Intervista a Vanni Santoni

di Federico Di Vita

inutile
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16 min readJul 29, 2015

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È da poco stata inaugurata la collana Solaris di Laterza, la proposta è quella di “una saggistica che desidera cogliere un sentimento della realtà attraverso la qualità letteraria”, con “la disponibilità a ragionare intorno a esperienze e a stati d’animo incerti e sfuggenti”. Uno dei quattro titoli chiamati a battezzare la nuova serie è Muro di casse, di Vanni Santoni. Aprendo il suo profilo Twitter lo si può osservare da circa un mese rimbalzare come un vettore impazzito intento a presentare due, tre, quattro volte al giorno il volume in diverse città d’Italia. È proprio il caso di dire quindi che l’abbiamo intercettato — e costretto — a Firenze a una lunga chiacchierata, che prendendo spunto dai temi del libro ci ha portato a parlare delle “feste” — quelle che la stampa impropriamente definisce rave –, della musica tekno, delle droghe — psichedeliche e non –, e dei rapporti con una diversa percezione dei luoghi e del tempo.

Partiamo dall’inizio: l’epigrafe (Nel mondo divenuto oscuro, voglio battere il tamburo che non è segno di morte, di Siddhartha Gautama) te la sei inventata?

[ride] No, è vera, l’ho trovata in un libro edito da Fazi che tracciava un parallelo tra le figure di Buddha, Confucio e Gesù. E lo faceva senza preoccuparsi troppo di citare le fonti, quindi magari la frase di quel libro è inventata, però quest’epigrafe viene da lì.

Riguardo alla forma nelle prime pagine dichiari che il libro è un romanzo — se ci pensi è una cosa singolare, di solito è un fatto autoevidente, non a caso questo è un romanzo molto ibrido, che esibisce con insistenza le fonti — quello che mi sono domandato da subito è se non ti sarebbe convenuto andare fino in fondo e scrivere veramente un romanzo.

L’ostensione delle fonti penso che abbia a che fare con il tipo di cose che può offrire un libro oggi, in un contesto di rete. Si vagheggiava una volta di ipertesti, oggi c’è l’ipertesto totale, a parte delle sacche di dark-web tutta la rete è collegata in un enorme ipertesto, parti da Wikipedia e puoi navigare milioni di ore… Questo cambia il rapporto con l’informazione e, soprattutto, rende in partenza fallace la pretesa di un libro di essere esaustivo. Di qui viene l’ostensione delle fonti e l’utilizzo di appendici in parte vere in parte fasulle, scritte ad hoc, che diventano come porte aperte attraverso le quali il lettore può approfondire la questione per cazzi suoi. Più che della volontà di fare un ibrido questo dipende dalla considerazione di dove va a posizionarsi un romanzo oggi. Secondo me internet ha fatto scomparire la necessità della manualistica o del saggio divulgativo, oggi il libro tende a posizionarsi come una sorta di prisma che filtra, seleziona, offre possibili letture e fa da sponda a ulteriori letture del lettore.

In ogni caso essendo un romanzo saremmo in un territorio di finzione — ma comunque vicini al grado zero, visto che il motore del libro gira grazie alla raccolta di dati e agli incontri di un personaggio che vuole a sua volta scrivere un romanzo, un meccanismo che se non sbaglio avevi già impiegato.

È vero, è la stessa struttura che insieme a Salimbeni abbiamo usato per L’Ascensione di Roberto Baggio, avevamo scritto testi molto eterogenei e per rispondere al dilemma di come metterli insieme siamo arrivati alla conclusione che l’unica forma in grado di accoglierli in modo organico fosse una struttura antica, quella dei Racconti di Canterbury o del Decameron. Muro di casse ha la stessa intelaiatura, magari giocata in modo meno ingenuo, più aderente. Poi c’è una piccola chiave, in quella specie di prologo cui accennavi ci sono dei personaggi che si svegliano, tra cui la voce narrante e il primo dei protagonisti, Iacopo, che dice a Melusine, la sua ragazza — sostenendo l’impossibilità di fare un lavoro documentale su un contesto di sbottati — “Vai da quello, e indicò un tipo svenuto di ketamina, una decina di metri sotto di voi, un lurido bancale per cuscino, e chiedigli di darti una mano […] fai prima a sdoppiarti in tre o quattro e intervistarti da solo”. Questa è una possibile lettura: volendo i personaggi potrebbero non essersi mai spostati da quel divano. Potrebbe essere una cosa tipo Allucinazione perversa [Jacob’s Ladder, n.d.r.], in cui tutte le visioni erano ciò che il protagonista immagina mentre sta morendo…

