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A chi appartiene Elena Ferrante

Di come un’errata concezione del pubblico e del privato ha portato a una inaccettabile invasione di privacy

Gloria Baldoni
inutile
Published in
5 min readOct 4, 2016

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C’è un problema serio, nell’universo degli inserti culturali, ed è un problema di difficile risoluzione: non interessano quasi più a nessuno. In pochi hanno voglia di vagare per un labirinto autoreferenziale di scrittori che si prendono una pagina per elogiare scrittori amici (quando non direttamente se stessi) o lanciare strali su scrittori nemici, di impelagarsi in polverosi tentativi di profili critici o di inginocchiarsi ad ascoltare il venerato maestro di turno che dice la sua su un qualche argomento caldo; né d’altronde c’è speranza, con un’uscita periodica cartacea, di afferrare al volo e offrire come primizie fenomeni editoriali che internet ha sicuramente già intercettato, analizzato e diffuso ovunque.

Purtroppo l’unico defibrillatore in grado di rianimare i domenicali sembra essere la polemica. E secondo uno schema che sembra implorare «comprami!»: si comincia con l’anticipazione birichina nei giorni precedenti («Domenica prossima in esclusiva un pezzo di Fabio Volo»), si attendono i rimbalzi di quella che è già diventata una notizia («Noto inserto culturale annuncia collaborazione con Fabio Volo: l’ironia del web») e si può star certi che qualcuno si precipiterà in edicola per poter leggere dei broccoli di Fabio Volo e poter sentenziare, secondo la propria inclinazione, che alla faccia degli snob anche i broccoli di Fabio Volo sono cultura oppure che i broccoli di Fabio Volo sono il segno visibile della decadenza di questi anni marcescenti. È un modus operandi che inspiegabilmente continua a funzionare e per questo è del tutto normale che venga usato con frequenza, ma la polemica scelta per questo giro di giostra dal Sole 24 Ore è qualcosa di diverso, qualcosa che affonda le sue radici in territori a cui forse non è stata dedicata la dovuta riflessione. Si tratta di intimità, di privacy, di abuso, di diritti, forse si tratta anche di genere: tutto questo e molto di più sta uscendo dal vaso di Pandora dell’identità di Elena Ferrante.

L’hanno già fatto in molti, ma è importante evidenziare la discutibilità del metodo applicato e soprattutto delle giustificazioni addotte per spiegare come ci si è potuti sentire in diritto di svelare le generalità di una persona che in più di un’occasione ha manifestato il desiderio di non uscire allo scoperto — e con argomenti più che solidi (che pure non era tenuta a fornire). In un’intervista al Paris Review, Ferrante ha dichiarato senza mezzi termini un’autentica ostilità nei confronti dei media e li ha accusati di non prestare la dovuta attenzione ai romanzi preferendo valutarli in base alla reputazione di chi li scrive. Quella che Ferrante definisce l’aura dell’autore permette al romanzo di farsi largo nel mercato editoriale, di ricevere le recensioni giuste e di trasformarsi in un caso; quelle poche volte che l’opera riesce a farsi strada da sola, invece, il meccanismo prevede che il circo mediatico si appropri dell’autore, costringendolo a vendere qualcosa di sé oltre che i suoi scritti.

Poggiando su basi simili, l’anonimato di Ferrante non è solo una scelta di riservatezza ma anche una denuncia. E come rispondono i media chiamati alla sbarra? Andando a scartabellare tra bilanci, visure catastali e dichiarazioni dei redditi per tirare fuori un nome, un volto e una vita e vendendoci questo rimestare nel torbido come giornalismo d’inchiesta. Rispondono, cioè, confermando tutte le accuse. Non contenti, tentano di parare le inevitabili obiezioni a quest’operazione di dubbio gusto sentenziando che nel momento stesso in cui ha scelto di mentire circa la propria identità Ferrante avrebbe di fatto perso il diritto di mantenerla nascosta, lanciando nientemeno che un guanto di sfida ai giornalisti. Che il guanto di sfida sia stato lanciato è indubbio, com’è indubbio che è stato frainteso: Ferrante non ha mai sfidato nessun giornalista a scoprire il suo nome, se ne fosse stato in grado; piuttosto li ha sfidati tutti a dimostrarsi migliori di come li ha dipinti in quell’intervista e a non mettere in moto, almeno per una volta, la macchina della morbosità. Tuttavia a essere assurdo e allo stesso tempo interessante è il nesso causale secondo cui gettare fumo sugli occhi di chi ti importuna per scoprire un tuo segreto fa immediatamente decadere il tuo diritto alla segretezza.

