Hicham El Guerrouj, il più veloce del mondo

Eugenio Damasio
Iride Magazine
Published in
7 min readAug 17, 2016

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Le Olimpiadi sono bellissime e, come ogni rituale laico, rendono gestibile la scansione del tempo che passa.

Come per i Mondiali di calcio, ma in realtà molto di più: ogni singola gara olimpica può diventare un segnatempo con cui ricostruire la propria storia personale. Tutti, infatti, abbiamo la nostra gara preferita, l’atleta che ci ha fatto emozionare di più, il momento rimasto più impresso nella mente. Oggi vi racconterò la storia del mio preferito, il più grande atleta arabo di sempre: Hicham El Guerrouj.

Ascesa

Un giovane Hicham durante una campestre

Dire Olimpiadi è, prima di tutto, dire atletica. La disciplina sportiva per eccellenza, straordinaria nella capacità di esaltare caratteristiche e qualità fisiche del tutto “naturali”: saltare, lanciare e, soprattutto, correre. Non è pazzesco che, nonostante millenni di sviluppo dei costumi e di rivoluzioni, la corsa rimanga così tanto primordiale ma, contemporaneamente, così tanto esaltante? Tutti, infatti, sappiamo quanto sia bello poter dire “sono più veloce di te”, ma quasi nessuno può permettersi di dire “sono il più veloce del mondo”. Quasi nessuno.

Hicham El Guerrouj nasce nel 1974 a Berkane, una piccola città del Marocco dell’Est. È il terzo di sette figli e i suoi genitori gestiscono una trattoria. Un bambino normale che ama giocare a pallone, stare con gli amici e, soprattutto, correre. Lo fa con naturalezza, per diventare semplicemente il più veloce della scuola, del quartiere, della regione: a vent’anni è il più veloce dell’intero paese. Quando corre Hicham è così bello da vedere, così fluido nel movimento, che limitarlo ai pochi secondi adrenalinici dello sprint sarebbe un peccato capitale. Inizia con le corse campestri e le mezze maratone, trova la sua dimensione sulla pista di atletica e, soprattutto, nel mezzo fondo. Un chilometro, 1500m o un miglio: non fa grande differenza. L’importante per Hicham è riuscire a mettere insieme la voglia di correre il più possibile e quella di non rallentare mai.

Nel 1995, giovanissimo rispetto all’età media tipica della disciplina in cui gareggia, esordisce tra i professionisti. Bastano due gare per far capire a tutti che un berbero alto e magro, dal viso sottile, è pronto a diventare uno dei più grandi protagonisti del mondo dell’atletica: con un’oro e un’argento, vinti tra i mondiali indoor di Barcellona e quelli “veri” di Göteborg, inizia “l’era El Guerrouj”.

Caduta

Fa caldo ad Atlanta la sera del 3 agosto del 1996. È l’ultimo giorno del programma olimpico dell’atletica su pista e, a parte la maratona che, come sempre, chiude i Giochi, soltanto i 1500m non hanno ancora decretato il loro campione. Alla linea di partenza, insieme ad El Guerrouj, stanno il campione olimpico in carica Cacho e il detentore del record del mondo Morceli. L’esperto spagnolo è un mago della tattica mentre l’algerino è un corridore fenomenale, padrone indiscusso della disciplina nei cinque anni precedenti. Tutti gli occhi, però, sono puntati su Hicham. Anche se durante le qualifiche ci si era avvicinati molto a battere il record olimpico, da subito, la gara prende una piega inaspettata: a metà percorso i tempi sono molto bassi e la strategia ha preso il sopravvento. Una tipologia di competizione che a El Guerrouj non piace per niente: ha troppo voglia di correre più veloce degli altri per rimanere intrappolato nel gruppone. Quando mancano pochi metri all’inizio dell’ultimo giro, infatti, Hicham si mette sul lato, esattamente alle spalle di Morceli, pronto per correre i restanti quattrocento metri con un tempo che farebbe invidia a molti specialisti della distanza. Poi, il buio.

Hicham si trova per terra a ruzzolare fuori dalla pista, calpestato dagli inseguitori, con le ginocchia ammaccate e l’anima spezzata. Appena partito con lo scatto, infatti, il tallone di Morceli lo ha colpito in pieno sul menisco facendolo inciampare e cadere rovinosamente a terra. Morceli continua la sua corsa indisturbato e vince l’oro, Hicham riesce a concludere la gara tagliando il traguardo per ultimo, distaccato di oltre duecento metri da tutti gli altri partecipanti.

Per parlare di quella gara El Guerrouj ci metterà anni. Nessuna dichiarazione a caldo, nessuna a freddo. Solo silenzio e fuga di ritorno nella sua Rabat. Nel 1996, però, El Guerrouj è anche molto giovane, sa che il futuro è suo e, soprattutto, sa che è disposto a tutto per tornare a vincere. È così che, proprio a partire dalla caduta delle Olimpiadi americane, El Guerrouj inizia a raddoppiare i propri sforzi. Una vita praticamente monacale divisa tra il centro sportivo federale nella capitale e Ifrane, minuscolo paese della montagna marocchina, dove Hicham passa diversi mesi all’anno e dove anche i pastori berberi lo invocano mentre lo osservano allenarsi sull’altipiano. L’obiettivo è riprendersi ciò che è suo per diritto universale e, soprattutto, spazzare via chi lo ha preceduto a partire propio da Morceli e dai suoi record. Nel giro di tre anni stravince due edizioni dei mondiali e, soprattutto, distrugge il record del mondo sui 1500m, sui 2000m e sul miglio, giusto per sottolineare come, di base, su quella tipologia di distanza il padrone sia uno e uno solo. Oggi, giusto per far capire il livello delle prestazioni offerte, i record perdurano su tutte queste distanze. Il record sul miglio, poi, è il vero e proprio capolavoro di Hicham che fa sua la “distanza dei coloni”, una gara che non è mai stata olimpica ma che rimane profondamente nella tradizione dell’imperialismo britannico.