Temo che avresti dovuto dare una spia un po’ più concreta di questa possibilità, per sostenerlo…

In realtà questo sistema è nato dopo. Il primo nucleo è cresciuto intorno alla messa in forma di romanzo di tutta la ricerca fatta sulla spedizione dei Desert Storm in Bosnia durante la guerra nell’ex-Jugoslavia. Il secondo nucleo viene da un gruppo di testi, abbastanza eterogenei, che costituiscono la parte più vivida del primo capitolo, quindi i teknival in Valdarno, la festa ad Altopascio, con brani anche poetici. E poi, un po’ faticosamente, il libro è arrivato a comporsi intorno a quest’idea della voce narrante esterna che non è nata tanto per fare questo romanzo-non-romanzo ma perché mi serviva una sponda per il pezzo di Cleo [la parte centrale del libro, n.d.r.], dove vengono proposti diversi estratti da testi di musicologia, antropologia e quant’altro, e quei passaggi, se non ci fosse stato un personaggio a dialogare con chi parlava, sarebbero stati molto ostici e anche pallosi. Poi di conseguenza è venuto il prologo e il libro ha preso questa forma.

Nella seconda parte c’è tanto materiale, è quasi come se avessi sentito il bisogno di legittimarti. Esistono molte fonti riguardo la musica, le droghe, l’antropologia… ma sono testi specialistici, invece qui ti rivolgi a un pubblico ampio, da varia. Personalmente non ho notizia di altri libri sulle feste e a volte ho avuto come la sensazione che volessi mettere un po’ le mani avanti, come se dicessi occhio che ’sta roba esiste, c’ho le prove.

È vero che a volte Muro di casse è una tempesta di dati molto concentrati, a volte ho fatto la scelta di condensare roba che avrebbe potuto generare più pagine di testo. Ed è vero che non esiste un romanzo, ma non esiste neanche un saggio onnicomprensivo, esistono dei testi che analizzano le scene locali, dei libri che trattano determinati aspetti ma non il fenomeno in quanto tale. Penso che questo derivi dalla necessità di aggredire molto violentemente vent’anni di narrazioni fasulle. È chiaro che esistono anche degli ottimi paper specifici sul mondo della psy-trance, ma sono studi accademici e usano categorie sociologiche. Invece nel momento in cui scendi in un territorio più ampio, ti scontri con una massa di pregiudizi. La musica tekno, una delle tante forme di musica senza testo, come la musica classica, viene presentata come un tunz-tunz da rincoglioniti, come una cosa ripetitiva e soprattutto stupida — potrei dire la stessa cosa di Bach: è ripetitivo, usa la ricorsività quanto la tekno, ed è tutto uno zàn-zàn-zàn… Di queste banalizzazioni è pieno il mondo del dibattito sull’arte, quanta gente ha detto che Mondrian è una tovaglia? Sulle droghe invece, essendo un argomento tabù, c’è una pregiudiziale. C’è stata una narrazione, ormai di mezzo secolo, che sta cambiando solo ora e che le ha appiattite verso l’alto — questo tra l’altro è interessante. Esclusa la canapa, che a causa della sua enorme diffusione ha sempre difeso il suo status di droga leggera, se fino a pochissimo tempo fa chiedevi a una persona qualunque di collocare in una scala di pericolosità gli psichedelici, come l’LSD o i funghi, o gli entactogeni, come l’MDMA, per non parlare di oggetti misteriosi e di difficile categorizzazione come la ketamina, senz’altro avrebbe appiattito tutto verso cocaina ed eroina. Invece da un punto di vista tossicologico, farmacologico, di assenza di dipendenza e via dicendo, queste sostanze sono per lo più vicine alla canapa, anche se ovviamente c’è una differenza sostanziale: l’enormemente maggiore intensità degli effetti — non è the, evidentemente, anche se i “danni” provocati sono vicini a quelli del the. È una conseguenza anche logica quella di associare al maggior effetto una maggiore dannosità, ed è anche per questo probabilmente che in molti ambienti la pericolosità della cocaina è sottovalutata. È un righino, tipo un caffè ma più buono… e invece anche quella riga di coca fa molto più male delle otto ore di viaggio che puoi fare mangiando i funghi.

