Il tifo come tradizione religiosa

Eugenio Damasio
Iride Magazine
5 min readJul 13, 2016

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«Prova a dirlo ancora una volta e non ti parlo mai più»

Avevo quattro anni e, sino ad allora, nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere. Non avevo mai litigato con un compagno di classe o bisticciato con mio fratello, amavo giocare a “mamma e figlio” e adoravo i miei genitori.

Fu così che quando mi resi conto che a dirmi quella frase era stato proprio mio padre, il capostipite della mia famiglia, capii di aver fatto qualcosa di estremamente sbagliato. E io che pensavo semplicemente di aver detto: «Forza Sampdoria».

Genova è una città in cui la Storia si respira ad ogni angolo di strada. L’ enorme centro storico medioevale, la tradizione repubblicana e, soprattutto, l’antico predominio sul Mediterrraneo la rendono un luogo perfetto per esaltare il passato, per lasciarsi cullare in una bolla di nostalgia permanente, una “saudade al pesto” terribile e contemporaneamente bellissima. In duemila anni di vita la Superba, poi, è stata anche luogo di nascita di moltissime cose che oggi riempiono le nostre giornate. Parlo dei blue jeans, della croce di San Giorgio e, soprattutto, del calcio in Italia.

Dire che tifare per il Genoa Cricket and Football Club, fondato nel 1893 prima di ogni altra squadra in Italia, sia quindi una tradizione consolidata all’interno della città è quantomeno riduttivo. Il mio trisnonno andava allo stadio (quando ancora si trovava a Ponte Carrega) all’inizio del ‘900 e così, dopo di lui, tutti gli altri componenti della mia famiglia hanno tifato per il Grifone. Io rappresento la quinta generazione di una passione che non finirà mai, testimone di una Fede secolare di cui, necessariamente, dovrò farmi portatore per le generazioni future.

Se, infatti, in molti possono dire che essere tifosi di una squadra di calcio si possa considerare come una sorta di credo, solo i genoani possono dire di rappresentare una Fede che col calcio non ha nulla, o quasi, da spartire. Sin da quando sono nato, infatti, mio padre mi ha sempre ripetuto insistentemente una cosa:

«Essere Genoani è un po’ come essere Ebrei.»

Una affermazione molto forte, difficile da comprendere per un bambino, che, però, mettendo insieme diversi piani di interpretazione, rende perfettamente il “peso” che si trova a sostenere chi difende i colori rossoblù. Ma spiegamoci meglio.

Il Primo Monoteismo

La Rosa del 1900

In una “provocatoria” dimensione metaforica in cui calcio e religione vanno a sovrapporsi l’uno sull’altro, pensare alle squadre come monoteismi non appare una totale blasfemia. In questa dimensione ebraismo e Genoa possono tranquillamente andare a braccetto potendo vantare una storia ben più antica di tutte le altre fazioni in campo, storia che, perdendosi nell’alba dei tempi da una parte e in una dimensione pionieristica talmente lontana dall’altra, almeno nelle sue origini può rifarsi soltanto a leggende basate più che su effettive prove storiche. Se, infatti, è praticamente impossibile trovare il personaggio di Abramo al di fuori del libro della Genesi, sono pochissime le testimonianze documentali che raccontano i primi anni di vita del Grifone. Leggende tramandate da padre in figlio che hanno dato vita a un Credo unico e difficile da comprendere per i non fedeli. Tutte le professioni nate successivamente possono infatti avvalersi di una base documentaristica molto più elevata e, soprattutto, successi a ripetizione che le hanno portate a uno sviluppo molto più elevato sul globo terraqueo. Questo, a mio modo di vedere, è uno dei motivi per cui è più facile essere cristiani o, soprattutto, tifare “i cugini”.

Il Popolo

Quella volta a Piacenza

Se nazionalità e religione ebraiche sono strettamente correlate e l’ebraismo è la fede tradizionale della nazione ebraica, così è per Genova e il Genoa. Da una parte un popolo “eletto” che, nonostante la perpetua Diaspora, è destinato a tornare nella Terra Santa d’Israele, dall’altra un popolo di marinai e viaggiatori che, indipendentemente da quanto sia distante la Superba, riesce a seguire le gesta del Grifone unito in migliaia di Genoa Club sparsi per tutto il Mondo. Dal Giappone all’Olanda, dall’Africa a Cuba, essere genoani significa essere fratelli, avere miti comuni («Ma tu te lo ricordi “O’Rey di Crocefieschi”?») e esportare il credo. E se, come ovvio, le sfortune, le persecuzioni e i problemi delle due Fedi non possono neanche essere paragonabili tra loro, è interessante notare come, in ambedue le Terre Natali esistano conflitti legati alla difficoltà di convivenza con altre fedi reputate minori.

Il Tempio

Per i Genoani il Luigi Ferraris, intitolato a un calciatore del Grifone dei pionieri morto con valore durante la Prima Guerra Mondiale, non è uno stadio. Quando si va alla partita a Genova, infatti, si va “al Tempio”. Lì la Gradinata Nord non è mica una curva: è un Muro del Pianto.

E pensare che c’è chi lo chiama “Marassi”…

Il Messia

« È la Stella che vogliam… » Uno dei canti più celebri della Fede rossoblù inizia così: invocando un simbolo che rimanda all’ultraterreno, a un punto lontano nel cielo, bellissimo e, per definizione, irraggiungibile. Se, ancora oggi, infatti, gli Ebrei sono in attesa del Messia, i genoani lo sono della Stella. Attualmente, infatti, basterebbe un solo campionato per raggiungere un obiettivo che, nel suo avverarsi, andrebbe a concludere l’esperienza di Fede così come la conosciamo. Per questo motivo, sostanzialmente, il Messia non arriverà mai. Ma essere genoani non ha nulla a che fare col calcio o con il risultato sportivo.

Essere genoani è esaltare nei secoli un gol di Kazu Miura al Derby, chiamare il proprio figlio Thomas o Diego e venire giustamente redarguiti quando si invocano falsi miti ricordandosi di non pronunciare mai più quelle parole profane.

Essere genoani è prima di tutto tradizione.

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