«Dal mio amore e dalla mia pietà»: Vasilij Grossman

Marta Cai
inutile
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13 min readFeb 15, 2019

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Vasilij con l’Armata Rossa nel 1945.

La vita di Vasilij S. Grossman (1905–1964) è una catasta di contraddizioni che fu spesso sul punto di crollargli addosso e seppellirlo. Per cominciare, lui non nacque Vasilij ma Iosif e la S. del patronimico può abbreviare sia Salomovič sia Sëmonovič, per l’allora consuetudine degli ebrei integrati di russificare i propri nomi. Figlio un’insegnante di francese e di un ingegnere che in gioventù aderirono al movimento socialista del Bund, visse come nipote povero a casa degli zii ricchi di Berdičev, in Ucraina, dopo che il padre, vuoi per crisi coniugale, vuoi per migliorare le entrate, si allontanò dalla famiglia per andare a lavorare in una delle mastodontiche industrie della Russia centrale; verosimilmente, a differenza del vecchio maestro protagonista di uno dei suoi racconti più famosi, nessuno dei suoi parenti passò «dalla religiosità appassionata e furiosa all’ateismo freddo e terso», attestandosi fin da subito nelle fresche regioni della seconda opzione, ma prima di morire chiese, senza essere accontentato, di venire sepolto in un cimitero ebraico. Virgulto di una borghesia illuminata che non parlava yiddish, lontana per domicilio e cultura dagli shtetl alla Violinista sul tetto, perse la madre nel 1943 per mano nazista, gettata viva in una fossa comune durante l’occupazione in Ucraina. Coinvolto da Il’ja Ėremburg, lavorò alla stesura del Il libro nero — Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941–1945; fu sostenitore della Rivoluzione, studente di chimica a Mosca, giornalista al fronte per l’organo di stampa ufficiale dell’Armata Rossa, deluso dalla Rivoluzione, privilegiato dai rimproveri di una piramide di burocrati, dai funzionari dell’Unione degli Scrittori fino a Chruščëv, citato senza essere nominato sui monumenti ai caduti di Stalingrado/Volgogrado, condannato a una damnatio memoriae in corso di esistenza, pubblicato in patria con censure, all’estero di contrabbando e da morto. Nel suo studio campeggiavano due foto di Einstein, nella scienza vedeva un faro tra le tenebre dell’idiozia umana, rifletté spaventatissimo sulla bomba atomica, scrisse un racconto ispirato alla cagnolina Lajka e la risarcì con un finale positivo.

La sua produzione è vasta: racconti, reportage, poderosi romanzi. Parlò, come erano invitati a fare gli scrittori sovietici, di ferro, carbone, altiforni, valorosi soldati e probi rivoluzionari. I suoi resoconti da Stalingrado lo resero una celebrità; mentre gli altri inviati riuscivano ottenere dai soldati solo una sfilza di «da»e «niet», le sue interviste snocciolavano le esistenze di oscuri Ivan, raccontavano i loro pasti, i ricordi di quel che erano prima della guerra, le loro abilità nell’intagliare il legno. Entrò a Treblinka con l’Armata Rossa, vide il campo raso al suolo dai tedeschi nell’estremo tentativo di cancellare le prove di ciò che lì era accaduto; raccolse testimonianze, ricostruì gli ultimi giorni di quella dolente umanità e il risultato fu accluso ai materiali dei processi di Norimberga. La guerra mutò chiunque in Europa, compreso lui. Si rese ben presto conto che il dettame ufficiale del periodo postbellico di «non dividere i morti» imponeva di tacere sul capillare antisemitismo che la Rivoluzione non aveva spazzato via insieme allo zar, sull’eroismo dei soldati semplici di fronte all’inettitudine degli ufficiali e al nefasto rigore dei Commissari politici e soprattutto sul diffuso collaborazionismo degli ucraini che a loro volta erano stati ben lieti di vendicarsi della collettivizzazione forzata e della Carestia del Terrore. Grossman stesso scampò per un soffio al Grande Terrore staliniano nicchiando, tenendosi lontano dai guai, accettando di buon grado le tirate di orecchie di varie Commissioni e persino di Gorkij per il suo «naturalismo», per non essere mai abbastanza «realista»; dopo la guerra e nonostante la celebrità ottenuta con i suoi reportage, gli fu ancora più difficile vedere pubblicate le sue opere. Si dedicò con tutte le forze alla stesura del suo capolavoro Vita e Destino, un romanzo dai molti richiami, a cominciare dal titolo, con Guerra e Pace. Non gli interessava rinnovare la tradizione letteraria russa, gli andava benissimo raccontare storie e insieme riflettere sulle grandi domande e le eventuali risposte: la vita, il destino, il tempo, la storia, la verità. Ma, a differenza di Tolstoj, visse direttamente l’occupazione straniera in patria ed ebbe a che fare con qualcosa di radicalmente inedito, un massacro senza precedenti, un’umanità che aveva perso i suoi tratti caratteristici.

