Cohousing

Una fitta tela in continua evoluzione.

Silvia Muletti
Iride Magazine
3 min readMay 18, 2016

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“Facciamo una bella pasta e fagioli, sughetto di pomodorini e soffritto di cipolla…”

“Allora inforniamo l’impasto per la focaccia, ci siamo noi quattro!

Avete appena deciso il menù della cena improvvisata con altri 3 amici, rimediando con le poche cose in casa, e siete sull’uscio di una signora sulla sessantina che cucinerà per voi. No, non è vostra nonna e nemmeno vostra zia: è una signora del quarto piano scala A, che a stento ricorda la città in cui siete nati, quanti anni avete e se studiate o meno. Pochi giorni prima vi ha chiesto una mano per compilare l’ISEE e assieme avete fatto la raccolta firme per riparare gli ascensori. Non è cosa comune nemmeno per lei, siciliana di origine, aprire le porte di casa lì, nello stabile popolare dove vive da anni e voi da qualche mese.

Episodi simili accadono in una coabitazione solidale, un modo di vivere le relazioni tra gli inquilini e il luogo dove si abita molto diverso da quello dei nostri amici e dalle pubblicità in tv. Dimentica la villetta a schiera e il giardino con l’alta siepe per darti l’illusione della tua privacy. I coabitanti vivono in diversi appartamenti di uno stesso stabile, oppure condividono la casa e si fanno promotori attivi di eventi e occasioni comunitarie; hanno la volontà di ricreare un ambiente di famiglia allargata in cui rapporti di solidarietà e fiducia vadano oltre le mura della propria abitazione per creare un benessere nel territorio del palazzo.

Le coabitazioni solidali sono realtà sostenute da fondi pubblici e gestite da associazioni in condomini di edilizia residenziale pubblica (leggesi, case popolari). Se hai meno di 30 anni puoi vivere qui con un affitto ribassato in cambio di una decina di ore settimanali di volontariato a beneficio della comunità. La cena improvvisata con la signora è solo un esempio; sono organizzate merende, gite, tornei a carte e doposcuola per i bambini. Essendo in uno stabile popolare, lascio alla consapevolezza del lettore immaginare anche alcuni casi critici che si possono qui trovare e che impegnano energie diverse da parte dei volontari.

Le esperienze di vita in coabitazione sono declinabili in diversi modi, a seconda che siano sostenute da associazioni, gruppi indipendenti o fondazioni. Sono un modo per promuovere autonomia abitativa dei giovani e un tentativo di creare un contesto positivo per la comunità locale. Si persegue la convinzione che un individuo è ben inserito in una rete sociale accogliente e stimolante, goda di migliore umore e, di conseguenza, salute.

Istituzionalizzate prima nei paesi nordici (Danimarca, in particolare), l’Italia ha avviato 10 anni il progetto pilota a Torino, a oggi ancora attivo.

Tuttavia, la cultura del vivere assieme ha radici profonde in tutta la penisola. Già dagli anni ’70 comunità autogestite hanno prima occupato e poi rivendicato il diritto di proprietà in aree di recente abbandono causato dall’urbanesimo: nell’Appenino tosco-emiliano, ad esempio, in molti paesi che rischiavano di restare disabitati, gruppi di persone autogestiti si sono insediati per fare del vivere assieme in armonia con l’ambiente circostante, uno stile di vita. Molte di quelle che erano le comuni, sono ora raccolte in RIVE , rete italiana eco villaggi, che accoglie nuove esperienze che tutt’oggi stanno nascendo.

Sa ha radici profonde, il vivere assieme ha le fronde, dunque la buona riuscita futura, un po’ nascosti: molto fiorisce e sfiorisce a seconda delle persone che partecipano, insetti ed epidemie possono corrompere il lignaggio, contesto e stagione ostica rivoluzionare le intenzioni e portare frutti non sugosi. Personalmente, non ho mai pensato che la precarietà e l’insicurezza del successo fossero fattori da considerare negativi, soprattutto quando un progetto è ambizioso.

Silvia Muletti

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