Un ragionamento simile ha delle implicazioni sinistre perché lascia trapelare una sorta di aprioristica diffidenza nei confronti di chi, per una ragione qualsiasi, sceglie di non dare in pasto il 100% di sé al pubblico. La stessa definizione di pubblico, peraltro, sta cambiando: per esempio, avere un account su un social network ti procura automaticamente una platea che piano piano comincia a rivendicare dei diritti, tra cui quello di conoscere il tuo nome, la tua faccia o tutt’e due. In qualche modo, non mettere a disposizione queste informazioni invalida la tua presenza online, rendendoti meno reale e anche un po’ losco. Cos’hai da nascondere? Perché non ci fai vedere tutto? Siamo in rapporto su una piattaforma, ce lo devi. Siamo tutti abituati a mostrarci, devi farlo anche tu. Questa comune dinamica da social network non è altro che la riproduzione su scala del rapporto tra pubblico tradizionalmente inteso e celebrità, salvo il fatto che nel secondo caso le rivendicazioni sono irrobustite dalla convinzione di essere alla base del successo del personaggio per il solo motivo di aver acquistato un suo romanzo, visto un suo film o assistito a un suo concerto. La logica sottesa è: se spendo i miei soldi per te, oltre alla tua opera acquisto anche qualche diritto sulla tua vita. Posso per esempio disturbarti se ti incontro per strada o al ristorante con la tua famiglia, vorrò conoscere la tua vita sentimentale e ovviamente devi per prima cosa dirmi chi sei.

È opinione comune che queste siano le regole del gioco e che se non piacciono non sia obbligatorio giocare. Questo può essere parzialmente vero se la celebrità in questione lavora e si afferma esclusivamente grazie al rumore che riesce a creare attorno a sé e alla propria vita (come è accaduto a Kim Kardashian) e fatto comunque salvo il suo diritto di controllare le informazioni da diffondere o di cambiare idea e sparire in qualunque momento; è molto meno vero se stiamo parlando di un artista, cioè di una persona che risponde all’esigenza di condividere non certo se stessa bensì qualcosa che ha fatto. Non bisogna confondere i piani: c’è un autore e c’è una persona e sebbene uno scaturisca dall’altra non sono la stessa cosa. Nessuno dovrebbe sentirsi scoraggiato dall’atto creativo perché intimidito dalle conseguenze sulla propria privacy e nessuno dovrebbe trovarsi a dover decidere se condividere il proprio lavoro o proteggere la propria intimità come se una strada escludesse l’altra.

Era proprio questa la stortura contro cui Ferrante ha cercato di prendere posizione consegnandoci la propria tetralogia ma mai la propria identità. Eppure qualcun altro ha deciso unilateralmente che la scelta non spettava a lei e le ha usato l’intollerabile violenza di ficcare le mani nelle pieghe della sua vita. Se accettiamo questo, se mettiamo in campo anche un solo assurdo distinguo basato sulla sua fama, accettiamo di fatto l’idea che il controllo sulla nostra intimità e sulle informazioni personali da rivelare agli altri possa non essere del tutto nostro. Accettiamo che qualcuno decida arbitrariamente che i diritti che deteniamo sui fatti nostri a un certo punto non valgono più, per una qualche ragione come per nessuna, e da quel momento liberi tutti. Siamo sicuri di voler correre il rischio?

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