Visto che siamo passati alle droghe mi vengono in mente i clamorosi paradossi legislativi tuttora vigenti. Succede per esempio che sotto gli effetti della ketamina — che rendono sostanzialmente immobili, rapiti da un’esperienza extracorporea — per la legge italiana si potrebbe guidare.

È chiaro che c’è sempre stata una scarsissima reattività del sistema rispetto a queste cose. Tutto è sempre stato gestito in modo arbitrario seguendo le isterie del momento: pensa a quello che è successo con la salvia divinorum. La salvia divinorum è una sostanza stranissima, che arriva dagli altopiani dei Mazatechi, neanche i teorici sono sicuri se sia possibile categorizzarla come uno psichedelico, ha degli effetti proprio singolari, di fatto è una droga con un bassissimo potenziale di abuso, si fuma e si ha un minuto di allucinazioni violentissime, poi basta. Questa roba veniva venduta negli smart-shop, i ragazzini la compravano soprattutto perché era legale, a volte ne rimanevano terrorizzati, perché può scaraventarti in un mondo assurdo e non appena entrò nel radar dei giornali cominciarono subito a titolare cose come è arrivata la salvia allucinogena — e in breve in tutta Europa venne dichiarata illegale senza che nessuno facesse un’analisi tossicologica. L’unico paese che la fece, ma solo dopo averla resa illegale, fu la Danimarca. Lo studio concluse che era completamente innocua, ma comunque non venne ri-legalizzata. Questo ci dice qualcosa, c’è un’azione a priori credo legata a un principio di utilità attesa: anche se innocua la salvia divinorum non è stata ri-legalizzata perché una roba che genera allucinazioni è meglio che sia illegale — siamo in una società che le questioni del sogno, del delirio e della visione le ha definitivamente marginalizzate.

Pur essendo passati quasi vent’anni dal periodo d’oro delle feste in questi mesi, per quanto riguarda le sostanze, assistiamo a un’evidente apertura, addirittura da parte dei media mainstream, oltre che a una rinascita degli studi medici intorno al tema, te lo aspettavi?

Si potrebbe dire era l’ora, visto che questi contenuti sono stati relegati in ambito contro-culturale per decenni. Già negli anni Sessanta che l’LSD non faceva male alcuni studi governativi lo sapevano, e che la canapa non facesse niente è sempre stato sotto gli occhi di tutti. Ma le forze che determinano la percezione pubblica delle cose sono molto potenti e penso che il ruolo delle controculture nel portare la fiaccola della psichedelia sia stato importante, e probabilmente se non ci fosse stato un nuovo linguaggio, la tekno, una musica che si rapporta con la tecnologia digitale assicurando un appeal che dei vecchi barbogi con i sandali non potevano più avere — lasciare gli acidi e tutto quel campionario di sostanze a esclusivo appannaggio dei figli dei fiori non le avrebbe portate lontano: ciò che resta di quel movimento — per quanto bene gli si possa volere — è il residuo di una nicchia ormai grottesca. Figlia di un immaginario che non è più in grado di parlarmi.

È vecchio di cinquant’anni.

