Come (e se) parlare del corpo degli altri: ipotesi di lavoro

Gloria Baldoni
inutile
Published in
7 min readSep 24, 2018
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L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce il peso forma attraverso l’indice di massa corporea, cioè il rapporto tra il peso e il quadrato dell’altezza. Se questo rapporto è compreso tra 18.5 e 25 siamo in presenza di un individuo normopeso, mentre sotto 18.5 esistono tre categorie di individui sottopeso e sopra 30 ben sei tipi di obesità, che richiedono diversi trattamenti (dieta ed esercizio fisico, o farmaci, o chirurgia bariatrica).

L’obesità è un’epidemia, e un’epidemia che si accompagna alla denutrizione che ne è il negativo. Si potrebbe pensare che l’obesità sia frequente nel primo mondo e la denutrizione nei paesi del terzo mondo e in via di sviluppo, ma specialmente in questi ultimi i due fenomeni viaggiano a braccetto. Quel che è certo è che al mondo ci sono più obesi che denutriti, e che il numero di obesi è triplicato dal 1975 a oggi. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2016 41 milioni di bambini sotto i cinque anni erano obesi o sovrappeso, un numero che allarma specialmente in proiezione. All’obesità sono infatte correlate molte patologie, molte delle quali stabilmente in cima alla classifica delle cause di morte più diffuse: ictus, infarto, embolia, diabete, alcuni tipi di tumore. Essere obesi riduce dunque l’aspettativa di vita, e per questo la medicina non può che trattare il fenomeno come un problema da aggredire e arginare, sia a livello pubblico con campagne di prevenzione nei confronti di famiglie e istituzioni, oltre che con la promozione di uno stile di vita non sedentario e di un’alimentazione equilibrata, sia nel rapporto a tu per tu tra medico e paziente.

Questo è grossomodo ciò che ha da dire la medicina sul grasso corporeo, ma non è che una minuscola parte della questione e anche la più facile da gestire. Ci sono numeri e linee guida da seguire per classificare il corpo che si ha davanti e rischi statistici (statistici, non validi per ogni persona) da comunicare al possessore di tale corpo. L’ultima parola rimane però al destinatario di tutte queste informazioni, portatore forse non così sano di una quota variabile di grasso in eccesso, ed è qui che cominciano i grattacapi.

Chiunque sa infatti che l’obesità non è affatto una questione solo medica. Se lo fosse, sarebbe noiosa come tutti i malanni che riguardano gli altri. Le malattie sono argomenti di un qualche interesse solo per gli specialisti o nel momento in cui invadono la nostra sfera privata. Il peso e la forma fisica, invece, hanno un’attrattiva diversa e ci rendono morbosi. Sappiamo cos’è l’indice di massa corporea e come calcolarlo, così come sappiamo quali sono i cibi che ci fanno bene e quali dovremmo evitare per essere magri, cioè sani. A grandi linee, chiunque può dare una definizione sufficientemente precisa di obesità. Non è detto che chiunque possa cavarsela altrettanto bene con la definizione di infarto.

Fuori dagli ospedali il peso è soprattutto un fatto sociale e spesso anche morale. Lo spazio che occupiamo sulle sedie, sui mezzi pubblici, nel mondo è il primo e più evidente indicatore del nostro valore estetico oltre che di una serie di informazioni che assommate parlano del nostro carattere: cosa e quanto mangiamo, se e quanto ci muoviamo, quanto tempo siamo disposti a dedicare alla cura di questo corpo. E quanto diritto hanno gli altri di consigliarci o, perché no, rimproverarci al riguardo. Non so come stessero le cose prima della body positivity, ma la nascita di una nuova consapevolezza rispetto agli standard estetici e la rivendicazione di una possibilità di bellezza eccentrica rispetto a essi ha scatenato una reazione troppo rabbiosa, troppo insistente ma soprattutto troppo mirata per poter essere liquidata (e dunque accolta) come legittima preoccupazione per la salute, pubblica o privata che sia.

C’è un rigurgito etico nei confronti di chi osa essere diverso senza vergognarsene e magari prova ad aiutare gli altri ad accettarsi anche sopra i 25 punti di indice di massa corporea—come se stesse peccando senza farci il favore di espiare, come se la sua serenità fuori norma incrinasse la legittimità degli sforzi di chi corre al parco e mangia broccoli pur di non scavalcare gli argini del normopeso. Come se invalidasse i limiti entro cui la maggior parte di noi si costringe per essere bello e potersi specchiare nell’altrui riconoscimento della nostra bellezza. Come se facesse traballare il dogma secondo cui essere attraenti è importante e merita tempo e attenzione. Perché il normale possa esistere e resistere, l’a-normale deve per forza rappresentare un fallimento morale contro cui puntare il dito. La salute ha poco o nulla a che vedere con tutto questo, ma poiché il normopeso come indicatore di benessere fisico e il normopeso come indicatore estetico si sovrappongono altrettanto fanno i piani di giudizio. E se riuscire a separarli è quasi impossibile, riconoscere questa confusione smantellerebbe l’assolutezza di molte opinioni e sarebbe sia un traguardo che un nuovo, importante punto di partenza in questo difficile discorso.

