Auguri alla Banda dei Cuori Solitari del Sergente Pepe

L’album dei Fab Four compie, oggi, 49 anni.

Marta Perroni
Iride Magazine
4 min readJun 1, 2016

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Il 1° giugno 1967, dopo essersi chiusi in studio per una sessione di 400 ore, i Beatles danno alle stampe la colonna sonora della Summer of Love: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

“La creazione di questo disco fu uno sfrenato e variopinto giro di giostra dove tutto era possibile.” — Paul McCartney

Ma per capire il contesto in cui questo album si inserisce bisogna fare un passo indietro: nel 1966, l’anno precedente, venne pubblicato Revolver, un disco che aveva dato forma a sonorità assolutamente innovative ed era stato da subito considerato il culmine delle sperimentazioni musicali della band. Grazie all’aiuto di Geoff Emerick, un giovane tecnico del suono assunto dall’etichetta EMI cinque anni prima, all’età di quindici anni, ne erano usciti brani costruiti in studio con una complessità tecnica tale da non poter essere riprodotti live. E questo, insieme ai problemi che le urla dei fans, e le prime minacce dei fanatici religiosi provocavano ad ogni concerto, spinse la band a sospendere l’attività dal vivo (scelta dolorosa anche per Brian Epstein, loro primo manager, che si sentì, a quel punto, inutile e ingombrante).

Ecco che cominciarono gli anni delle lunghe sedute di registrazione in studio.

Fu da una di queste sessioni che uscì quello che ora è considerato uno dei capolavori assoluti della musica pop-rock: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, che deve il titolo al condimento, Salt & Pepper, d’un pasto che i ragazzi di Leaverpool condivisero con Mal Evan, ai tempi loro road manager, di ritorno dagli States.
L’album fu anche il capostipite dei “booklet” (il libretto pieghevole con i testi) e assolutamente innovativo nella qualità grafica: la copertina è infatti un collage di volti di personaggi scelti dai Beatles stessi. Nella prima versione, sulla destra, sopra Diana Dors, compariva Ghandi, ma la Emi chiese di toglierlo per evitare problemi con l’India, anche se, in realtà, temeva che ne avrebbe avuti con tutti i personaggi rappresentati intorno ai Fab Four o con i loro eredi.

Nessuno fece mai causa.

Per quanto riguarda le tecniche di registrazione di Sgt. Pepper, tra cavi e oscillatori, microfoni infilati nelle bocche degli ottoni e cuffie trasformate in amplificatori poi attaccate ai violini, il 1967 vide dare alla luce il pionieristico e ambizioso lavoro di produzione supervisionato da George Martin e dal suo assistente, quel giovane Geoff Emerick che citavo sopra. Tra l’altro, qualche mese prima, sempre negli Abbey Road Studios, Ken Townsend aveva appena inventato, proprio per i Fab Four, il primo registratore analogico (artificial double tracking — ADT).

Davvero difficile scegliere, ma oserò dicendo che la mia preferita è Within You Without You, la prima traccia del secondo lato del disco.
Prodotto esclusivamente da George Harrison, senza nessun apporto del resto della band (né in fase di scrittura né in studio), il pezzo venne scritto su di un armonium a casa dell’amico Klaus Voorman (musicista e illustratore di “Revolver”) e arrangiata avvalendosi di una coppia di musicisti dell’Asian Music Circle, collaborazione che costò ad Harrison l’imparare a scrivere musica secondo le partiture indiane.

“We were talking
About the space between us all
And the people
Who hide themselves
Behind a wall of illusion
Never glimpse the truth
Then it’s far too late
When they pass away (…)”

Questo inno all’amore e ai sentimenti condivisi, scritto con la commistione di musica occidentale e indiana, è il passaggio più nettamente psichedelico e dalla grande resa finale. Il maestro di Sitar di Harrison fu, tra l’altro, Ravi Shankar, importantissimo musicista e ponte tra musica orientale e occidentale, nonché padre di Norah Jones.

Tornando all’intera scaletta, le interpretazioni possibili e i piani di lettura sono davvero infiniti, si nascondono tra le righe dei testi, nel contesto culturale e nelle tecniche di registrazione utilizzate.

“Sgt. Pepper, ma cos’era in definitiva? Nessuno lo sa per certo, nessuno può dirlo. Ecco probabilmente qual è la sua forza più grande: la sua oscurità quasi totale. La gente era convinta che dovesse esserci per forza qualche senso nascosto. La copertina ad esempio. Perché stiparci dentro tutte quelle icone culturali se non c’era un significato preciso? Perché stamparci i testi sopra, cosa che non si era mai vista, se i Beatles non avevano intenzione di dire qualche cosa di preciso? E poi c’era l’assoluta ambiguità delle parole. Potevi passare giorni e giorni a rivoltarle in qualsiasi modo, ma non ne venivi a capo” — George Martin

Insomma, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band non è un album da ascoltare distrattamente dalle cuffiette degli smartphone ma un disco pensato per essere vissuto, una pagina della storia della musica da leggere e da vivere, dall’inizio alla fine, con tutta l’attenzione e l’amore possibili.

Marta Perroni

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