Per questo il fatto che qualcosa di nuovo abbia riportato la psichedelia in campo è stato importante, ma non bisogna essere ingenui, la tekno ha solo agevolato un altro processo molto più potente. Internet ha messo a disposizione di tutti informazioni prima non rintracciabili. Mi ricordo che al liceo andavamo a scartabellare dei vecchi libricini di Stampa Alternativa con le interviste a Hofmann che erano davvero l’unica cosa ad avere un barlume di verità rispetto a questi temi, libretti che consultavamo come tavolette babilonesi — perché mancava tutto il contesto intorno. Qualche altra spia arrivava dalla musica: sapevi che ai Beatles all’altezza di Rubber Soul era successo qualcosa. Intuivi un cambiamento nei Grateful Dead, ma il contesto mancava. Invece con internet e con siti www.erowid.com o anche come Wikipedia è tutto diverso. Se vai lì e cerchi informazioni sull’LSD le trovi, magari non eccelse, ma infinitamente migliori di quanto potessi trovare in qualunque libro negli anni Ottanta. Si è sviluppata una nuova consapevolezza dei danni, inoltre il fatto che internet sia stato usato sempre più come fonte, ha fatto sì che anche il giornalista più bieco, che prima si sarebbe fermato al suo pregiudizio, ora si affidi a Wikipedia trovando notizie vere. Se prendi il peggior ragazzino che va alle feste sa cos’è l’MDMA, perché l’ha letto in rete. Se lo prendevi nel ’92 e gli chiedevi che roba era, ciao. C’era gente che pensava che fosse amfetamina tagliata con morfina… uno stimolante e un narcotico, sarebbe stato nocivissimo, potenzialmente mortale [ride].

Torniamo al libro, la prima parte è scritta con un passo quasi da letteratura di viaggio, e innestati nei viaggi veri e propri c’erano i free party, i rave, e anche i viaggi psichedelici ovviamente — ma l’andamento segue quello di alcuni viaggi fisici: Candasnos, Pratomagno, Altopascio… Parallelamente è come se avesse luogo uno scontro di civiltà, o meglio si assiste al rifluire di una sottocultura tra le macerie di una cultura dominante andata oltre i suoi limiti.

Riguardo alla mappatura dei luoghi un esempio radicalissimo è la questione di Beauvais. Il primo grande raduno tekno è stato fatto lì, il fatto micidiale è che tutti sono stati a Beauvais. Perché Beauvais è il posto dove c’è l’hub aeroportuale Ryanair per Parigi, chiunque va a Parigi con un volo low cost va lì, ma naturalmente non si ferma, va a Parigi. E invece i teknusi fanno proprio una festa a Beauvais, per cui diecimila persone vanno proprio a Beauvais — non a Parigi che è lì accanto ed è la principale destinazione turistica al mondo. Questa ri-mappatura della periferia, sia all’interno della città che all’interno del continente, è interessante e si inseriva nel momento di transizione tra il turismo dei treni e il turismo degli aerei, quasi come un ultimo anelito verso la riappropriazione della terra.

Una cosa che mi ha colpito sono gli scenari post-atomici che descrivi, luoghi in cui avvengono epifanie capaci di ridare vita alle rovine della società industriale. A un certo punto un personaggio copia la tabella che si trova all’ingresso del tunnel della Manica, dice che il tunnel è usato al 30% delle aspettative iniziali — il tipo di economia che prevedeva quegli spostamenti è scoppiato e, non a caso, c’è un mondo resiliente che ridà vita alle macerie di un’epoca industriale esausta.

Il rapporto tra tekno e società industriale è centrale, non solo la free-tekno si è evoluta andando a occupare questi gusci lasciati vuoti dal capitale novecentesco, se ci pensi Derrick May — l’inventore della techno col ch, quindi non ancora tekno con la k, che è la sua versione più artigianale, autogestita e brutale — viene da Detroit, la città per antonomasia del fordismo nonché dell’abbandono. Oggi Detroit è quasi una città fantasma, è stata interamente in bancarotta, si è spopolata, il sindaco vendeva le case a cinque dollari… La techno è nata in seno a una società industriale in decadimento, e la free tekno, che ne è l’avanguardia, si appropria di questi enormi rifiuti — uno dei paradossi tipici delle feste era il fatto che spesso il giorno dopo leggevi sul giornale i raver hanno lasciato… e c’era la foto di tre sacchetti dalla spazzatura e due bottiglie in terra — intorno c’era un edificio di tre piani in amianto — e quello, chi l’ha lasciato?

