Attesa

24 maggio 1844: quando il telegrafo cambiò la storia (e la vita) di tutti.

Espérance Hakuzwimana
Iride Magazine
5 min readMay 24, 2016

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17 giugno 1843
Me ne andrò a Baltimora, Daniel.
E adesso come faremo?

Me lo ricordo bene: avevo 17 anni, gli occhi blu e volevo sposare Sarah che ogni suo disegno era una poesia.
Io e Sarah ci eravamo conosciuti due anni fa alla festa di sua cugina, fidanzata con Timothy, il mio migliore amico che lavorava alla ferrovia. C’era tutta la Washington bene e poi noi due vestiti con le magliette da lavoro e ai piedi scarpe bucate e la voglia di correre via da lì.
Sarah era bellissima. Un vestitino bianco le fasciava il corpo tonico e i capelli, di un biondo inenarrabile, stesi sulle spalle a completare il disegno. Me lo ricordo bene. Come mi ricordo la prima volta che mi parlò, quando mi baciò o quando scappammo dietro al capanno della fabbrica e mi disse che mi amava con quella voce morbida che mi sognavo di notte.
Poi mesi dopo, fuori dai cancelli della fabbrica in cui lavoravo, mi salutò con la mano da lontano, i capelli biondi raccolti, le gambe nascoste dietro una gonna verde. Mi disse che doveva partire. Che suo padre aveva trovato un posto di lavoro e che tutta la famiglia lo doveva seguire.

6 agosto 1843
Non puoi restare, vero?
Lo sai che non posso. Ma in qualche modo, troverò un lavoro, farò soldi e tornerò da te

E io le credetti: avevo 17 anni, gli occhi blu e volevo sposare Sarah che ogni suo sorriso era un regalo.
Partì in un giorno della fine dell’estate del ’43. E Baltimora a settembre, senza di lei, era un incubo da cui non riuscivo a svegliarmi. Le scrivevo lettere lunghissime, con poesie orribili che all’epoca credevo fossero veri e propri capolavori. E poi aspettavo. Tanto.
E aspettare quando si è innamorati è la sofferenza più crudele.
Scrivevo e attendevo una risposta, poi la risposta arrivava, la leggevo tutto col cuore in gola, ricominciavo a scrivere e partiva nuovamente l’attesa.
Quando raccontavo a Timothy di quanto mi faceva male quella distanza mi rispondeva sempre che esageravo, che il lavoro in fabbrica era una fortuna che non consideravo abbastanza e che una come Sarah me la sarei dimenticata presto.

Lui aveva iniziato da poco a far parte a un progetto collegato alla ferrovia: il telegrafo. Continuava a ripetermi di quanto fosse innovativo; e un giorno mi spiegò che quello a cui stava lavorando sarebbe servito per la comunicazione celere a distanza.

Il professore che controllava i lavori, un certo Samuel Morse — un tipo strano che a giù a New York insegnava storia dell’arte — stava mettendo anima e corpo cercando di coinvolgere anche gli operai della ferrovia.

Foto generica di repertorio

12 dicembre 1843
Non trovo più le parole per dirti quanto ti amo, mia dolce Sarah. Queste lettere appaiono così aride ai miei occhi, questo inchiostro sensibile al tempo e anche questa carta non riesce più a contenere il mio amore. Quanto dovrò ancora aspettare?

I mesi spesso sembrarono infiniti, Sarah rispondeva sempre puntualmente alle mie lettere e io senza sosta le scrivevo tutto quello che facevo e quello che mi succedeva. Baltimora era sempre la città umida e piena di gente di passaggio di cui ormai non mi importava più. Mettevo da parte i soldi per la mia nuova vita con Sarah, facevo passegiate lunghissime e uscivo con Tim durante le sue pause da lavoro. E fu proprio durante una di quelle che parlando mi diede l’idea di tutto.

14 aprile 1844
Mia dolce Sarah, mio fiore. Ti scrivo per dirti che venerdì 24 maggio dovrai recarti alla stazione di Baltimora e chiedere del Dott. Alfred Vail. Sarà lì per un esperimento: la comunicazione a distanza tramite un nuovo macchinario che si chiama telegrafo. Tim mi darà l’opportunità di partecipare alla preparazione. Assisteremo alla rivoluzione della scienza insieme. Dovrai esserci mia dolce Sarah, mio fiore. Dovrai essere lì e vivere quel momento insieme a me.
Tuo Daniel.

Foto generica di repertorio

Accadde tutto in fretta. Il 24 maggio mi recai lì sin dalla prima mattina. Ricordo l’aria tesa che tagliava i volti sia dei professori che degli operai. Ricordo che Tim andava avanti e indietro dalla hall della stazione e i curiosi accalcati dietro i vetri e accanto binari. Il professore, quello che insegnava storia dell’arte all’università, era evidentemente agitato ma sorrideva a tutti. L’avevo conosciuto qualche giorno prima e mi era parso amabile e disponibile. Da quello che capii aveva inventato un alfabeto per comunicare in maniera breve e comprensibile col telegrafo, appunto. Nulla di più veloce e nuovo era mai stato pensato precedentemente. E io ero lì. Anche Sarah sarebbe stata lì. Avremmo assistito insieme a qualcosa di straordinario. E fu proprio così.

24 maggio 1844
Se vuoi dimostrare a Sarah quanto la ami, questa è la tua occasione
Ma Tim che cosa stai dicendo?
Vai dal ragazzo che è al macchinario, digli che ti mando io.
Dici sul serio?
Vai finché festeggiano.

Nel parapiglia generale mi lanciai: avevo 17 anni, gli occhi blu e volevo sposare Sarah che mi mancava da impazzire.
Fu rapido, probabilmente nessuno se ne accorse.
Da quel momento per me sarebbe partita un’altra lunga attesa. Ma nuova, più bella delle precedenti e di cui la risposta mi avrebbe cambiato la vita; proprio come avrebbe fatto il telegrafo a Washington.
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Sono passati ormai sedici anni da quel giorno. Io e Sarah viviamo a Baltimora e i nostri bambini con gli occhi blu e la passione per il disegno sono la nostra gioia. A volte mi capita di guardarla mentre gioca con loro nel giardino fuori casa; Tim ha la sua stessa risata e Rosie è di una dolcezza incredibile. E quando uno dei due mi chiede come io e la loro mamma ci siamo incontrati, io tutta la parte delle lettere e dell’attesa la salto sempre; mi piace sempre arrivare alla fine, e anche loro lo adorano.

Era il 24 maggio del ’44 e il primo messaggio che venne inviato col telegrafo fu: WHAT HATH GOD WROUGHT! (Cosa Dio creò!)

Ma il secondo messaggio, quello più importante, quello che alla stazione di Baltimora nessuno si aspettava di ricevere nel bel mezzo dei festeggiamenti dell’esito dell’esperimento diceva tutt’altro.
E cosa c’era scritto papà?

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«Sarah, do you marry me? D.»

Sarah, mi vuoi sposare? D.

Esperance H. Ripanti

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