Come combattere nell’arena dell’odio: nove domande a Igiaba Scego

La redazione di Iride Magazine ha deciso di intervistare la scrittrice italiana con origini somale chiedendole il suo punto di vista sull’Odio, ritrovandosi così a discutere di immigrazione, giornalismo, televisione, libri per bambini e letteratura spagnola.

Espérance Hakuzwimana
Iride Magazine
8 min readJan 6, 2017

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Internazionale.it

“Come mi ha detto una volta un signore ‘ci credo che non viene bene nelle foto, sei nera; tutti voi avete una relazione difficile con il sole!’. Partiva dall’assioma: devi adattare la luce quando fotografi una persona di colore.”

Il tuo prestare la penna ai giornali e la voce alle associazioni con un forte impegno interculturale come concilia con il tuo essere scrittrice?
Mi piace definirmi un’attivista culturale; racconto le zone d’ombra che non vengono mai portare nel mainstream. È stato un percorso del tutto consapevole; sono nata alla fine degli anni ’70, gli ’80 sono stati anni feroci per il razzismo: la diversità era considerata un handicap. Ma per me no. Raggiunti poi i vent’anni, venendo da un forte empowerment famigliare avevo una forte consapevolezza delle mie origini. Sapevo di non venire dal nulla, ma sapevo che venivo dal corno d’Africa in cui mio padre a un certo punto della sua carriera è stato addirittura ministro.
Il vero momento di passaggio l’ho avuto grazie agli studi universitari che mi hanno portato a un viaggio verso l’America Latina ancora prima di scoprire l’Africa. Grazie agli studi in letteratura spagnola ho ritrovato molti temi legati alla mia vita: l’immigrazione, il meticciato, le lingue che si intersecano e così via. Da quei posti sono tornata con una consapevolezza diversa del razzismo che mi cadeva addosso.

Da piccola mi chiamavano Kuntakinte e mi lanciavano le pietre addosso.

Ti senti straniera nel nostro paese o riesci a vivere in positivo questa esperienza quotidiana?
La Somalia ha avuto 27 anni di guerra civile. Vive una situazione complessa da anni con, attualmente, una situazione devastante che non auguro a nessuno ed è la stessa che sta succedendo ai siriani oggi. E come spesso accade in queste situazioni, il paese origine ti porta a capire le tematiche del mondo in modo diverso; ed è per questo che ho detto subito che la questione siriana non sarebbe finita presto. Una guerra civile non è fatta solo di una devastazione esterna — morti, feriti, città distrutte — ma anche di una devastazione famigliare. Io ho fratelli sparsi in tutto il mondo: Seattle, Nairobi, Manchester.. . Per colpa della guerra la mia famiglia è esplosa, come quella di tutti i somali; e il risultato è anche la mancanza di un’identità, ci attacchiamo così a quella degli altri e la guerra devasta in questo senso, a mille livelli ancora più profondi.

Io non conoscevo nulla dell’Africa, sapevo di Somalia, Eritrea, Etiopia, già ho problemi su Senegal, Nigeria; gli africani tra loro non si conoscono, se parli a un senegalese, lui ti parla di Parigi, non di Mozambico.

Come sei arrivata a scrivere libri?
Per caso, come Salvatore Marino (comico italo-eritreo): per avere il mio diritto di replica. Io ho sempre questa borsa con me e le mie borse si deformano tutte, così ogni volta che ci cerco qualcosa e non trovo nulla. Un giorno sull’autobus non riuscivo a trovare il biglietto, e in quei 20–30 secondi il controllore mi ha detto di tutto e di più: “voi negri non fate mai il biglietto siete venuti qui a rubarci il lavoro, non pagate le tasse..”; e più diceva così, più andavo in panico. Alla fine lo trovai ma tornai a casa con una rabbia pazzesca, e con quella, mi dissi che avrei dovuto farci qualcosa, metterla da qualche parte o altrimenti avrei spacco tutto. Allora ho scritto “Salsicce”, un racconto che ha avuto una fortuna strana: la storia di una musulmana sunnita (che posso essere io ma rappresenta tutta la mia generazione) che vuole dimostrare agli italiani di essere italiana compiendo un peccato; mangiando salsicce che nella sua religione sono vietate. Un racconto sull’identità, sull’essere somali e italiani ma anche tutto un discorso sulla concezione della carne di maiale, vista come peccato e lontana da una cultura come quella della protagonista.