Leggere Roxane Gay, completamente a nudo nel memoir Fame. Storia del mio corpo, aggiunge un ulteriore tassello. Il corpo è una macchina che può o non può (possiamo o non possiamo far) funzionare, il corpo è un biglietto da visita e un compendio veloce di quello che ci si può aspettare da chi lo esibisce, ma il corpo è anche fortezza e membrana elastica tra l’individuo e la realtà che lo circonda, tra l’individuo e il suo passato. Il corpo, non immutabile ma plastico ben oltre la nostra capacità di controllo, reagisce ai traumi e si fortifica o si illude di fortificarsi in modi inaspettati e pieni di contraddizioni. Roxane Gay è stata stuprata a dodici anni, e subito dopo ha cominciato a mangiare secondo un meccanismo mentale che solo trent’anni dopo riesce correttamente a mettere in ordine e razionalizzare (rendersi indesiderabile agli occhi maschili significava per lei ridurre il rischio di essere aggredita di nuovo), ma a cui comunque non riesce a sottrarsi.

Fame è una descrizione sfrontata e dettagliata di cosa significhi pesare più di due quintali, un lungo personal essay sregolato e ribelle come il corpo di cui si sta occupando. Gay non si cura di essere rigorosa nella sua esposizione e di squadernare premesse che conducano a una conclusione necessaria. Anzi si ripete, svirgola, appende ragionamenti e non li conclude, insiste sugli aspetti evidentemente più dolorosi della sua obesità (e sono tutti aspetti quotidiani e sociali: aver paura di non riuscire a sedersi al ristorante, le persone che la fissano e la indicano, gli addetti ai lavori che non si aspettano che la scrittrice presente al reading sia patologicamente obesa). E non offre quello che ci si aspetta, cioè il passato problematico ma risolto di una persona che ha sviscerato il trauma ed è pronta a ripartire o si è già lasciata tutto alle spalle. Roxane Gay non è l’obesa che ci rassicura e ci dà soddisfazione. Non lo è perché si autocommisera a lungo eppure rifugge la parabola della donna vincente che chiude col passato rimettendosi in forma, non lo è perché si giudica duramente eppure non concede a nessun altro (neppure ai medici) il diritto di fare altrettanto, e non lo è soprattutto perché nel suo continuo ma non risolutivo girare intorno alla propria condizione fisica sollecita ma allo stesso tempo respinge un giudizio. Avremmo voglia di spronarla a darsi una mossa o anche solo di archiviarla come l’ennesima pigrona che non ha voglia di prendersi cura di sé, ma non possiamo perché è sopravvissuta a uno stupro di gruppo e la sua obesità ne è conseguenza diretta.

Sospingendo il lettore in una posizione ambivalente grazie al particolare dell’esperienza che gli sottopone, Gay insegna e dimostra l’inopportunità di qualunque pulpito da cui predicare la necessità di esibire un corpo perfetto. Il rapporto col proprio corpo è un fatto intimo e privato perché in una certa misura un corpo non è solo una somma di organi e umori e scariche elettriche ma anche una formazione spontanea che cresce su dolori ed esperienze individuali per poi scontrarsi contro le pareti delle pressioni sociali e dei modelli ortodossi di bellezza. In uno o più d’uno di questi passaggi c’è abbondante humus per imbarazzi e sofferenze che non hanno alcun bisogno di essere rinfocolati da rimbrotti o peggio ancora da vuote frasi motivazionali sul volersi bene o sull’essere la miglior versione di se stessi. Questo genere di pressione e questo controllo collettivo sulla salute individuale potranno far sentire eccezionalmente virtuoso chi li esercita ma non fanno che confermare a chi non si ama che in effetti non dovrebbe amarsi, e che per meritare di volersi bene deve prima cambiare tutto. Eppure non è nostro diritto attentare gratuitamente all’equilibrio altrui, ed è superficiale (oltre che nocivo in potenza) pretendere di poter ricostruire storie personali o falle di carattere partendo dal mero dato ponderale. Per questa ragione ai facili forconi sono preferibili un ambiente non giudicante, confortevole per qualunque stazza, lo scardinamento della bellezza esteriore come unico valore e fine supremo (da accompagnarsi con l’affermazione di una bellezza che non sia più singolare ma varia e multiforme) e la decostruzione del linguaggio colpevolizzante e punitivo nei confronti dell’obesità — quand’anche fosse patologica, proprio come quella di Roxane Gay. Non è facile, proprio perché è nell’aspetto altrui che specchiamo il nostro ed è da questo confronto che ormai automaticamente deduciamo il nostro valore, ma è proprio nel riconoscimento di questa sovrastruttura tossica, oltre che nell’empatia coi disagi dell’altro (che potrebbero essere i nostri) e nella serena ammissione della nostra ignoranza rispetto al vissuto di chi abbiamo davanti, che si possono trovare la spinta e i modi giusti per spogliare le nostre parole se non addirittura il nostro sguardo di ogni intento critico e severo.

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