Un posto

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inutile
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4 min readOct 13, 2016

Tempo fa su Twitter ho visto questa immagine e non me la sono più scordata. È di Catherine Lepage, un’illustratrice autrice di un libro sull’ansia, e Brainpickings ne parlava qui. Ci ripenso spessissimo, così come ripenso a tutte le definizioni di ansia e timidezza in cui mi sono imbattuta: come se volessi affinare l’arte dell’autodefinizione, nonostante sia quasi sicura che non può essermi di nessuno aiuto. Sapere che il mio campo visivo è distorto mi aiuterà a raddrizzarlo? Probabilmente no. In ogni caso: questa illustrazione mi è tornata in mente più e più volte leggendo Le ragazze di Emma Cline (Einaudi, trad. di Martina Testa) cioè un libro che inizialmente non volevo leggere. All’uscita, titoli, fascette e recensioni mettevano a fuoco — lo fanno ancora — aspetti che non mi incuriosivano più di tanto: la cricca di Manson, il sesso e l’adolescenza, gli allucinati anni ’60, per di più in combinazione con i riferimenti insistiti alla giovane età della Cline e all’anticipo milionario. Sarei passata tranquillamente oltre, ma due righe di questo articolo di Claudia Durastanti mi hanno incuriosito e allora sono tornata sui miei passi.

Anche se le recensioni ne parlano poco, The Girls è un libro quasi politico, militante. Evie, la madre, l’amante di suo padre e le adepte di Russell sono tutte soggette al patriarcato e cercano di trovare una risposta al gender gap.

Ora che ho chiuso il libro posso dirlo con sicurezza: continuo a pensare che Manson e il sesso e gli anni ’60 e le droghe siano aspetti del tutto trascurabili di un romanzo che avrebbe potuto prendere forma sullo sfondo di qualsiasi decade, e senza ricalcare quelle vicende notissime. Ma attenzione: non credo che abbia colpe particolari per averlo fatto. Trovo solo che il nucleo di significato che fa di questo un romanzo importante sia da un’altra parte, e cioè nella chiarezza con cui viene analizzato e messo in scena quel campo visivo distorto, tutto rovesciato all’interno. Le ragazze del libro, ma anche le donne del libro, e le donne e le ragazze fuori dal libro, le più deboli e le più forti, quelle consapevoli del proprio valore e quelle acerbe, tutte operano continui minuscoli aggiustamenti, impercettibili correzioni: della realtà, di sé stesse rispetto alla realtà, della versione della realtà che si raccontano per giustificare un amore o una situazione lavorativa o un compromesso, e in ultima analisi sempre e comunque con lo scopo di trovare un posto in cui possano essere viste, ricevere approvazione, sperimentare il sentimento di inclusione all’interno del gruppo che a monte le vuole escluse. Non è genetica: non siamo fatte così perché siamo femmine. È che ci hanno abituate a guardare dalla parte sbagliata e prendere provvedimenti a partire da lì.

C’è stato un pomeriggio, nel ’98 o il ’99: ero a casa della mia migliore amica, al telefono con un’altra amica ancora. I nostri amici maschi ci avevano detto che non volevano uscire più con noi il sabato, il perché non me lo ricordo, ma non è importante quanto il fatto che piangevamo, disperandoci per trovare la soluzione che ci sfuggiva. Eravamo troppo bambine? Non eravamo divertenti abbastanza? Non abbastanza carine? Era perché non avevamo il motorino? C’erano altre ragazze con cui volevano uscire? Cosa avevano più di noi? Potevamo procurarcelo? Potevamo fingere di averlo? Quel pomeriggio saremmo state capaci di tutto — qualsiasi manipolazione su noi stesse, sul paesaggio desolato che ci pareva di vedere guardandoci dentro — e avevamo solo 14 anni.

La protagonista, ormai adulta, continua ad apportare le stesse correzioni, in cerca dell’approvazione di due ragazzini e di uno sconosciuto con cui si ritrova a passare alcuni giorni, a cavallo tra il disagio di essere riconosciuta e il piacere di essere ancora il centro di qualcosa. Sono cresciuta anch’io da quel pomeriggio del ’98 e da un’infinità di pomeriggi uguali a quello. Sono felice, ho ottenuto alcuni risultati, maturato esperienze, ma quante volte ho preso un posto: che non mi si addiceva, che non era mio, che non era abbastanza. Però era un posto. Magari non si smette mai di desiderarlo e si può al massimo sperare di ridurre il numero di quei pomeriggi, non di azzerarli. Allora mi aspetterei un esercito di ragazze che sanno cosa sta succedendo, tutte pronte a dirmi che non è necessario, che non devo adattarmi, che il problema non sta dentro, che mi prendano la mano, che scaccino chi mi infastidisce, che abbiano capito l’importanza di coltivare la comprensione fra di noi, sopra ogni cosa.

Le ragazze, di Emma Cline (Einaudi 2016, 344 pagine, traduzione di Martina Testa)

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