Igiaba posa con il suo ultimo libro “Adua” (Rizzoli, 2015)

Dovevo cominciare a fare una scrittura da attivista. Iniziare a scrivere era, per me, scrivere libro che non c’era, come Toni Morrison scriveva le storie che voleva leggere. Nel mio piccolo volevo colmare il vuoto mio che poi ha anche una radice storica.

Ti va di raccontarci com’è nata la tua collaborazione con Internazionale?
È avvenuta in modo assurdo. La sede del giornale stava nella medesima via dell’Università che frequentavo, vedevo i ragazzi che ci lavoravano e mi piaceva molto; mi son detta, ci provo! Ho mandato un curriculum pensando che potesse servire un traduttore dallo spagnolo o dal portoghese.
Quando ho iniziato a scriverci era per la pagina “Italieni”: persone di origine diversa che raccontavano le proprie storie. Graficamente era organizzata in modo strano, il volto della persona era vicino alla bandiera del paese di provenienza. “Potete mettete mezza somala mezza italiana?”, non riuscivo a vedermi incasellata all’interno di una sola bandiera. La pagina ha funzionato per 2–3 anni, fu molto letta e apprezzata. Si è esaurita perché le rubriche si esauriscono, e Internazionale, che ha un certo fiuto, non la ritenne più giusta, ma io sono rimasta lì. Continuavo a proporre idee. Al festival di Ferrara, per esempio, faccio la trainer di ragazzi, adolescenti in un laboratorio chiamato “Occhio ai media” in cui si monitora la stampa avvelenata. I partecipanti sono quasi tutti di origine araba, poi ci sono anche un pakistano e russo. Loro realizzano le interviste non io, le prepariamo assieme. Quest anno il monitoraggio era sui “gay e rifugiati”: come riesce una persona della comunità LGBT a richiedere asilo in quanto tale. Poi il nuovo tipo di collaborazione con Internazionale è arrivato con la nascita del sito. Lì ho iniziato curando una rubrica per bambini, sotto mia esplicita richiesta.

Credo che l’editoria per ragazzi sia un buon modo di monitorare cosa succede nel mondo.

Rimanendo nel campi “giornalismo” e “immigrazione”: ti è mai capitato di collaborare con una testata con cui non eri d’accordo con la linea editoriale o la rappresentazione degli “immigrati”?
Io collaboro con altri giornali. Alla mia prima collaborazione seria con il Manifesto mi fecero scrivere di tutto, musica, cinema; una palestra di grande libertà. Poi mi è capitato di avere delle regole che non è male. Ho collaborato con Concita De gregorio all’Unità: ogni settimana avevo un pezzo in ultima pagina da fare, un pezzo breve su delle storie particolari. Un esercizio pazzesco. Scrivere con una griglia piccola per me che sono una che parla tanto è stato ulite. Sono uscite delle belle storie, Concita mi ha dato spazio.

