La certezza di essere incerti.
Eravamo abituati ad avere tutto soprattutto certezze, tante certezze. La certezza di essere esperti, la certezza di essere migliori, la certezza di sapere sempre cosa poteva essere giusto e cosa no. Eravamo abituati a correre le nostre quotidianità fatte di coincidenze, call, like e cuoricini. Una vita per alcuni finta ma percepita come reale mentre per altri poteva essere l’esatto opposto. Mi dico che, forse, non era troppo importante pensarci, almeno non lo era fino a qualche settimana fa.
Ci siamo abituati ad avere meno di tutto. Meno certezze soprattutto. Ci siamo abituati a non correre più, a fare la fila in modo silenzioso e ordinato, a osservare il mondo dalla finestra di casa e non solo dalla finestra aperta su uno dei tanti social che abbiamo a disposizione. Ci siamo inventati esperti di altro chi di cucina, chi di yoga, chi di letture. Di altro purché qualcosa fosse perché altro poteva essere la misura utile a farci sentire vivi in una realtà che di vivi ne aveva un po’ meno.
Abbiamo imparato a raccontarci storie fatte di piccoli slogan salvo poi renderci conto che il finale non era proprio quello che si poteva immaginare perché non può andare tutto bene per forza. A volte non va bene, non va bene per nulla e credo che serva il coraggio di poterlo dire senza sentirsi sbagliati o fuori luogo. A volta il respiro manca e quel senso di aria che non arriva non fa bene. A volte le nostre fragilità si fanno ancora più fragili e serve tanto coraggio per fare in modo che crolli qualcosa ma non proprio tutto. A volte la forza che ci viene richiesta ogni giorno non è abbastanza. Non è abbastanza e c’è poco altro da aggiungere. Abbiamo imparato a vivere i nostri appartamenti, a vivere le persone che abbiamo accanto da mesi o da anni, abbiamo imparato a conoscerci ed è di questo, in fondo, che si ha bisogno. Di conoscere l’altro, di capire che può essere uguale o diverso, che le sue paure possono essere le mie oppure no. Abbiamo imparato che abbiamo bisogno di occhi che si guardano, di braccia che si abbracciano, di silenzi che si fanno parola con poco, di respiri che prendono il ritmo giusto.
Abbiamo capito che, forse, tutte quelle certezze che credevamo di avere non erano poi così tante e che, in fondo, va bene anche così perché è nelle incertezze che si cercano le risposte. Perché abbiamo bisogno di farci domande che, fino a qualche settimana fa, non avevamo tempo di farci e di cercare risposte che, fino a qualche settimana fa, non avevamo tempo di cercare.
Non sono state settimane semplici e se scrivessi il contrario non sarebbe giusto. Ho imparato che ho ancora paura. Paura di quello che non comprendo, di quello che non posso vedere, di quello che non posso progettare. Paura di qualcosa che in un momento spazza via tutto quello che ho costruito con costanza, dedizione, pazienza e talento come qualcuno mi ricorda tenendomi per mano da tempo. Che tenersi per mano, oggi, è un gesto che sa di volersi bene davvero al di là del tempo e del luogo.
Ho imparato che serve serenità per avere fiducia e che quando la fiducia si perde possiamo ripartire solo da noi stessi. Ho imparato che non ci sono abbastanza parole per tutto e che va bene così. Ho imparato che ho dei limiti come, forse, tutti anche se dirlo non sembra essere di moda. Ho imparato che delle mode si potrebbe provare a fare a meno così come delle strategie fatte e scritte a tavolino in modo sterile e un pochino finto. E poi, forse, ho imparato altro che ancora deve essere messo a fuoco. Serve un tempo, un tempo per non correre, per pensare, per riflettere. Se ci penso un momento è bastato un virus piccolo piccolo a fare quello che non saremmo riusciti a fare da soli. A cambiare per davvero. Partirei da qui lasciando a ognuno la possibilità di costruire e ricostruire nel modo migliore possibile.