo. Questa tendenza, però, negli ultimi 12 mesi ha iniziato a rallentare. In che direzione pensa che si andrà nei prossimi anni?

Negli anni della pandemia si è verificata una notevole anomalia rispetto ad ogni tendenza. Infatti, si è osservato un aumento degli utenti dei social media semplicemente perché, in lockdown, ogni tipo di contatto sociale si stabiliva online; da questo deriva la crescita esponenziale del tempo trascorso in rete, nonché dell’utenza delle piattaforme. Tuttavia, è altamente probabile che, nel giro di qualche anno, si tornerà alle tendenze pre-Covid.

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