Quattro chiacchiere con Alessandro Baricco

Marisandra Lizzi
Spazio delle Relazioni Umane
30 min readApr 23, 2020

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Trascrizione dell’intervista di Marco Montemagno ad Alessandro Baricco

Esistono interviste che è importante godersi, parola per parola.
Esistono interviste per le quali non basta una lettura veloce, ma occorre fermarsi lentamente su ogni concetto. E poi esistono interviste che ci aiutano a capire chi siamo e che cosa stiamo vivendo forse meglio di quanto potremmo fare noi stessi. Non me ne vogliano i due protagonisti se mi permetto di aggiungere questo lungo testo ai nostri Punti di Vista.

Ringrazio la nostra Giulia Montini per il lavoro certosino di sbobinatura ed Elisa Lenci Botticella per la cura della sua revisione.

Marco Montemagno: Alessandro, sei bloccato in quel di Torino?

Alessandro Baricco: Sì, vicino a Torino. Torino è circondata dalle colline, come Vienna diciamo, e io vivo tra queste colline. Casa mia, che non è lontano da Torino, saranno otto chilometri, è già un po’ in campagna. E quindi sono qui, come si suol dire nella cesta dei fortunati, perché ho un giardino. Insomma, è molto più facile.

MM: Ne parlavo anche io con mia moglie l’altro giorno, dato che anche noi abbiamo un giardino. La quarantena non è affatto uguale per tutti. Peraltro l’altro giorno è uscita la foto di un miliardario sul suo yacht che lanciava un messaggio contrito della serie “resistiamo!”. Ma lui è su questo yacht pazzesco e fa un po’ effetto.

Alessandro, ho mille cose di cui vorrei chiacchierare con te per ragionare un po’ su idee e nuove prospettive rispetto a quello che che stiamo vivendo. Parto da una cosa che ho appena letto, ovvero il piano di Israele per far ripartire il paese dopo il Coronavirus. Mi sembra interessante iniziare a immaginarci il dopo e progettare una exit strategy. Secondo il piano della National Security Council, per esempio, dovremo attraversare quattro fasi. Le dico al volo e poi mi dai una tua riflessione.

Fase 1: bisogna partire riaprendo i more lucrative sectors, ovvero i settori economicamente più importanti. E già questo, credo, stabilisce un ordine di priorità delle cose. Quindi, via al tech e alla finance, mettendo in moto il 10% della popolazione israeliana. Ricordiamo che Israele è una startup nation, un posto in cui lavorano moltissime startup.

Fase 2: via alla riapertura del mondo dei commercio e dei negozi anche non di prima necessità.

Fase 3: riapertura di ristoranti, alberghi e scuole.

Fase 4: finalmente potranno ripartire anche gli eventi sportivi, i viaggi, tutti i posti di intrattenimento, i settori ricreativi e i grandi eventi.

Ogni fase avrà bisogno di almeno due settimane di buffer e una verifica di affidabilità, ovvero un controllo sul corretto funzionamento delle procedure. Nessuna di queste fasi si applica le persone sopra i 60 anni né a soggetti a rischio.

Tuttavia, le quattro fasi e l’ordine di priorità che impongono mi ha obbligato a una riflessione. La prima è sulle categorie di persone. In Italia circolava l’idea di lasciare a casa gli anziani sopra i 70 anni fino a dicembre. Mi ha ricordato le categorie del marketing o del business, ma di 15 anni fa. Ormai lo abbiamo capito: non siamo tutti uguali. Bianco, uomo, sopra i 40 anni. Non siamo la stessa cosa. Queste macro categorie, faccio fatica a capirle. Soprattutto rispetto al livello di precisione che portano con sé.

Vorrei partire da qui.

AB: Secondo me, adesso è il grande tema è quello di gestire la ripartenza. L’altro giorno sentivo un ministro italiano che diceva che chiudere un paese è relativamente facile, ma riaprirlo di una difficoltà mostruosa. Sono tutti molto preoccupati e sembra che stiano brancolando nel buio. Gli israeliani sono pochi: in questo senso hanno un vantaggio rispetto a noi. Possono gestire dei numeri che forse sono più controllabili, ecco. Già solo i numeri italiani sono più difficili e il compito sarà arduo.

Io, di fondo, ho questa idea: che questo tipo di emergenza vada affrontata facendo perno su un’intelligenza nuova, che segue nuovi modelli. Quella generata dalla rivoluzione digitale, insomma. Un’intelligenza che si discosta da quella novecentesca perché fatta di persone che si muovono in modo diverso nel mondo. Persone che si muovono secondo le regole dei videogame.

Pensiamo a quel che sta succedendo adesso: vediamo in azione la gran parte dei paesi occidentali guidati ancora da un’intelligenza novecentesca che cerca di risolvere questo problema con una classe dirigente, purtroppo, ancora tutta novecentesca. I meccanismi che si stanno creando sono molto simili a quelli che hanno portato al disastro della prima guerra mondiale con una élite militare e politica che decide di iniziare una guerra pensando di chiuderla in 15 giorni e poi, non riuscendo a chiuderla, vanno avanti a bombardare. Anzi bombardano il doppio e così anche noi siamo passati da “uscite il meno possibile” a “non uscite più”.

Il tutto continua con una logica ferrea e naturalmente dei risultati si ottengono, ma la mentalità è esattamente quella che ha aperto moltissimi problemi nel Novecento.

Nel frattempo, però, la rivoluzione digitale ha fabbricato un nuovo tipo di intelligenza, quella che caratterizza i ragazzini di 15, 16 anni ma anche gente di 30 anni, ormai. Un’intelligenza basata su un mondo liquido, in cui se sbagli ricominci daccapo. Le persone con questo tipo di intelligenza sono dinamiche e non prendono nessuna decisione che non si possa ribaltare in periodi molto brevi.