In questo secolo in cui «gli uomini vivono da lupi e i lupi da uomini» cosa poteva scrivere? Per esempio disseminare qua e là dubbi o esplicite riflessioni sulla radice che nazismo e stalinismo sembravano aver condiviso: eliminare l’umano dell’uomo. Il manoscritto gli fu requisito nel 1961 con la promessa che sarebbe stato forse pubblicato «tra 250 anni», non prima e ringrazia che sei un reduce ed è finita l’epoca di Stalin. Fiducioso nei confronti del dichiarato Disgelo, nel 1962 scrisse una lunga lettera a Chruščëv, ma la disperazione rende sbadati e Grossman dimenticò che il vento del nuovo ordine riguardava soltanto il recente passato sovietico e si poneva come una ricusazione delle pratiche staliniane, non dell’intero sistema di controllo e censura, e che — i fatti privati hanno spesso la loro portata nelle vicende storiche — costui era ancora piccato perché il grande cronista non l’aveva intervistato quando era Commissario in capo del Partito a Stalingrado.

Tanto caparbio nel perseguire i suoi obiettivi («parlare per quelli che giacciono sottoterra»), Grossman si rivelò spesso molto ingenuo nel valutare i mezzi per realizzarli. Ma se la lettera non sortì alcun effetto, rimane ugualmente un documento interessante circa le sue intenzioni di scrittore. Oltre a chiedere che gli venisse restituito il manoscritto a cui aveva dedicato anni di impegno, in essa rivendicò come inalienabile il diritto di ogni scrittore di costruire il proprio mondo, di esprimere la propria visione, di non rappresentare la realtà come un’eco illusoria e stereotipata. Ribadì che il suo non era un libro politico e accolse come un complimento l’accusa che fosse «soggettivo», dato che «un lavoro letterario non può che essere soggettivo, la letteratura non è semplicemente un’eco, ma nel modo che le è caratteristico essa ci dice qualche cosa circa la vita e i drammi umani […]. La questione è il diritto di scrivere la verità, una verità appresa tra le sofferenze sperimentate in lunghi anni di vita […]. Ho composto il libro a partire dal mio amore e dalla mia pietà per la gente comune, dalla mia fede in essa. Le chiedo che il mio libro mi venga restituito.» Le sue parole caddero nel vuoto e il manoscritto non gli fu restituito. Nonostante la sua ingenuità, Grossman ebbe l’accortezza di nasconderne poche copie presso altrettanti amici fidati e il romanzo fu contrabbandato all’estero, con l’aiuto tra gli altri del fisico Sacharov, e infine pubblicato in Svizzera nel 1980 a circa vent’anni dalla sua morte.

La sua prassi di costruzione del mondo è particolarmente evidente nei racconti del secondo dopoguerra. La forma breve accentua il ritmo per incastri di paragrafi, dall’istantanea di un ambiente alla riflessione. Abituato a scrivere come reporter dal fronte, anche la sua narrativa tende a sconfinare nella cronaca, ma paradossalmente reso libero dal veto che era stato posto sulle sue pubblicazioni, i suoi resoconti si dilatano fino a diventare prove delle sue teorie sulla storia e l’umanità. Talvolta Grossman non si limita a «mostrare» e si assume il gravoso piacere di «dire». Succede per esempio nel romanzo incompiuto Tutto scorre (a cui apportò modifiche fino a pochi giorni prima di morire) e in La Madonna Sistina (1955), sorta di reportage visionario dove a partire da sé stesso di fronte al capolavoro di Raffaello immagina, anzi «vede» Hitler, l’artista fallito Hitler, davanti a quella donna con un bambino in marcia verso la morte che lui stesso ha deciso, «vede» la dignità di tutte le vittime, la bestialità di tutti i carnefici e «il legame prodigioso fra le epoche» attraverso l’umano nell’uomo.

