Google sa che ti masturbi “in incognito”

Eugenio Damasio
Iride Magazine
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3 min readApr 24, 2016

Nel settembre del 2004 gli italiani erano ossessionati dalle “tette grosse”. Secondo Google Trends, infatti, quello fu il mese in cui gli italiani si concentrarono maggiormente sull’argomento, agli albori del Web 2.0.

I bambini lo facevano per capire se su Internet ci fosse davvero tutto, gli adolescenti per goliardia e i più maturi perché non conoscevano ancora le infinite potenzialità pornografiche della Rete o perché, semplicemente, ai tempi stavano per diventare “bersaniani”.

Per nessuna categoria anagrafica, però, era bello che, sullo stesso pc dove i tuoi familiari cercavano la ricetta dello zabaione o la traduzione di “Dragostea din tei”, rimanessero tracce di questa azione tanto naturale quanto difficile da digerire all’interno di un ecosistema familiare. Per fortuna, nel 2008, insieme a Chrome è arrivata la navigazione in incognito.

Tutti i maggiori browser in circolazione, infatti, offrono oggi la possibilità di aprire pagine che, quantomeno, non salvino la cronologia delle proprie ricerche: siano le “tette grosse” o “Matteo Salvini”. Quantomeno.

Anche se vostra madre non verrà mai a conoscenza dei vostri istinti edipici, infatti, Google saprà tutto. Quando si supera il livello mammella e si parla di pornografia vera e propria, infatti, la cosa si fa davvero interessante.

Navigando online, anche in incognito, ognuno di noi possiede una impronta digitale fatta di byte e linee di informazione ben delineata e, per questo, è tracciabile più o meno ovunque. Esistono, infatti, moltissimi strumenti offerti da aziende terze, spesso gratuiti, che immagazzinano i dati relativi i comportamenti degli utenti all’interno di un qualsiasi portale che li adopera per migliorarsi e aumentare le proprie funzionalità. Molti tra i più utilizzati, dagli Analytics a DoubleClick, sono di proprietà Google. Le informazioni raccolte in questo modo vengono poi inserite in veri e propri curriculum digitali, vendibili per favorire la perfetta profilazione dell’utente in termini di preferenze di consumo. Secondo un’inchiesta di Vice Motherboard, l’88% dei primi 500 siti pornografici al mondo utilizza strumenti di questo genere. Brett Thomas, l’ingegnere informatico che per primo ha posto grande attenzione su questa vicenda, addirittura, sostiene che:

La prossima grande crisi della privacy online potrebbe essere quella che mostrerebbe dati privati e personali potenzialmente imbarazzanti delle persone del proprio vicinato.

Come ben sanno Jennifer Lawrence o Jessica Alba, coinvolte nel furto di decine di immagini intime finite poi sul sito #TheFappening nel 2014, non sempre le protezioni digitali mantengono la riservatezza promessa (anche se, giusto la scorsa settimana, hanno beccato il guardone virtuale che rubò i loro scatti privati).

Se qualcuno riuscisse ad hackerare Pornhub, infatti, potrebbe accedere potenzialmente a informazioni bastanti a creare un portale dove, semplicemente inserendo la mail o il nome utente Facebook di un utente qualunque, si potrebbe accedere alle sue preferenze più intime. Lo stesso Pornhub che, contemporaneamente e nonostante l’”incognito”, da parte sua ci fornisce periodicamente notizie quali il fatto che in Russia l’argomento che ha visto aumentare di più le visite nel 2015 sia stato “My Little Pony” o che in Armenia “durano” circa sette minuti. Informazioni tanto specifiche e pruriginose da far pensare che, in fondo, far sapere ai propri familiari che nel Settembre 2004 si è cercato “tette grosse” su Google non sia poi tanto male.

Eugenio Damasio

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