Per questo, a me viene da pensare: perché non ascoltare gli esperti più giovani? Gente che ragiona come farebbe un giocatore di videogame, pensando non solo alle minacce che arrivano oggi ma anche a quelle che potrebbero arrivare domani o dopodomani. A me sembra che soltanto loro possano rispondere alla situazione attuale.

Questo accanirsi nel trovare una soluzione, soltanto una, in base a un’idea di fedeltà, a un principio tipicamente novecentesco, mi sembra superata. Il giocatore di videogame ma, in generale, l’uomo digitale non ha il mito della fedeltà alle sue scelte ed è perfetto per questi tempi.

La storia inglese ci può insegnare molto. Noi magari qui ne ridiamo, ma questa società si è dimostrata in grado di cambiare drasticamente traiettoria in una sola settimana. Noi dobbiamo avere paura delle classi dirigenti e delle intelligenze che hanno una sorta di lentezza monomaniaca, per cui infilano una linea logica e poi non riescono più a uscirne. C’è una questione di metodo a monte di tutto, poi c’è il dettaglio. E uno può giudicare in un modo o nell’altro le singole scelte.

MM: Questo si collega una cosa che ti ho sentito dire di recente e che mi ha molto affascinato, ovvero la distinzione tra fatti e reazioni. È difficile prendere delle decisioni definitive quando i fatti sono complessi, è un po’ come se mancasse l’interpretazione dei fatti. Ne parlavo anche con Ilaria Capua: la dottoressa mi faceva notare come anche solo i numeri con cui abbiamo a che fare sono tutti diversi, dato che sono misurati in modo diverso in ogni paese, e quindi diventa difficile persino confrontarli. Come si può collegare questo problema con le reazioni di cui parli?

AB: C’è una cosa che si chiama realtà, ed è una sorta di campo da gioco dove noi ogni mattina prendiamo delle decisioni.

La realtà, tuttavia, non è composta soltanto di fatti ma anche di interpretazioni. La realtà, cioè, oltre ai fatti (cioè le cose che accadono) è composta anche di uno storytelling (cioè l’insieme di reazioni e di racconti che nascono a partire da certi fatti). Nelle singole esperienze umane può accadere che l’equilibrio, il baricentro fra queste due componenti, tra fatti e storytelling, si sposti.

Ma ci sono sempre entrambe le componenti: non bisogna illudersi che esistano dei numeri che ti pongono davanti ai fatti, perché questa cosa proprio non esiste, non è reale, non è la realtà. Dobbiamo sempre capire che serve un’interpretazione dietro, che è un circolo: ai fatti seguono le narrazioni che seguono ai fatti. Insomma, i fatti producono le narrazioni, che producono i fatti. Ok?

Non è qualcosa che si possa fermare su un tavolo, non è una scacchiera. Il gioco è in continuo movimento e anche per questo è più adatto a un’intelligenza dinamica.

Quello che possiamo giudicare di volta in volta è la posizione del baricentro nei singoli ambiti di esperienza. Per esempio, possiamo pensare che nell’esperienza amorosa lo storytelling sia molto più importante dei fatti, in un certo modo. La capacità di raccontarsela, di convincersi, di dirla bene genera delle conseguenze immense e tutti quelli che hanno avuto lunghe storie d’amore si ricordano il momento in cui (nella confusione o nella sofferenza) a un certo punto ci si chiede, ma cosa è successo davvero? Le storie d’amore sono delle iperboli dell’immaginazione e il baricentro è fondamentale.

Nell’esperienza del Coronavirus, bisogna capire dove sta il bilanciamento fra fatti e storytelling.

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Come in tutte le questioni mediche il mondo si è immerso nel cercare i fatti, ma è evidente che in questa emergenza la realtà è composta all’80% di storytelling e soltanto al 20% di fatti, a essere generosi. La maggior parte dell’immaginario è prodotto dallo storytelling, i fatti sono poverissimi. Anzi, l’unico fatto vero che esiste ancora è il dolorosissimo numero dei morti. Ma anche questo numero, a sua volta, è difficile da leggere. Non ha la solidità del fatto pieno perché c’è già dentro uno storytelling. Pensate alla distinzione tra i morti di Coronavirus, per Coronavirus o con Coronavirus: anche questa è una narrazione. Il medico ha un margine di scelta, è lui che decide e lì nasce uno storytelling. Questo non vuol dire che “ce la contiamo”, ma che a un certo punto bisogna decidere da che parte guardare un fatto e raccontarlo così.

Poi ci sono tutta un’altra serie di numeri, che valgono pochissimo e che difficilmente nascondono un fatto. Per esempio, il numero che è stato alla guida di tutte le intelligenze novecentesche è il numero dei contagiati, il numero più surreale di tutti. Ormai abbiamo capito che dipende da troppi fattori, ma soprattutto che è un numero completamente inutile: non sempre ci dà indicazioni sulla mortalità né sulla pericolosità della malattia. Per esempio, adesso sembrerebbe che il 50–60% della popolazione in Italia abbia già avuto il Coronavirus o magari ne è stato un portatore asintomatico: se paragoniamo questi numeri con quelli ufficiali lo storytelling cambia di molto.

MM: E anche il livello di allarmismo, ovviamente.

AB: Si ha un altro livello di allarmismo perché lo storytelling genera, a sua volta, altro storytelling: la narrazione genera narrazione. Nel sistema più semplice io ti racconto una storia e tu la racconti a tua moglie, magari condendola un po’. Poi lei la racconta alle sue amiche con qualche dettaglio in più e ogni volta che passa da uno stadio di racconto a quello successivo si forma come una sorta di inerzia collettiva, che oggi è decisiva. Oggi, quell’inerzia grandiosa può dettare i comportamenti di comunità enormi, nonostante sia generata da una percentuale di fatti bassissima.

Per esempio, noi siamo molto condizionati dal fatto che i media ufficiali, quelli vecchi per intenderci, quelli novecenteschi, siano in una crisi economica senza precedenti. Eppure, se andiamo a guardare bene, sembra quasi che non sappiano più cosa ci stanno a fare nel mondo.