Ma che rapporto c’è tra tekno e industrie abbandonate, la consonanza estetica è casuale o cercata?

Immagino che alcune cose si affermino per una sorta di casualità darwiniana: è emersa la tekno perché aveva una cogenza e un’aderenza simbolica a determinati fatti. Non esiste un teoreta che ha detto adesso andremo a portare la tekno che è ritmata come le industrie fordiste all’interno di industrie smesse per un discorso di riappropriazione politica… è più una serie di casualità e contingenze che hanno fatto emergere una cosa più potente simbolicamente rispetto ad altre. Così come probabilmente oggi, col Novecento alle spalle e in piena società post-industriale, la produzione degli oggetti che usiamo non avviene più qui… — ti faccio un esempio, il posto dove sono nato, Montevarchi, è una città industriale dalla fine dell’Ottocento, quando andavo a pescare nei ruscelli lì intorno sembrava di essere sulle rive di un fiume uscito da Kenshiro, c’erano solo cespugli malsani, i pesci erano rari e via dicendo; se vai ora su quegli argini trovi gli aironi, sono diventati bellissimi, ci sono alberi lussureggianti, passano i germani reali e le farfalle colorate, che è successo? Che tutte le industrie hanno chiuso — e forse il fatto che oggi come controculture siano molto forti la goa e la psy-trance, che hanno delle componenti di veganesimo, ecologismo radicale e una spiritualità quasi panteistica, secondo me deriva dalla contingenza che la tekno era, e rimandava, alla pura post-industrialità, mentre ora siamo in una fase di post-post-industrialità e andiamo verso un set di contenuti nuovi.

Tu dici che le feste sono la migliore espressione della nostra generazione, dal punto di vista anche artistico. È un’affermazione forte, come rispondi a chi la contesta?

Il personaggio dice “la cosa più importante fatta dalla nostra generazione, prendila come vuoi” — questo offre anche la sponda a un conservatore di dire la cosa migliore che avete fatto son delle festacce, può essere letta in due modi. L’altro giorno una giornalista dell’area tirrenica, ripensando a quella festa di Altopascio di fine 2007, mi diceva: dobbiamo renderci conto che è stata l’evento culturale più importante dell’intera storia del paese. Che forse è buffo, però è una verità incontrovertibile: Altopascio è una piccolissima città di provincia, il meglio che poteva fare era la fiera del lesso e se venivano tre persone da Pisa era il massimo, un evento per cui arrivano 7000 persone da tutta Europa è una cosa che va al di là delle possibilità di Altopascio, no? Lì per lì non riuscivano neanche a rendersi conto di essere stati quasi benedetti da una cosa che non avrebbero potuto mai fare, la reazione fu la solita: un misto di preoccupazione per la viabilità e l’ordine pubblico e un po’ d’isteria, nemmeno tanta perché gli abitanti del luogo si sono dimostrati tolleranti, il sindaco mandò anche una cisterna d’acqua.

Il fenomeno delle feste è legato da una parte alla cultura europea e dall’altra a territori periferici. Non a caso tu, essendo dell’area fiorentina, hai usato molti toscanismi, una scelta che a qualcuno potrà sembrare spiazzante.

La ragione per cui ho centralizzato la Toscana è il banalissimo motivo che porta anche Philip Roth a finire sempre a Newark, il tuo luogo è un punto d’osservazione privilegiato, non solo perché lo conosci ma anche perché al tuo luogo sai applicare bene i filtri. Partendo da qui posso fare dei salti e andare a osservare facilmente anche Beauvais o Odessa. Se osservi la mappa che c’è all’inizio di Muro di casse vedi che è come se ci fosse un movimento a spirale che comincia da qua, fa un primo giro un po’ più largo e poi si allarga fino ai confini dell’Europa.