Discorso della scrittrice Igiaba Scego alla Cerimonia Dottori di Ricerca 27/6/2016

Il maggior problema lo riscontro con la televisione. Un programma mi chiese di preparare i punti caldi dell’immigrazione e lì capii che quello che cercavano era uno scontro con altri rappresentanti dell’Africa e dissi di no. Forse sbagliai, ma in televisione non me la sento, probabilmente è una cosa mia personale. Sono anche stata l’unica autrice italiana che non è andata da Fazio.
Ma un conto è scrivere un pezzo, un conto è se lo leggo; ed è proprio il post-tragedia quello che vorrei sempre arginare col mio lavoro. L’articolo viene molto letto, diventa virale e in un certo senso mi ha fatto anche paura: mi sono creata molti nemici, tra fascisti e fondamentalisti islamici. Leggerlo in televisione sarebbe potuto diventare un problema fisico e io con la mia fisicità non mi sento in grado di rappresentare tutti i musulmani.

ph. Odero News

Sono una scrittrice, se ho scritto una cosa è quella punto, non devo andare io in televisione a confermarla.

Igiaba Scego ha dei nemici?
Nemici ce li ho sempre, basti vedere i numerosi insulti fascisti e simili che ho subito. Basta scrivere qualcosa ed è una roba pazzesca. Ora ho questo metodo: su twitter, quando qualcuno comincia a vomitarmi addosso insulti, lo blocco. L’unico modo per sopravvivere è non interagire a questo odio; non ci puoi far niente perché se entri in quell’arena il gioco è quello; invece, se scrivi e arrivi a una rete più grande magari le tue parole assumono un significato più ampio. Cerco di fare un lavoro da militante in questo senso: lavoro nelle scuole, con i ragazzi, per costruire il futuro.

Come spiegheresti questo concetto dell’Arena dell’odio?
Twitter e i social in generale sono qualcosa da studiare a sé. La stampa può e deve migliorarsi, parlando di immigrazione anche, che è qualcosa di complicato certo, ma i problemi devono venire disinnescati, risolti. Vedere l’immigrazione solo come un problema è sbagliato. Rappresentare i corpi degli immigrati come passivi è sbagliati. I corpi invece sono attivi, ci sono studenti, ingegneri, avvocati tra di loro; bisognerebbe mostrare il fenomeno nella sua ampiezza. Molti giornalisti di origine straniera sarebbero in grado di farlo egregiamente. In Italia dovranno cambiare molte cose, non solo il tema della diversità culturale ma anche quello del discorso mediatico e politico arretrati.

L’odio è da esaminare bene, io nel mio piccolo sento di non alimentarne più.

Alla Scuola Holden hai tenuto una bellissima lezione sull’analisi e la decostruzione degli stereotipi. Hai voglia di anticiparci lavori analoghi a cui lavorerai in futuro?
Ora come ora sto realizzando un libro in cui il protagonista un rinoceronte; è per bambini. L’altro gioro invece ho iniziato a scrivere un romanzo a cui sto studiando da cinque mesi. Vediamo quanto ci metterò! È sempre una sfida scrivere, non sai bene se poi qualcosa cambierà, se userai altri generi.

Quale pensi sia il ruolo della rabbia nella discussione sul razzismo?
La rabbia mi ha portato alla scrittura. Io sono una che si arrabbia tanto ma non si vede, cerco di non urlare. Tendenzialmente quando sono arrabbiata scrivo. Ho trovato un mezzo per incanalare le ingiustizie sociali che vedo intorno a me. Penso alla mia scrittura personale, ma anche a quella di molte persone, perché c’è un’urgenza; quando senti di aver qualcosa da dire la scrittura viene in aiuto in qualche modo. In questo momento trovo molto urgente dire le cose perché non è un periodo semplice.

Igiaba Scego (Roma, 1974) è un’autrice di origine somala. Nella sua bibliografia troviamo “Adua” (Giunti, 2015), il Premio Mondello 2011 “La mia casa è dove sono” (Rizzoli, 2010) e “Oltre Babilonia” (Donzelli, 2008). Collabora con diverse riviste che si occupano di migrazioni, di cultura e letteratura africana come tra cui «Carta», «Nigrizia» e con alcuni quotidiani come «laRepubblica», «ilmanifesto», «L’Unità» e il già precedentemente citato «Internazionale».

di Esperance H. Ripanti con la collaborazione di Silvia Muletti

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