Da molti anni ormai, ben prima del Coronavirus, i media hanno iniziato a fabbricare una merce che sembra essere l’unico prodotto ancora spendibile e con cui lavorano fin troppo bene: la paura. Non voglio criminalizzare, perché i media fanno esattamente quel che devono fare, però che sia il meteo, che sia Salvini, che siano gli immigrati: non importa. La storia è la stessa.

Quando arriva il Coronavirus, ovviamente, se il tuo compito è quello di vendere la paura non puoi che sfruttare questo momento. Per questo, alcuni tra i più grandi costruttori di storytelling, cioè i grossi media, non hanno avuto nessuna forma di obiettività o di lucidità.

MM: C’è un leggero conflitto di interesse.

AB: Sì, ma non gliene faccio neanche una colpa. È impossibile oggi fare un giornale in maniera lucida, ci riescono in pochissimi. Inoltre, bisogna considerare che tutti i giornali erano in enorme difficoltà e quando parlo di giornali, parlo di giornali di carta. Oggi, invece, tutti i siti d’informazione sono alle stelle.

Per esempio, io stamattina dovevo scaricare l’autocertificazione e stamparla per andare a prendere uno dei miei figli. Cerco su Google “autocertificazione” e mi ritrovo 5 o 6 link prima di quello ufficiale della Polizia di Stato, il che è naturale perché non è un sito nato per stare tra i primi risultati di Google. Però intanto io sono dovuto passare da mille altri siti: ho sgomitato fra pubblicità di ogni tipo per riuscire a trovare questo documento e non è che dovessi fare molto. Mi serviva soltanto stampare un’autocertificazione.

Non è grave, ma è per dirti che l’inerzia collettiva è nata anche da questa massa enorme di storytelling. Una realtà che si è messa in moto e che condiziona moltissimo gli uomini nelle loro decisioni.

MM: Secondo te, Alessandro, se parliamo di media tradizionali e osserviamo la prima pagina dei giornali (il New York Times come il Corriere della Sera), come pensi che sia cambiata da 10 anni a questa parte l’informazione? Voglio dire, pensi che se cambiamo la parola Coronavirus con un’altra, che sia meteora, insetto assassino o qualsiasi altra cosa, ci troviamo nelle stesse condizioni? L’infodemia permanente è un fenomeno che esiste da sempre o è nuovo, nato dalla dipendenza dei media tradizionali dalla pubblicità che a sua volta dipende dal numero di visualizzazioni e dal clickbait? Mi domando come potremmo uscire da una situazione del genere, perché prima o poi questa notizia passerà e quando scenderà la pericolosità del Coronavirus, scenderà anche l’interesse dei media tradizionali nel raccontarla e avremo bisogno di una nuova notizia.

Quindi ti chiedo: secondo te cambierà il modo di fare gli editori dopo questa vicenda o aspetteremo la prossima notizia da trasmettere in modo professionale ma sempre filtrata da questo senso di panico, di urgenza, di allarme, di emergenza?

AB: Non è facile capirlo. Non è facile perché purtroppo abbiamo dei segni che che non sono belli e una situazione come quella che stiamo vivendo è l’habitat ideale per un certo tipo di animale. Per esempio, negli ultimi mesi si è ricomposta una fiducia nelle classi dirigenti che si era completamente persa. Un po’ come se la capacità di ribellarsi ai governi fosse una sorta di lusso che non ti puoi permettere quando sei in una vera emergenza.

Si è riformata una sorta di tacita alleanza tra i media e le classi dirigenti che si sono trovati più o meno dalla stessa parte, tutti rivolti alla scienza nel momento del bisogno. E quindi il sistema dei media, una classe dirigente politica che ormai non aveva più nessuna credibilità e il mondo della scienza si sono accorpati. Tutti ascoltano gli esperti in questo momento: prima i medici e poi i matematici, per dire.

E allora, vedi, c’è tutta questa parte di mondo, una parte di mondo che era sotto scacco nella grande crisi post-rivoluzione digitale, che adesso si trova improvvisamente compatta e in un habitat che le è consono, dove in fondo riesce a dare il meglio di sé. Un posto in cui può tenere i suoi competitor lontani da una forma sensibile di ribellione.

Perché quando le classi dirigenti del pianeta si rendono conto che in situazioni di emergenza riescono a tener sotto controllo la loro comunità, il fatto di scivolare lentamente verso una specie di emergenza cronica è una tentazione indubbia. Sembra che stiano facendo un po’ i conti. E non parlo dei “poteri forti” (io non credo in questo tipo di mitologia) ma piuttosto della somma dei singoli individui che stanno prendendo decisioni per tutti e che stanno cercando di capire quanto l’emergenza costi in termini economici e quanto offra in termini di controllo del territorio. Da questo punto di vista, l’ipotesi più probabile è che saremo spinti da una sorta di inerzia collettiva verso un’emergenza cronica che diventerà l’habitat ideale per tutti.

Abbiamo alle porte l’emergenza per eccellenza — voglio dire, appena usciremo da questa del virus dovremo fare i conti con un’emergenza dalla E maiuscola: l’emergenza ambientale che riguarda tutto il pianeta. E mentre finora quella emergenza è stata una rivendicazione soltanto di una minoranza del pianeta, ovvero le nuove generazioni, non è escluso che adesso venga accolta collettivamente per prolungare uno stato di assedio all’interno del quale valgono soltanto le leggi di guerra. Prima si chiede di uscire meno, poi soltanto per necessità, poi neanche più quello, perché il jogging non si può più fare. E da un momento all’altro forse risulterà più utile a tutti accorparsi armonicamente all’interno di una nuova, colossale e definitiva emergenza, quella della fine del pianeta. È possibile che accada, ma non so se sarà un bene o un male.

Certamente ci sono degli aspetti positivi.