Riguardo alle reazioni impacciate, inadeguate che ha la società nei confronti di questi eventi ho trovato nel testo un esempio tanto felice quanto delirante, quello della legge che regolamentava il jazz da parte del ministero della cultura nazista (Le cosiddette composizioni jazz non devono contenere più del 10% di ritmi sincopati; il resto deve essere composto da un naturale movimento legato … l’andamento non deve andare oltre un certo grado di allegro, commisurato al senso ariano di disciplina e moderazione). Ma la verità è che anche oggi il racconto della stampa è distorto. In realtà le feste sono luoghi dove in fondo non succede niente, la gente balla, certamente drogata ma da droghe che tranquillizzano — se vogliamo dirla in modo banale. Il confronto con altri fenomeni di massa, più violenti ma innestati nel tessuto sociale, è sorprendente: pensiamo per esempio alle partite di calcio.

Una volta parlavo di feste con un mio amico che lavora in un ministero, mi lamentavo della persecuzione che subiscono… Lui mi disse ma che controcultura le feste vengono perseguitate perché sono gratis. Per lui era molto chiara una questione, quello che veramente rendeva le feste indesiderate era la loro gratuità: gli ultras sono funzionali rispetto a un sistema economico attorno a cui girano miliardi, di conseguenza si può tollerare se saccheggiano un autogrill, fanno casino o, anche, si uccidono. Se le stesse cose succedessero a una festa, diversamente, ci sarebbe un’immediata persecuzione. Pensa al modo in cui gli ultras si permettono di trattare gli sbirri, se arriva la polizia a un rave la gente va subito a mediare, non inizia a urlargli lo scemo col casco blu. Semplificando: il punto è se sei antisistema o no, e nella nostra società turbo-capitalista essere pro o contro il sistema riguarda il tuo modo di porti rispetto alla questione economica. A questo si aggiunge il rapporto col tempo, la free-tekno (o il free-party, non è importante che musica ci metti, esistono anche free-party goa) rompe il tempo del divertimento, che fin dal secondo novecento è piuttosto ampio, la gente tendenzialmente ha la sera e i fine settimana liberi — rispetto ad altre epoche è molto, ma rimane comunque funzionale al tempo del lavoro, anzi è stato un tempo in parte conquistato ma in parte liberato dai padroni del vapore per ottimizzare l’efficacia — lo schiavo rende meno del lavoratore soddisfatto. È chiaro che un teknival che dura una settimana, o anche dieci, undici giorni — c’è stato un festival in Inghilterra che è durato quattro mesi, non se ne andavano più… — rompe anche questo. Già la durata della singola serata (che va ben oltre le quattro o le cinque di mattina autorizzate nelle discoteche, che permettono di tornarsene a casa, dormire la domenica e lunedì essere pronti per entrare a lavoro) che arriva fino alle 22 della domenica, rende il lunedì inservibile al lavoro colui che va alle feste. E questo non è gradito.

Per alcuni un diverso rapporto col tempo può essere spia di una diversa concezione del piacere, se non addirittura di un’altra prospettiva di vita.

Visto che oggi siamo in una società completamente basata sull’impossibilità di appagare desideri sempre nuovi ed eternamente insoddisfatti, rispetto all’edonismo puro e semplice o addirittura alla ricerca spirituale, c’è una forte resistenza: una società fondata sul produci-consuma-crepa, per dirla un po’ vetero, apprezza la religione come mezzo di controllo ma rifiuta l’autogestione spirituale, perché implica la liberazione dallo spazio-tempo del lavoro. Anzi, come ci insegna il Buddha dell’esergo, si può credibilmente presumere che se uno raggiunge uno stato di piena realizzazione spirituale si mette sotto a un albero e vaffanculo a tutti, l’illuminazione non prevede il lavoro!

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