É nato prima il lavoro o la famiglia?

Clara Rigoldi
Spazio delle Relazioni Umane
4 min readFeb 22, 2024

La storia di una riscoperta importante, la rinascita di valori forse dimenticati, l’importanza di saper trovare un equilibrio che giovi a noi e a chi ci sta intorno.

Photo by Helena Lopes on Unsplash

8 Marzo 2020. Un data che ancora oggi fa tremare: chiusura totale della Lombardia.
Ricordo bene quel giorno, un mix di sensazioni che non ci fece realizzare veramente quello che stava per succedere, chi avrebbe mai potuto immaginarlo?
Quel giorno ci è stata negata la libertà, una negazione volta a salvarci la vita e a salvare quella dei nostri cari e di chiunque altro. Una negazione che spesso abbiamo fatto fatica ad accettare e a comprendere, eppure, con alti e bassi, siamo riusciti nell’impresa e tanti di noi possono raccontare ancora oggi come hanno affrontato quei mesi di chiusura, di paura ma anche quei mesi di unione, creatività e famiglia.

Vorrei focalizzarmi proprio su quest’ultimo aspetto, la famiglia. La pandemia e la conseguente chiusura in casa ci hanno tolto sì la nostra libertà ma ci hanno fatto riscoprire il valore più importante, quello di stare assieme, quello di condividere. Dico questo perché mi rifiuto di non cogliere il positivo — seppur poco — da quella tragica situazione. Il Covid ci ha riportato a vivere nuovamente la famiglia come era una volta: attenzione verso l’altro, pranzi e cene condivisi senza ritardi causati da straordinari o traffico cittadino, certo qualcuno potrebbe obiettare che invece gli straordinari c’erano eccome e pure non pagati! Vero, lo smart working ci ha portati in una dimensione che confonde vita privata e vita lavorativa, lo abbiamo sentito dire spesso, eppure per la mia esperienza molto spesso siamo noi a non saperci mettere dei paletti.

Quindi ora io vi chiedo: é nato prima il lavoro o la famiglia?

Ai tempi dei miei nonni lavorare era la base; si iniziava molto presto, a volte non ancora maggiorenni, dopo la scuola, si aiutava nel negozio di papà, nella fattoria di nonno o nella sartoria di zia e, una volta grandi si intraprendeva il proprio percorso lavorativo. L’uomo era nato per lavorare, mettere su famiglia e lavorare ancora per mantenerla. Il lavoro era il centro di tutto e tutto ruotava attorno al lavoro, eppure non si sono mai perse tradizioni come il pranzo della domenica, il Natale in famiglia, le vacanze al mare o in montagna.
Passiamo poi ai tempi dei miei genitori, il lavoro diventa sempre più pressante, la competizione aumenta notevolmente, i controlli e le norme rendono tutto più complesso e le ore si dilatano sempre di più. Il lavoro diventa una delle cause principali di stress e iniziano a perdersi le piccole cose famigliari perché “non c’è tempo”. Entriamo in una corsa senza fine, come un criceto che corre instancabile sulla ruota sperando di giungere alla sua meta, ma senza sapere che essa non esiste.
Poi di colpo, uno stop, forzato. Tutto si ferma, fuori non vola una mosca ma dentro casa un gran baccano. Si torna a vivere, seppur impauriti, a riscoprire i valori e a proteggerli avidamente: dal pranzo assieme dopo un meeting via zoom, dal fare la pizza alla domenica (sempre se si è riusciti ad accaparrarsi un cubetto di lievito) al guardare la tv assieme, dal fabbricare mascherine creative, più o meno funzionali, al litigare senza poter scappare (sì è giusto dire anche questo). La vita si è fermata ma allo stesso tempo è ripartita.

Oggi, dopo questa pandemia possiamo dire, riprendendo le parole di Alessio Carciofi, professore universitario ed esperto di marketing & digital wellbeing, che

“è la rivoluzione umana che sta conquistando il centro della scena, il tradizionale modello di vita e lavoro, radicato sin dai tempi della rivoluzione industriale, in cui la giornata era incentrata sul lavoro — per alcune classi sociali — sta cedendo il passo a una nuova forma di organizzazione”

Ad averlo capito meglio di tutti sono le nuove generazioni che stanno entrando nel mercato del lavoro anteponendo i loro valori e bisogni a tutto. Sono orientate al benessere e cercano maggior equilibrio tra lavoro e vita privata. Guardano meno allo stipendio e più al loro benessere psicofisico sia a livello personale che lavorativo.
Inoltre, cercano luoghi di lavoro che siano per loro uno stimolo continuo, che li faccia sentire parte di qualcosa, di un cambiamento o di un insieme di valori. Come riporta sempre Alessio Carciofi:

“Desiderano vivere la loro vita da protagonisti, scelgono chi vogliono essere e quali battaglie combattere: si schierano per le azioni e i valori in cui credono.”

Le aziende devono aprirsi a questo fiume di novità che sta attraversando il mondo del lavoro, così da non perdere opportunità e giovani leve con voglia di sperimentare, cambiare e stupire. Eppure, stando ai dati dell’Osservatorio BenEssere Felicità di Elga Corricelli, Elisabetta Dallavalle e Sandro Formica il numero di persone disposte a cambiare lavoro nel breve continua ad aumentare — e sembra essere destinato ancora a crescere — e raggiunge il 44% nel 2023.

Come afferma Elisabetta Dallavalle, presidente dell’Associazione Ricerca Felicità

“La pandemia ha fatto esplodere elementi che erano già presenti: i lavoratori hanno preso ancora maggiore consapevolezza della necessità di un cambiamento. I nostri dati dimostrano che vi è l’urgenza di rendersene conto mettendo in atto azioni concrete in grado di generare maggiore benessere. Ne va della forza competitiva delle imprese perché la felicità permette di performare meglio, di attrarre talenti e di fidelizzare le persone”.

Dunque, se foste voi a capo della vostra azienda, se la felicità dei vostri dipendenti dipendesse da voi soltanto, cosa fareste?

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Clara Rigoldi
Spazio delle Relazioni Umane

Riscopro la scrittura grazie alla pandemia e da allora amo perdermi tra le parole, che siano scritte sulle note dell'iPhone, sui social o per progetti ambiziosi