E qui è importante lo storytelling per capirlo. Perché potremmo vivere questa emergenza come una sorta di conversione delle classi dirigenti del pianeta che abbracciano una nuova visione della vita, dell’esperienza umana, dei valori, dei principi. Una visione largamente condivisa da quelli che non sono classe dirigente, ma anche da una parte della classe dirigente (anche se minoritaria). Inoltre, prima del Coronavirus in occidente lo scontro sociale era in parte anestetizzato da una sorta di benessere diffuso per cui, per esempio, rimaniamo colpiti dai gilets jaunes che scendono in piazza, poi però il martedì sono allo stadio comunque a seguire la partita.

Insomma, fino a pochissimo tempo fa c’era un’inerzia, una specie di infernale abbassamento del livello di scontro e se adesso parliamo di collettività, di comunità, di essere tutti dalla stessa parte, be’, secondo me è qualcosa di molto positivo.

È una cosa che succede, bisogna registrarla. Non possiamo non registrarla.

MM: Hai toccato un argomento interessante, il mondo tech, un mondo che mi è molto vicino. Una cosa che ho notato è che negli ultimi anni, dal punto di vista della comunicazione, le grandi aziende digitali (Google, Amazon e Facebook) sono passate dall’essere raccontate come incubatori di innovazione a sfruttatori senza scrupoli. C’è stata un’inversione di tendenza totale. Eppure, da quando si è scatenato il Coronavirus, i grandi miliardari sono stati in prima linea per aiutare: da Jack Dorsey che ha donato un miliardo di dollari per ricerche contro il Coronavirus, a Bill Gates che finanzia i vaccini, a Amazon che assume 175.000 persone in modo da poter soddisfare le consegne a casa. Sembra che tutto il mondo tech abbia cambiato di nuovo pelle agli occhi del pubblico, tornando ad avere una valenza positiva. Attività che fino a tre mesi fa sarebbero state impensabili, come il controllo degli spostamenti e dei contatti che abbiamo con altre persone, oggi sono prese in considerazione come qualcosa di plausibile.

Il problema che mi pongo, però, è: quando usciremo da questa emergenza, quanto sarà difficile tornare indietro su livelli di controllo attuali? Siamo sicuri che avremo indietro la nostra privacy? Non vedo quale sia il confine di questa vicenda e mi sembra che sia valido il vecchio mantra “lascia che mi prenda gioco della tua sicurezza in cambio della tua libertà”. Quando potremo rimettere una barriera, una linea di confine oltre la quale non si può andare?

Come la vedi questo cambio di rotta anche del mondo tech che hai descritto così bene nel tuo “The Game”?

AB: Be’, è una domanda che centra uno dei punti sensibili del nostro cambiare come comunità, come collettività.

Intanto, mettiamo da parte una cosa che hai registrato anche tu ma che è molto importante: nel giro di un mese moltissime persone hanno (per così dire) fatto pace col digitale, cioè hanno capito che il digitale li ha tenuti in vita. In effetti, si è diluita quella forma di risentimento, sospetto, astio, rancore che stava montando nei confronti delle tecnologie digitali.

Questo è importantissimo perché, una volta che sarà finito tutto questo, potremo riprendere in mano la rivoluzione digitale e farne un bilancio sereno. Lo storytelling che dominava era sproporzionato e insensato oltretutto, dato che poi tutti comunque usavano i device digitali. Insomma, credo che questa esperienza rimetterà le cose a posto e saremo più equilibrati, più sereni nell’affrontare un problema reale ovvero l’invadenza di queste tecnologie nella vita di tutti i giorni.

Quando ci arriveremo saremo un pochino diversi, forse più saggi.

L’esempio più chiaro per me è il pensare che soltanto un mese fa c’era gente serissima che si permetteva di dire frasi del tipo “ormai viviamo l’esperienza umana solo attraverso gli strumenti digitali e stiamo perdendo tutto”. Ora che siamo chiusi in casa, invece, ci accorgiamo di quanta roba umanissima possiamo ancora fare soltanto grazie al digitale. Dicevamo: “i nostri giovani vivono solo attraverso lo schermo dei loro device digitali”. Be’, ora non si può più dire, perché abbiamo capito che non è così. Siamo diventati un’umanità più adulta, più matura, eravamo un pochino come degli adolescenti contro il proprio padre e credo che questo ci abbia fatto crescere tutti.

Detto questo non potremo non fare i conti con tutti i nodi della civiltà digitale, i nodi ancora irrisolti, e ce ne sono 4 o 5 essere a essere buoni. Diciamo 4 o 5 belli grossi, ecco. Uno è quello a cui ti riferivi tu, ovvero la linea di demarcazione fra controllo e libertà, la privacy insomma. Ma questo è un punto su cui io davvero devo studiare ancora molto.

MM: Mi immagino tu che studi in stanze tappezzate di libri e che pensi “no, su questo devo studiare ancora un po’”.

AB: Su questo sono in ritardo, perché istintivamente sono convinto che la privacy sia sopravvalutata, largamente sopravvalutata. Cioè non è che sia un valore, non è una cosa su cui farei una battaglia. Quindi capisci che parte un po’ sghembo su questo problema.

MM: Anche Mark Zuckerberg, tanti anni fa, quando gli chiesero cosa pensasse della privacy, disse che secondo lui era sopravvalutata.

AB: Be’, non so se questo punto deponga a mio favore.

Oltre al fatto che, scrivendo “The Game”, diverse persone hanno cercato di farmi riflettere meglio proprio su questo punto e per questo dico che ci sto ancora lavorando. In fondo continuo a pensarla così. Anche adesso, per esempio, nell’emergenza non avrei nessuna paura a usare la famosa app per il tracciamento dei nostri se un controllo maggiore volesse dire spostamenti più fluidi.

In ogni caso ammetto che su questo punto qualsiasi mia riflessione non vale molto più di quella di tanti altri quindi ve la risparmio.

MM: Probabilmente anche avere una tempistica potrebbe aiutare. Sapere che il tracciamento andrà avanti per i prossimi tre mesi e poi si torna alla normalità potrebbe essere un incentivo a lasciare la privacy da parte per un momento. Certo è un tema complesso, che avrà mille sviluppi.