«La gente si stupirebbe molto se sapesse quante cose notò il mulo il giorno in cui la guerra cominciò a est…»

Grossman voleva raccontare la «verità», voleva raccontare storie che riguardassero il mondo così come lui lo vedeva. E per meglio guardarlo, per trasmettere una verità che non fosse «su commissione», nei suoi racconti assume prospettive marginali: un mulo, una bambina, un vecchio, una cagnetta, un moribondo. La scelta di assumere visuali insolite non è soltanto un espediente narrativo che corre il rischio di risultare pacchiano e artificioso, ma il filtro per setacciare gli umani comportamenti, la sensibilità di ogni essere vivente di contro all’indifferenza delle grandi pianure, delle montagne, degli eventi storici: «La gente si stupirebbe molto se sapesse quante cose notò il mulo il giorno in cui la guerra cominciò a est: la radio sempre accesa, la musica, le porte spalancate della scuderia, le folle di donne e bambini fuori della caserma e le bandiere sopra la caserma, l’odore di vino in bocca a gente che di vino non aveva mai puzzato, le mani di Nicolò che tremavano quando lo portò fuori dalla stalla e gli infilò l’imbraga». Grossman si mette in ascolto, spalanca tutti i sensi, sente come un mulo, vede come un dittatore, annusa come un cane, spalanca gli occhi come una bimbetta. Lo accusarono di essere soggettivo ma non lo era affatto, era «ultrasoggettivo», alla ricerca spasmodica della singolarità più puntuale e perciò universale, comune a tutti.

La maggior parte dei racconti di Grossman si apre con la cronaca di un personaggio colto in una specifica azione o con la descrizione di un ambiente circoscritto. In questo istante minimo, quotidiano, si insinua il cuneo della Storia: «La dirigente di settore di un commissariato del Popolo pansovietico, Stepanida Egorovna Gorjačëva, la sera del 29 luglio partiva per la Crimea. Le sue ferie cominciavano il 1° agosto e lei, per guadagnare tempo, partiva il 29, dato che era la vigilia di un giorno festivo». Con un incipit che sembra un dispaccio, Grossman caratterizza la protagonista. Questa Stepanida deve essere una in gamba (è dirigente!), forse un poco ansiosa, o non sopporta la solitudine quando non lavora. E caratterizza un’epoca: andare in vacanza in Crimea significava essere ben visti dalle autorità. Lo stesso non può dirsi dell’inquilina del racconto omonimo (1960): «Anna Borisovna, una vecchietta che aveva ottenuto un alloggio per disposizione del soviet di zona di via Dzeržinskij, strappò un sorrisetto divertito agli altri inquilini presentandosi senza mobili, stoviglie, o vestiti, e senza nemmeno le lenzuola». È chiaro che alla povera Anna le cose non sono andate bene: dev’essere stata in un posto dove non aveva lenzuola sue, ma se le danno un appartamento è perché «di recente la Corte Suprema l’aveva riabilitata riconoscendo la sua piena innocenza». Insomma, uno scampolo di ordinaria vita sovietica, dove i vicini spariscono e a volte ricompaiono, magari dopo vent’anni, magari altrove, magari irriconoscibili, e ogni evento è regolato dalle autorità. Ecco perché Grossman insiste sull’unicità della visuale di ognuno e in particolare dell’artista, che deve creare il mondo a sua immagine e somiglianza. E dargli vita. I «mondi su commissione, in base a fantasticherie da circolare amministrativa […] sono pervasi di luce e armonia, sono mondo che hanno uno scopo, in cui tutto ha un senso. Ma a immagine di chi sono stati creati?». Sono mondi da sbadigli sociologici, senza spasmi di piacere o di sano disgusto. Invece i mondi creati a propria immagine e somiglianza «sono mondi mal cotti, distorti e deformati […]. Non esistono mondi perfetti. Esistono solo gli universi comici, bizzarri, che piangono e cantano», tutti gli altri non hanno anima, perché non ha anima chi li ha creati.