Alle Olimpiadi del 2000 è il favorito indiscusso nonostante il fatto che, a pochi mesi dall’evento, inizia a soffrire di emorroidi. In quell’avvicinamento olimpico non si percepiva quanto grave fosse la situazione perché, come sempre, Hicham era tranquillo e sorrideva sornione davanti alle telecamere. Si capì che era molto peggio di quello che si pensasse all’ultimo rettilineo della finale. Dopo 1400 metri in prima posizione, gli ultimi cento dovrebbero solo servirti a diventare finalmente il campione olimpico. Ma, ancora una volta, quando si tratta di Olimpiadi, non è così. El Guerrouj arriva secondo, rimontato e superato negli ultimi trenta metri dal keniano Noah Ngeny. Un avversario temibile che, però, fino a quel momento, non aveva mai vinto una gara quando sulla pista insieme a lui correva Hicham.

Gloria

Atene 2004

Ho sempre amato l’atletica alle Olimpiadi perché per me hanno sempre significato una cosa sola: serata sul divano con papà che ti spiega perché, e quanto sia straordinario, correre i 1500 metri stando sotto ai 3’30’’. La prima edizione in cui, oltre a rimanere affascinato dai racconti tecnici di mio padre, mi ricordo anche molto bene le gare, è senza dubbio Atene 2004. L’ultima edizione dei Giochi prima della crisi, uno spartiacque per il Paese ospitante e per l’Europa intera. Quanto era diverso il mondo nel 2004? Io, ad esempio, avevo undici anni e passavo le giornate a Spotorno, nella riviera ligure, a snobbare il mare per riuscire a vedere tutte le competizioni sportive possibili. Ricordo la beffa di Jury Chechi, il capolavoro dell’ItalBasket e, soprattutto, ricordo Hicham El Guerrouj. L’eleganza con cui si prendeva la pista unita alla apparente mancanza di fatica nel concludere la gara lo rendevano superumano anche agli occhi di un bambino. La prova vivente che anche nel fare la cosa più naturale del mondo, correre, tu possa essere diverso da tutti gli altri elevando il tuo gesto a qualcosa di ipnotico e superiore.

La finale dei 1500m è il 24 luglio, il sabato sera, assoluta protagonista di tutto il programma olimpico di giornata. Li vedo mettersi sulla linea di partenza, uomini lunghi e magri, tesi e con gli occhi che dicono ansia. Un gruppo indistinto da cui spiccano, perché inquadrati più a lungo e in primo piano, un ragazzo olivastro più alto degli altri e con la sopracciglia folte e uno colore dell’ebano, completamente pelato, ha gli occhi nerissimi. Le loro divise sono speculari, rosso su verde e verde su rosso, i loro sguardi simili, attenti.

«Vediamo se ci riesce questa volta»

«Ma chi? Chi è quello là?»

«Beh… è El Guerrouj, il più veloce di tutti»

Lo sparo e lo scatto simultaneo. Dopo cento metri, davanti a tutti gli altri, ci sono i due gruppetti dalle divise speculari che hanno preso la testa e procedono “a trenino”, uno dopo l’altro, dandosi il cambio per mantenere un ritmo elevato.

«Lagat, che è il keniano, la butta sulla tattica per giocarsela all’ultimo giro»

mi dice mio padre, preoccupato. I rosso-verdi, infatti, bloccano la corsa degli altri facendo uno scudo compatto. Come Morceli e gli algerini ad Atlanta ’96. Dietro i marocchini e il gruppo che, dopo un giro e mezzo, è già molto distanziato. All’inizio del secondo giro, però, El Guerrouj prende il largo, supera cinque corridori e inizia a correre. Non che prima stesse passeggiando, ma come corre lui non corre nessuno altro su quella pista. Falcate sempre più ampie, leggere, bellissime. Quando manca un giro e suona la campana, davanti a tutti sono rimasti solo Lagat e El Guerrouj. La progressione diventa uno scatto, il ritmo cambia ancora, frenetico. Il telecronista alza il tono di voce. È un momento importante perché anche mio padre è in piedi. Manca mezzo giro e ormai sono spalla contro spalla, sull’ultima curva si sfiorano. All’ingresso del rettilineo, Lagat lo supera e sembra averne di più. Come Ngeny a Sidney 2000.

Ho passato tutto il resto dell’estate a correre sulla battigia, da molo a molo, buttandomi in acqua all’arrivo che, in un modo o nell’altro, stava sempre dove si mettevano i miei genitori con l’asciugamano. Quando uscivo dall’acqua mi avvolgevo con un asciugamano rosso intorno alle spalle, puntavo le dita verso il cielo e gridavo

«Il più veloce del mondo! El Guerrouj, El Guerrouj, El Guerrouj! »

https://www.youtube.com/watch?v=iQIOh8FaAbI

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