Però volevo affrontare con te anche un altro tema, quello delle fake news. Io ogni giorno ricevo moltissimi messaggi che mi descrivono la nuova teoria complottistica di turno (alcune straordinariamente creative). E certo, questi tempi sono un terreno fertile dove possiamo dare sfogo a tutte le nostre paure, però sembra che si stiano formando delle vere e proprie tribù di persone. Persone che si chiudono attorno a una teoria e che si uniscono in modo feroce intorno a quell’argomento, andando avanti con questo bias cognitivo e cercando continue conferme alla loro strampalata teoria. Tu hai notato qualcosa di particolare dopo il Coronavirus? Per esempio a me ha colpito molto che qui in Inghilterra siano andati a bruciare qualche torretta del 5G per paura del Coronavirus, per dire. Hai qualche spunto su questo argomento?

AB: Io credo che le fake news in qualche modo siano alla base dell’esperienza umana. Molto spesso la gente si coordina, si raggruppa e quindi trova un’intensità di vita e un’identità attorno a delle fake news. A volte sono nate persino delle comunità, faccio un esempio: abbiamo generato una comunità immensa (con tutto il rispetto per i credenti) sull’idea che un uomo sia risorto. È un’idea molto ben raccontata, possiamo disprezzare questo valore? Certamente no. Spesso gli umani hanno costruito cose reali a partire da cose che possiamo chiamare fake news. Persino l’idea dell’impero romano è una fake news perché non c’è scritto da nessuna parte che fosse il “faro della civiltà”, che tutti dovessero parlare latino o usare il diritto civile, per dire.

Alla fine, il meglio che gli umani hanno prodotto viene dalla capacità di costruire delle verità che non c’erano e costruirle assemblandole benissimo e facendole diventare verità. Non bisogna mai avere troppo disprezzo, sospetto o paura di questa attività perché è uno dei loro grandi talenti degli umani oltre a essere la ragione per cui dominiamo il mondo della natura: l’incapacità di storytelling di una giraffa è notevolissimo rispetto al nostro e anche quella di un acero, per dire.

Se vogliamo spiegare perché viviamo dell’antropocene la spiegazione è semplice: perché gli umani sono capaci di storytelling e quindi anche di fake news.

Detto questo, nel momento che stiamo vivendo il complottismo ha terreno fertile. Io non mi stanco mai di ripetere a qualsiasi complottista che l’idea che il nostro sistema sia in qualche modo controllabile da chiunque con qualsiasi sistema è illusorio, perché il nostro sistema è talmente complesso che è quasi logicamente falso. È falsa l’ipotesi che qualcuno riesca a controllarlo. Il sistema novecentesco era in parte controllabile, cioè alla fine la Germania nazista si poteva ancora fare, ma quel mondo ormai è esploso (e comunque anche quello non lo potevi controllare più di tanto).

Ora come ora, i sistemi sono troppo complessi per credere davvero che qualcuno possa aver generato l’emergenza Coronavirus con uno scopo. Quello che esiste, invece, è la possibilità che sistemi complessi partoriscano situazioni imprevedibili e che gente molto veloce riesca a convertire queste situazioni in strategie di gioco buone per lui. Questo sì esiste.

In questo momento, ad esempio, quello che si può dire è che c’è gente che sta lavorando molto bene per vincere la prossima partita e c’è chi subisce. Al di là di questo, una cosa la registro: perfino persone come me, che non sono per nulla complottiste, hanno quasi certezza di non aver capito esattamente che cosa sia accaduto o che cosa stia accadendo.

Anche con tutti gli sforzi e tutte le intelligenze che abbiamo messo in moto c’è qualcosa che ci manca, la famosa “quinta zampa del gatto”. Ecco lì c’è qualcosa che continua a sfuggirci. E non è il nome del cattivo che ha generato tutto questo o il suo scopo, perché in questo io ci non credo. Però credo nel fatto che oggi vediamo soltanto una parte della luna e che ce n’è un’altra parte nascosta. Non proditoriamente nascosta, soltanto una parte che non riusciamo a vedere per un limite nostro, per una forma di lentezza o di petrosità del nostro modo di pensare. Ci scappa qualcosa, ecco. Non abbiamo capito esattamente quel che sta accadendo.

MM: Ti faccio alcune domande che arrivano dalla chat e lascio che questa tua affermazione si sedimenti per un attimo. Anch’io in effetti ho la stessa sensazione, originata forse dalla confusione, dall’incertezza o dal non riuscire a mettere insieme tutti i pezzi. Vivendo in Inghilterra e guardando la situazione italiana (ma anche quella di altri paesi), mi impressiona vedere quanto siano diverse le reazioni. Sembra che non ci sia una task force collettiva, ma che ognuno decida per sé. Così è molto più difficile vedere il problema per quello che è in realtà.

Una domanda dalla chat: Cristina Felici era curiosa di sapere se stavi scrivendo qualcosa di nuovo in questo periodo o se avevi qualche progetto in cantiere. Tra l’altro, ogni volta che ti penso mi viene in mente un video di Umberto Eco in cui si vedeva la sua libreria immensa. Mi immagino così anche casa tua e penso a te che cammini in mezzo a questi libri e cerchi l’ispirazione. Mi piacerebbe sapere anche se è così.

AB: Rispondo volentieri a Cristina, perché è una cosa che mi affascina. Allora, io riesco a scrivere molto poco. Devo scrivere alcune cose per lavoro e quindi mi sforzo, però sarebbe enormemente difficile in questo momento scrivere un libro.

Leggo abbastanza poco, cioè faccio fatica, e a parte il mio caso personale posso dire che moltissima gente attorno a me in questo momento ha le stesse difficoltà. Chi suona non riesce a suonare, chi balla non riesce a ballare, gli unici sono quelli che cucinano, loro riescono a cucinare, quello sì. Però tutti hanno il problema di focalizzarsi sul gesto che gli è più consueto, persino quello per cui hanno un particolare talento.