Qualunque cosa sia osservata dice molto dell’osservatore. E qualunque cosa sia taciuta dice molto della cosa stessa. L’abisso si descrive da sé, con la sua assenza di qualsiasi senso. Il racconto Il vecchio maestro (1943) si apre come un sipario su un palcoscenico. Il palcoscenico è il cortile di un caseggiato in un villaggio ucraino. I personaggi lo riempiono alla spicciolata, a cominciare da quelli che saranno i protagonisti: un vecchio ebreo e un’orfana. Il primo si siede su una panchina al sole con un libro e sonnecchia cullato dalle voci dei bambini. C’è la guerra, ci sono vedove, ci sono mogli con mariti invalidi e madri di disertori, la vita scorre. Ci sono allarmi antiaerei, ma prima di correre ai rifugi si controlla che nessun furbastro porti via le cibarie lasciate sui tavoli e quando l’allarme rientra basta una ripulita dalla polvere e si torna ai fornelli (all’aperto). I morti ci sono, ma si è ormai assuefatti ai cadaveri. Anzi li si invidia. I tedeschi avanzano e stanno per entrare nel villaggio. L’occhio di bue del palcoscenico illumina il maestro. Perché non prova a scappare? È semplice, non riesce a trovare una risposta a questa domanda: «Come può un popolo europeo civilizzato che ha prodotto luminari della scienza medica propugnare le tenebre del Medioevo e il razzismo delle Centurie Nere?». Non è possibile. Ma il silenzio nel cortile scende prima della notizia dell’avanzata (spesso Grossman inserisce all’inizio dei suoi racconti un’eco del tema o della scena principali), quando «Katja, sei anni, figlia del defunto tenente Vajsman» gli si avvicina e gli allunga «una frittella acida e ormai fredda: ‘Mangia, maestro!’». Un vago presagio fa ammutolire «vecchie comari e giovani spose dal seno prosperoso dimentiche dei mariti» e all’anziano torna «la voglia di comprendere il miracolo della bontà umana». La notte trascorre insonne per tutti, qualcuno preferisce prendere il veleno, «poi il sole si levò comunque all’ora debita». Il disertore si unisce ai tedeschi. I tedeschi rastrellano gli ebrei. Nella confusione, Katja perde la madre. Si aggrappa alla giacca del maestro che la solleva in braccio. Prima di essere fucilati e cadere insieme agli altri nella fossa, la bambina gli copre gli occhi con le manine: «Non guardare da quella parte, se no ti spaventi». Su una scena del genere, carica di pathos, ci si aspetterebbe la chiusura del sipario, invece Grossman prosegue. Come vive chi rimane? Tolti dal palcoscenico-cortile i due protagonisti, come agiscono gli altri personaggi? Si prosegue con l’insonnia, i partigiani hanno fatto esplodere un mulino, le stanze degli ebrei possono essere occupate, quel che hanno lasciato può essere preso. E mentre l’incendio avanza e il cielo è scarlatto, una vecchia scarmigliata strilla: «Non mi fate paura, crucchi!» e promette di buttarceli lei un giorno nel fuoco, i tedeschi. È pazza. La vita, incredibilmente e pazzamente, continua.

Lo sguardo di Grossman compie spesso scarti improvvisi dalle prospettive già marginali che assume, così che non gli risultino troppo confortevoli. La piccola Maša (In periferia, 1963) cresce tra gli agi in una famiglia di intellettuali; ascolta le conversazioni dei grandi, ne individua i vezzi («aveva notato che fisici e medici parlavano con particolare interesse di musica e pittura […], mentre artisti e poeti si entusiasmavano per protoni e neutroni: Maša, però, ogni tanto aveva l’impressione che lo facessero soltanto per sembrare intelligenti»). Poi un attacco di appendicite la fa finire in ospedale e un’epidemia la isola dai genitori. Qui scopre le donne del popolo, i letti di ferro e i pasti nelle scodelle di latta, le storie di superstizioni e di magie — povere magie di campagna — che tutte sembrano conoscere tranne lei; ride, assapora le parole storpiate, si annoia, scopre l’impotenza dei genitori di fronte alla sua sofferenza e a quella altrui, individua le differenze e soprattutto le somiglianze tra il padre e la vecchia che di qualsiasi cosa parlino finiscono sempre a raccontare di loro stessi e del paese d’origine. Quando torna a casa tutto è come l’aveva lasciato, ma è diverso.

