Il Dottore al Rucker Park

Francesco Cisco Pota
inutile
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4 min readApr 4, 2017

Io non lo so com’è stato. Non c’ero, e avrei voluto esserci. Ormai è leggenda anche per chi c’era per davvero, che se avessero ragione tutti non sarebbe bastato il Madison Square Garden a contenerli. C’è una foto che ne mostra un frammento. Nella foto c’è un nero, altissimo, davanti a lui una folla di neri. Lui è in piedi in maglietta e pantaloncini, le mani appoggiate sui fianchi ma con i gomiti rivolti all’indietro, una posizione quasi innaturale. La folla lo circonda, a debita distanza, tutta attorno a lui. Una massa di uomini neri attorno al campo, sugli alberi, sul tetto dell’edificio che sta oltre la strada. Sono tutti lì per lui, ma essere lì per lui vuol dire molto di più. L’eroe ha un abbozzo di capelli afro, in basso a destra, ma si notano solo osservando bene, due bianchi, uno con le mani appoggiate sulle ginocchia.

Julius ci è nato a New York, è stato battezzato Dr J al Rucker Park, la mecca dei campi da basket newyorkesi. Sui campetti di Harlem e del Bronx ci si è sbucciato le ginocchia ma ora, se ho ben datato quella foto, Julius sta giocando da professionista nella ABA per i New York Nets e ha appena fatto vincere alla squadra un titolo. Ora Julius è molto più di se, è bigger than Jesus su quelle strade. Mi immagino le persone correre in fretta per non perdersi la partita, superare di slancio la sede del Black Panther Party all’angolo. Vedo ragazzi che copiano il suo movimento in uno contro uno per lasciare sul posto un membro della Nation of Islam e i suoi giornali. Mi immagino bambini saltare fuori da finestrini senza vetro e correre sui tettucci di macchine abbandonate. Mi immagino teste spuntare fuori da ogni casa dei quartieri neri di New York non appena la notizia avesse cominciato a girare: Anche quest’anno il Dottore scende al Rucker.

I quartieri neri di New York oggi sono un altro mondo rispetto ad allora. Oggi da turista ho passeggiato per le vie di Harlem cercando tracce di quello che era, nelle stesse case di uno o due piani cromaticamente ben organizzate che ho fotografato in quegli anni avreste potuto trovare ragazzine che si prostituivano per una pipata di crack. È da qualche tempo che mi occupo degli anni ’70 e degli Stati Uniti e non ho ancora ben capito come vengano ricordati. Perché ci sono i pantaloni scampanati molto funky con i loro colori sgargianti, le capigliature afro, gli shorts, c’è il completamento delle Torri Gemelle e le vittorie dei Knicks, il movimento pacifista e Imagine. Ma c’è anche il fuoco che brucia i ghetti, le auto abbandonate, i ragazzini che per andare e tornare da scuola scavalcano macerie, i riot, gli omicidi e la strage della droga. Ci sono la Nation of Islam, il Black Panther Party for Self Defense e il movimento per i diritti civili che cercano di riempire il vuoto. In quel periodo la città di New York rischia il fallimento e, per evitarlo, tra le altre cose lascia a casa poliziotti e pompieri. Gli incendi dolosi e la speculazione edilizia ringraziano. È alla fine di quel decennio che nasce l’hip hop. Si dice spesso che le battle di freestyle e di breakdance nascano per dare sfogo alle lotte tra bande.

In quella New York le bande sono davvero diffuse, non sempre divise etnicamente, più spesso per zone dei quartieri, sono bande che magari gestiscono piccole quantità di spaccio, che presidiano il territorio, sono violente e spesso una risposta rabbiosa allo stato di totale abbandono. Non è sbagliato legare la nascita del hip hop a tutto questo ma, per me, è solo una parte della verità. Quelle battle, i graffiti, anche le semplici tag, nascono anche, anzi prima di tutto, da quell’energia da quella voglia di avere qualcosa di meglio e di diverso che li portava a correre al Rucker quando c’era il Dottore, che spingeva i giovani a riunirsi negli scantinati per poter sentire musica, ballare e divertirsi nonostante una città sull’orlo della bancarotta a loro lasciasse soltanto macerie e incendi. Nasce dall’evoluzione delle vecchie forme di militanza e di resistenza. È una forma di riscatto e di vendetta.

La New York dove tutto questo è nato è una città che oggi non c’è più. Non c’è nostalgia, non si può avere nostalgia di quartieri distrutti, povertà e morte. Ma insieme a quella città è sparita anche quell’energia creatrice e dirompente. Di rap e di hip hop oggi ne abbiamo fin sopra i capelli, però io voglio provare a ripercorrere quelle origini, non perché voglia riscattarlo, o perché pensi tenetevi la vostra Nicki Minaj io mi tengo il mio Kool Herc, anche perché il tempo in cui ascoltavo solo rap è passato da un pezzo. Ma perché vorrei guardare quella storia da un po’ più lontano, con più contesto, non solo la storia di neri che hanno trovato un modo di esprimersi ma anche quella di un modo di esprimersi che poteva nascere solo in quella città e in quel momento. E si, un po’ c’entra anche Baz Luhrmann.

Questo è l’inizio del viaggio, nelle prossime settimane potrete leggere le prossime tappe.

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