Quindi chi si immagina che grazie a questa quarantena noi creativi, artisti o come volete chiamarci, siamo lì e in questa singolare pace costrittiva stiamo producendo chissà cosa, be’, direi che vi sbagliate di grosso.

Abbiamo della nebbia in testa, un ronzio nelle orecchie costante, che è quello che non capiamo e che probabilmente ci manca. Una sorta di opposizione, perché per chiuderti in casa devi avere qualcuno fuori che ti insegue. Solo così puoi andarti a nascondere. Devi avere qualcosa da fare con le mani, per poter smettere e iniziare a scrivere.

Probabilmente la caduta di questa barriera, ci complica le cose. Per cui non credo che questo sarà ricordato come un periodo di grande creatività da parte di quelli che nella vita fanno questo mestiere.

MM: Francesco Bortolan, invece, ti chiede che cosa ne pensi della reazione della scuole, della formazione online. Io lo vedo con i miei due figli (di 6 e 10 anni): si è aperto un universo, siamo stati trasformati da genitori a insegnanti, ma da un giorno all’altro. Come pensi che cambierà la scuola anche nel futuro?

AB: Mah, io due idee me le sono fatte. Una è che chiudere le scuole è una roba con cui bisogna stare attentissimi. È una roba che devi fare soltanto in situazioni particolarissime. Per esempio, nel piano delle quattro fasi di Israele, ecco se dovessi dire una logica che mi sarebbe più vicina, metterei come primo punto la riapertura delle scuole, perché quel ritmo lì è la spina dorsale del paese.

L’educazione è una cosa che non può fermarsi mai, mai. Neppure in guerra di fatto si è mai fermata.

Mia mamma era ancora piccolina nella seconda guerra mondiale, era stata sfollata in campagna e doveva farsi 13 km al giorno a 13 anni, l’età di mio figlio adesso, per andare a scuola. C’erano i posti di blocco dei nazisti, qui in Piemonte, ma ci andava. Insomma, con la scuola dobbiamo stare davvero attentissimi.

La seconda idea che ho è che magari questa situazione ci aiuterà ad abbattere finalmente il muro che c’è fra l’educazione e i device digitali. Lo vedo nei miei figli: uno fa la terza media e fa 5 ore al giorno davanti al computer, magari in mutande, mentre fuori dallo schermo fa colazione o cose del genere. E, certo, in questo c’è qualcosa che non funziona, ovviamente, ma c’è anche qualcosa che funziona.

Perché è un modo leggerissimo, un modo molto pratico e libero, che si addice perfettamente alla loro intelligenza veloce.

L’assurdo è fare sei ore così. Quello ti dà l’idea esatta del disastro che stiamo combinando: applichi un modello chiaramente obsoleto e costringi un bambino di 13 anni a stare davanti a un computer per 6 ore, 5 ore al giorno senza ragionare. È un copia-incolla del sistema analogico, ma il sistema digitale dovrebbe indurre nuove misure. Non so, 20 minuti di geografia e non più un’ora, spiegando soltanto quello che conta.

Poi centinaia di migliaia di insegnanti hanno finalmente imparato a usare uno strumento: la prima lezione vedevi solo il mento, la seconda magari non sono riusciti a farla, ma poi a furia di andare ci hanno preso gusto. Poi, se avremo la lucidità di decidere e di adottare questa cosa per sempre, forse ne faremo buon uso. Può sembrare provocatorio, ma è soltanto buon senso. Ci sono molte lezioni che si possono fare online, anche quando il mondo è aperto. Lezioni che il ragazzino può ascoltare quando cavolo gli pare e non per forza alle 7.15 del mattino. Se la vuole fare alle 16, se la fa alle 16. È tutto un sistema più dinamico per far passare la stessa educazione, gli stessi principi e i valori di sempre. Può darsi che anche questa esperienza ci aiuterà a farlo meglio.

MM: Un altro paio di domande al volo, sempre dalla chat. Come state gestendo la situazione alla scuola Holden? L’accademia torinese fondata da te.

AB: Eh dunque, ci siamo regolati così: da subito abbiamo avuto 48 ore di latenza. Eravamo tutti esterrefatti da ciò che stava accadendo e non abbiamo fatto nulla, praticamente ci guardavamo nei corridoi con gli occhi sbarrati. Poi ci hanno chiuso la scuola nel senso degli allievi e poi la scuola nel senso delle persone che ci lavorano. E quindi siamo finiti tutti a casa.

Per fortuna siamo un gruppo relativamente piccolo, una quarantina di persone in tutto, così abbiamo cominciato a parlarci e a pensare ossessivamente a cosa fare. Noi l’abbiamo messa così: in questo momento tu sei una scuola e quello che stai facendo è cadere, stai cadendo dalla moto, sei scivolato sulla bozza d’olio e stai cadendo, e quindi la cosa che devi fare è cercare (nel cadere) di romperti meno cose possibili per poter risalire molto più velocemente in sella. È quello che stiamo facendo in questo momento: tutte le lezioni possibili le facciamo in digitale, ci poniamo tutti i problemi, cioè pensiamo a come possiamo romperci meno cose possibili, sapendo che qualcosa dovremo rompercelo per forza.

Abbiamo dei ragazzi che devono finire l’anno, come gli universitari, e però per noi è più complicato perché siamo una scuola piuttosto animale in cui contano anche le emozioni, i corpi, le sensazioni. Abbiamo un rapporto fra docenti e allievi che è tutto diverso da quello delle università, è un rapporto 1 a 21 in media, quindi siamo tutti molto vicini. Il rapporto è personale e siamo tutti impegnati a cadere senza farci male: salvare il polso, salvare la testa e portare tutti i nostri ragazzi verso una qualche fine d’anno che sia sensata mentre un altro pezzo di noi si è messo da parte e si è dimenticato che sta cadendo. Si è chiesto “ok, appena questa moto si ferma, io mi rimetto sui piedi, ammesso di averli ancora, ma li avrò perché stiamo cadendo bene, e allora cos’è che faccio come prima cosa?”.