Il mulo Giu, nel suo procedere attaccato a un carretto, raggiunge vette quasi mistiche. Dopo un elenco di sensazioni che potrebbe continuare all’infinito (l’erba, la pioggia, le frustate), subentra il peggiore dei destini, l’indifferenza assoluta; è vivo, ma non sente nulla. «Masticava il fieno, indifferente, senza gioia, e con altrettanta indifferenza sopportava la fame, la sete, il vento dell’inverno che lo sferzava. Il bianco della neve gli feriva i bulbi oculari, ma le tenebre e il buio lo lasciavano comunque indifferente, Giu non li desiderava e non li aspettava». Il tema dell’indifferenza alla vita, della mancanza di sensazioni ricorre spesso in Grossman. In Il bene sia con voi! (1963–64) uno spassoso quanto commovente resoconto del suo soggiorno in Armenia in qualità di «traduttore dall’armeno che non conosce l’armeno», la resa precisa e innamorata delle conversazioni con gli abitanti si lega alla descrizione minuta e personalissima dei paesaggi. A colpirlo è l’onnipresenza della pietra; non quella delle montagne, del biblico Ararat, ma quella che ricopre il terreno, senza fine né inizio. È il trionfo del tempo, della permanenza. E tuttavia, «la mussolina della vita», questo tessuto fragile e tenace, copre «il globo defunto, la sfera morta del cosmo» e su questo globo morto l’essere umano è un gigante che fa spuntare frutteti e sfida le forze indifferenti della natura, così come il mulo Giu schiacciato dal masso d’una fatica senza senso, sbircia la misera cavalla che gli hanno messo di fianco, ne avverte il sudore e «in quel mare di indifferenza universale» si apre «una piccola fenditura». Sono conquiste subitanee, costantemente minacciate. L’indifferenza, nella sua immobile ottusità di pietra riesce a dilagare nell’uomo che perde la sua umanità, non riconosce la sofferenza.

Non credo che Grossman guardasse alla sofferenza come al viatico per raggiungere una redenzione di qualche genere. Conosceva bene la natura umana, non idealizzava proletari e contadini in quanto tali, ed era un uomo con un forte senso del piacere; a suo dire fumava e beveva troppo, e si lasciò conquistare da una seconda e piuttosto tremenda moglie perché cuoca sopraffina. Se di salvezza osiamo parlare, lui la trova nel riconoscimento della sofferenza altrui. Nel rispetto per essa. Grossman è uno scrittore rispettoso. Rispetta ogni singolo «io» che incontra, ne è rapito, sia lì presente a lui (o a lui che si fa bambina, mulo, cagnetta) nelle sembianze di una contadina, di uno scienziato, di una vecchia bisbetica che dice prontosoncòrso e pelliccia di londra o di uno scrittore che ammira: «Per questo io mi commuovo, sono felice e piango quando leggo e medito sulle opere di coloro che uniscono, che legano indissolubilmente l’amore e la verità di un mondo eterno alla verità del proprio “io” mortale».

Breve bibliografia per i soliti curiosi:

Beevor, A. e Vinogradova, L., a cura di, Vasulij Grossman. Uno scrittore in guerra, Adelphi, Milano, 2015.

Ėremburg, I. e Grossman V., Il libro nero — Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941–1945, Mondadori, Milano, 2001.

Garrard, J. e C., Le ossa di Berdičev. La vita e il destino di Vasilij Grossman, Marietti 1820, Genova-Milano, 2009.

Grossman, V. Il bene sia con voi!, Adelphi, Milano, 2011.

Grossman, V., La cagnetta, Adelphi, Milano, 2013.

Grossman, V., L’inferno di Treblinka, Adelphi, Milano, 2010.

Grossman, V., Tutto scorre, Adelphi, Milano, 2010.

Grossman, V., Vita e destino, Adelphi, Milano, 2013.

Maddalena G., e Tosco P., Il romanzo della libertà. Vasilij Grossman tra i classici del XX secolo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007.

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