Cosa resterà di noi?

Remo Gilli
Iride Magazine
Published in
4 min readMar 1, 2016
photo Pixabay©

Lo spazio dei ricordi, a differenza dell’Universo, è finito. Nonostante ciò, se non teniamo nulla di ciò che vediamo, scriviamo o sentiamo, rischiamo di non riuscire a colmarlo.

Entrando nella casa di mia nonna, si ha la sensazione di entrare in un piccolo, grande museo. Le mensole e le credenze sono piene zeppe di ninnoli e ricordi di una volta, i muri, invece, sono costellati di fotografie in bianco e nero o a colori, a seconda che siano del bisnonno Prospero o di mio padre quando faceva il militare a Cuneo come Totò.

Quelle foto hanno un valore particolare: sono uniche, esistono solo in quella casa e solo pochi eletti hanno avuto il privilegio, l’onere e l’onore di posarvici sopra gli occhi. Sono esposte come trofei in bella mostra per poter essere ammirate o guardate con malinconia, per trasmettere emozioni, per accendere sorrisi o far cadere -ogni tanto, mentre nessuno guarda- una lacrima dagli occhi di mia nonna, quando vede il volto del nonno da giovane.

Fotografie di battute di caccia, di parenti mai visti prima (presenti alla cena di Natale del ’78), della prima motocicletta di mio zio. Un viaggio nel tempo lungo tutto il corridoio, dagli anni ’50 fino alla laurea di mio cugino di tre anni fa, unica foto digitale stampata per l’occasione. Le altre, invece, sono tutte foto “vecchio stile”: scattate, sviluppate, scelte, incorniciate e appese. Una ad una.

Non si dimentica nulla, a casa di mia nonna. Nulla, fatto salvo ciò di cui ci si vuole dimenticare, o di cui non interessa ricordare. Tutto quel che ha avuto un valore, è rimasto. Il resto si è perso, come è naturale che sia.

In casa mia, non ci sono foto appese al muro. Non scattate da me, almeno. Quelle che ho scattato io negli anni sono al sicuro su Onedrive, oppure fanno bella mostra come sfondo del cellulare, del desktop o in copertina su Facebook. Non so quando e se deciderò di stampare le più belle e significative per poi metterle sul comodino o farne un album dei ricordi, ma se lo facessi ne perderei di sicuro qualcuna tra le migliaia che ogni giorno scatto con il mio Nokia. Perché sì, fotografo qualsiasi cosa e quando voglio mostrare uno scatto in particolare a qualcuno, spesso mi capita di non trovarlo o di metterci interi minuti.

Nel mio cloud c’è di tutto: panorami, selfie, foto mosse, nere o senza un perché, cose di cui non mi interessa, non mi ricordo o non ho piacere di rivedere. Un oceano sconfinato di fotografie nel quale le poche perle presenti non sono che gocce invisibili e irrecuperabili nel giro di pochi anni.

E cosa resterà di me? Cosa resterà di Noi?

Poco o nulla, come diceva Lynne Brindley pochi anni fa dalla British Library, e saremo dimenticati assieme a tante altre testimonianze della nostra epoca digitale, bellissime ma intangibili, eteree e temporanee, che esistono solo su uno schermo o salvate in floppy-disc, CD, USB, hard-disk di memoria, server online… I nostri muri restano sempre più spogli di fotografie, le cassette postali si riempiono dei pacchi di Amazon e non più di lettere — al massimo qualche multa o bolletta — ed i ricordi del vivere dei nostri tempi svaniscono col progredire della tecnologia. Le diapositive, i floppy, le videocassette che abbiamo in casa non sono altro che plastica, se non possediamo gli strumenti per leggerli. Un giorno li cestineremo, tanto sono ingombranti, e perderemo un’altra parte di noi. Documenti, e-mail, studi, appunti… Anche queste sono le vittime del deserto digitale che ci stiamo lasciando dietro, così, tra qualche secolo, sarà quasi impossibile studiare la nostra epoca come noi abbiamo potuto fare con l’antichità.

In questo modo, stiamo eliminando la traccia più importante che l’Uomo sia in grado di lasciare: quella intellettuale. Così come sono arrivati fino a noi le lezioni di Platone, il Milione di Marco Polo e il Mein Kampf di Hitler, così ci sono pervenuti anche gli ultimi pensieri dei condannati a morte durante la Resistenza, i diari di Anne Frank, le lettere scritte dalle più grandi personalità della nostra storia, i giornali coi loro titoli e tante altre cose che ci hanno permesso di conoscere e capire meglio gli eventi del passato.

Se Voltaire avesse avuto virgilio (non il poeta, il servizio e-mail), oggi non avremmo quasi nessuno dei suoi pensieri e forse saremmo un po’ meno illuminati. Per dire.

Per questo motivo dovremmo tornare a stampare le foto e a scrivere di nostro pugno. Non qualsiasi cosa, è chiaro, ma se una fotografia ci piace tanto o significa qualcosa per noi, è bello poterla vedere anche quando non c’è possibilità di connettersi ad un Wi-Fi o la batteria è scarica. Lo stesso vale nelle relazioni con le persone: gli sms ed i messaggi su WhatsApp sono quanto di più comodo sia mai stato creato per comunicare, ma non sono lontanamente paragonabili alle lettere scritte a mano. Sono cose nostre, siamo Noi.

Un giorno saranno l’unica cosa che testimonierà il nostro passaggio sulla Terra e le nostre capacità di esprimerci, amare e soffrire. Saranno i ricordi dei nostri nipoti e pronipoti. Saremo noi i lontani parenti mai visti prima presenti alla cena di Natale del ’16, vestiti da cretini con le mode di quarant’anni fa.

Ma almeno ci saremo ancora, questo è ciò che conta.

Remo Gilli

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