E lì il problema è abbastanza interessante. Adesso credo che scommetteremo su un anno scolastico che non sarà come nessuno fatto prima, un anno completamente anormale, completamente pazzo ma che sarà anche l’anno più bello della Holden.

Cambiamo tutto, cambiamo prezzi, cambiamo insegnamento e cerchiamo una struttura più dinamica, più leggera possibile, in modo che possa reagire molto velocemente a qualsiasi cosa accada, buona o cattiva che sia. Se ci dicono “bene, potete tornare in classe” non lo dobbiamo fare in una settimana, perché pensare di poter decidere oggi come sarà il prossimo anno scolastico è una cosa molto novecentesca appunto. E noi non vogliamo cascarci perché dobbiamo mettere su una scuola a ogni costo. Tra noi ce la raccontiamo così: nei porti c’è il colera e quindi rimarremo in mare aperto tutto un anno, scommettendo sul fatto che tra un anno saremo di nuovo in grado di scegliere cosa fare.

Per quest’anno c’è soltanto il mare aperto.

Bisogna farlo così e lo faremo così. Capace che diventerà uno degli anni più affascinanti della scuola.

MM: Anche questo è un aspetto che a volte nella narrativa giornaliera vedo spesso mancare, perché sembra che questa situazione sia uguale per tutti e invece tu hai dei settori che in questo momento sono in totale crescita, in totale espansione, in totale esplosione.

Ad esempio parlavamo dell’istruzione e delle soluzioni online che sono cresciute clamorosamente: Zoom ha 10 milioni di utenti al giorno, per dire. Ci sono tanti mondi che crescono e abbiamo la possibilità di reinventare completamente un intero settore. È ovvio che ci sono mille problemi però in fondo sono anche questi i momenti in cui le cose cambiano davvero. Se non ora quando. Penso che possa essere un’occasione stimolante soprattutto per una persona come te, molto aperta da questo punto di vista, creativa. Gente che possa trovare una direzione totalmente diversa da quella che avrebbe preso prima, ma soltanto perché prima non ce n’era bisogno. Forse, non lo so.

In chat leggo moltissimi complimenti per te, per tutti i tuoi libri, per la tua attività. C’è anche qualcuno che ti chiede quando tornerai in televisione a parlare di libri.

AB: È difficile, ringrazio molto, ma è difficile perché la televisione è uno strumento che non mi è per niente congeniale. Mi rendo conto che non mi fa star bene la televisione. Da giovane l’ho fatta e mi è servita molto. Ci sono periodi della vita in cui faresti di tutto, ma adesso ho tante cose nella mia vita che mi fanno star bene e la televisione non è una di quelle. Per cui ringrazio moltissimo, ma va bene così.

MM: Alessandro, stavo pensando che in questo momento (in cui stiamo tutti a casa) anche alcuni telegiornali, sia stranieri che in italia, hanno cominciato a trasmettere contenuti da casa. Molti ospiti sono semplicemente a casa loro: tu vedi questo appiattimento come una democratizzazione produttiva, per cui sembriamo tutti uguali? Per esempio, Alessandro Cattelan ha detto che per lui sarà impossibile fare una trasmissione senza uno studio e senza una produzione. Secondo te occorre pensare a nuovi format? Io sono abbastanza positivo anche su questo aspetto qui, cioè lo vedo come uno stimolo alla creatività.

AB: Al di là delle sofferenze individuali, al di là dell’esperienza della morte alla quale bisogna guardare anche nella vita, mi sembra che questo momento storico sia decisivo. È come se d’improvviso un gioco praticamente bloccato si sia aperto. Certo, è faticoso.

Il punto è che è molto faticoso: questi momenti di svolta sono di grandissimo fascino e poi partoriscono anche risultati pazzeschi, ma obiettivamente sono dei momenti molto faticosi. Sia dal punto di vista psichico che fisico. Non tutto il mondo è nato per sostenere questi ritmi e quindi la sofferenza ci sarà.

Non vorrei fare il fighetto e dire che è un momento fantastico pieno di opportunità perché so che, invece, per gran parte delle persone è un momento di merda. Punto. Però dobbiamo sempre ricordarci quello che dici anche tu e cioè che dentro quel momento di merda c’è qualcosa, un’opportunità, una nuova via per tutti. Un movimento di liberazione da ganci o da blocchi che avevamo. E questo è vero. Non dobbiamo dimenticare né una cosa né l’altra, diciamo. Al di là dell’ottimismo o del pessimismo, se riusciamo ad avere un’immagine equilibrata fra queste due cose, credo che potremo vederla nel modo giusto.

MM: Hai perfettamente ragione, il rischio di dire che ci siano nuove opportunità lavorative sembra dimenticare il fatto che milioni di persone perderanno il proprio lavoro e tante aziende chiuderanno. Un’altra domanda dalla chat: Massimo Tiso scrive “Bravo, Alessandro, ad aver stimolato l’audacia in un momento come questo dove la tendenza è l’apatia e il subire passivo le decisioni degli altri”. È una bella parola audacia e penso che sia un ottimo stimolo in una situazione difficile, perché si può affrontare in tanti modi però avere un po’ di audacia secondo me è aspetto un importante, no?

AB: Sì, in questo momento è importante conservare quest’idea di audacia perché è vero che la prima cosa da fare è essere prudenti, non far cagate e, quando arriva un’insidia, mettersi nella posizione di non prendere un colpo troppo forte.

Poi però appena evitato il colpo, la prima cosa che bisogna fare è avere uno schema d’attacco. Non è che si possa stare tutto il tempo a parare colpi di qui e di là.

Perché il sistema d’attacco è basato sulla disponibilità a perdere, devi essere capace di rischiare. È basato su una capacità di sofferenza. In realtà, l’audacia si costruisce proprio sulla base di una capacità di sofferenza perché può andarti storto e se non sei capace di soffrire farai tutte le cose più prudenti e ridurrai al minimo la possibilità di soffrire. L’audacia ha qualcosa dentro che è molto bello, ha dentro un’iperbole di capacità davvero fantastica, perché l’audacia non è come il coraggio. Il coraggio è una cosa anche un po’ ottusa: non aver paura di fare. Mentre invece quando noi usiamo la parola audace indichiamo qualcosa che, da un punto di vista intellettuale, è un misto tra disponibilità a soffrire e di brillantezza nel trovare una mossa sorprendente. Ed è esattamente quello di cui noi oggi abbiamo bisogno.

In questo momento mi sembra che nel mondo ci sia molta poca audacia. Non so come sia andato l’ultimo discorso di Macron, ma per esempio proprio lui ha citato questa parola. E qualcosa vorrà dire. Probabilmente non si tradurrà in comportamenti veri, però è la prima volta che vedo delle classi dirigenti che si affacciano a quest’idea, quella di suggerire una disponibilità alla sofferenza e una fiducia nelle soluzioni meno banali, meno ovvie. Nelle soluzioni che hanno un velo di brillantezza in più e uno di insospettabilità in meno. Potrebbe risparmiarci davvero davvero tanta tanta sofferenza.

MM: Alessandro, 5 minuti ancora. Tre curiosità, così alleggeriamo questo momento. In chat vogliono sapere quale sia la tua giornata tipo. Cosa fa Alessandro Baricco in quarantena a casa?

AB: Una cosa che è successa è che ho ripreso dei ritmi che sono davvero miei, quelli di tutta la mia giovinezza o almeno fino a quando non ho avuto figli, diciamo. Vado a dormire alle 3 e mi sveglio alle 11 o anche a mezzogiorno. Una roba che non mi capitava da anni.

Come in un automatismo, la mia vita si è riposizionata, potendolo fare. Non esco di casa e quindi la vita si è spostata di nuovo lì e la cosa mi ha fatto pensare perché evidentemente abbiamo proprio dei cicli nostri e nessuna civiltà potrà mai cambiarli.

Dopo di che, come tutti, anch’io ho piantato un chiodo in ogni mia giornata, per avere almeno un punto fermo. Ho scelto una cosa che mi sta a cuore ma che è molto sciocca: prima del Coronavirus stavo studiando spagnolo, perché avevamo in mente di aprire la Holden in lingua spagnola a Madrid. E quindi ho pensato che mi sarebbe piaciuto finalmente imparare questa lingua. La stavo studiando e adesso ogni giorno faccio lezione di spagnolo perché è anche più semplice e le mie giornate me lo concedono, le giornate del mio professore di spagnolo glielo concedono e quindi, naturalmente grazie ai device digitali, faccio questo. Ogni giorno a mezzogiorno e mezza sono lì a fare spagnolo, diciamo che ho piantato questo chiodo.

Per il resto, devo dire che paradossalmente — come tanti — vivo una quotidianità perfino deliziosa. Lo dico serenamente, perché con questo ronzio, questa nebbia nella testa, con questa intollerabile impressione di prigionia poi, nel dettaglio, sono giornate che posso definire migliori di quelle che avevo prima, ecco. Se vi faccio vedere la mia agenda dei giorni prima del Coronavirus sembra l’agenda di un pazzo, almeno vista da qua.

MM: A livello di contenuti di cui fruisci, hai qualche cosa da suggerirci come libri o serie tv? Mi sono sempre chiesto che idea ti fai quando guardi questi prodotti culturali, come li analizzi o se c’è qualche cosa che suggerisci di particolarmente interessante.

AB: Mah, come ho detto prima, ho qualche difficoltà a leggere.

Le serie non le amo tanto. Cioè, penso che siano una genialata pazzesca, però poi nella mia vita non so perché non c’entrano e quindi ne vedo veramente pochissime. Al momento parlo moltissimo, non ho mai parlato così tanto alla gente, ma parlare nel senso di ascoltare anche. Comunque credo che fossero anni che non stavo ad ascoltare così tanto i miei amici, le persone della mia vita, gente di ogni parte del mondo. Credo che statisticamente il gesto che faccio di più, oltre a stare con i miei figli, è quella di parlare con le persone che mi piacciono di più al mondo. In questo momento forse è la cosa che faccio più spesso fino a che, sfinito, verso le 3 o le 4 del mattino, me ne vado a letto, apro un libro, sfoglio un paio di pagine e poi crollo.

MM: Ultimissima domanda. “Perché secondo voi hanno scelto di aprire le librerie?”.

AB: Mah, non so. È stata un’intrusione inaspettata di poesia nei provvedimenti di un governo molto prosaico.

MM: Mi fa venire in mente “Le ali della libertà”, la scena in cui il protagonista riesce a entrare nella stanza del direttore della prigione per ascoltare un brano di musica classica. In quel momento, tutto il carcere ascolta il brano in silenzio. A me ha dato un po’ quella sensazione lì.

AB: Forse la lobby delle librerie è molto potente, non lo so. Però credo che abbia prevalso un’idea, avranno calcolato che il rischio non era enorme e che si poteva affrontare.

MM: Dici che nessuno ci va più in libreria quindi non c’è problema?

AB: No, però la cosa curiosa è che molti dei librai indipendenti (cioè proprio gli eroi in questa storia) hanno detto “no grazie, io tengo chiuso”. Perché hanno più problemi economici che ricavi. Se aprono gli mandano i libri nuovi e li devono pagare al 30% ma non è detto che la gente andrà nelle librerie. Molti si stanno organizzando per portare i libri nei piccoli centri: ad esempio, Il Libraio in questo momento sta portando i libri alla gente. In qualche modo si è formata una nuova economia e quindi, dal punto di vista tecnico forse non è un provvedimento che non ha nessun senso particolare, ma si portava dietro una punta di poesia.

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Marisandra Lizzi
Spazio delle Relazioni Umane

Scrivere per migliorare il mondo, partendo dal mio e poi allargando il raggio parola dopo parola