Il Kintsugi e le cicatrici d’oro

quando la perfezione è imperfezione

Giulia Viganò
Iride Magazine
3 min readMar 5, 2016

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Images Bernardaud©

Viviamo nell’epoca dell’usa e getta, della velocità, e dell’amore per il nuovo. Ci siamo abituati che, se un oggetto si rompe, semplicemente si raccolgono i cocci e li si buttano via. E’ raro che proviamo a ricomporlo; e quando ci proviamo, cerchiamo di farlo nascondendo le fratture e le crepe che ne svelano la mancata integrità. E’ strano pensare che esiste una pratica giapponese, il Kintsugi (金継ぎ)​,​ o Kintsukuroi​ ( 金 繕 い ), ​ che fa esattamente l’opposto.

Letteralmente Kintsugi significa “riparare con l’oro”. Nel concreto, si tratta di una particolare tecnica di riparazione che utilizza un impasto di materiali preziosi, cera e colla di riso, senza preoccuparsi di fare un incollaggio perfetto e coprente delle linee di frattura. Anziché nascondere le imperfezioni e crepe dell’oggetto, questa tecnica le esalta e le valorizza riempiendole con l’oro.

La pratica del Kintsugi ha origini antichissime che risalgono al XV secolo. Secondo la leggenda, lo shogun Ashikaga Yoshimasa rispedì in Cina alcune teiere danneggiate perfarle riparare. I cocci gli vennero restituiti tenuti insieme da orribili ­ e pure poco funzionali cuciture di metallo. Lo shogun, insoddisfatto, decise allora di farla riparare da alcuni artigiani giapponesi i quali riempirono le crepe con resina laccata e polvere d’oro, senza nascondere le imperfezioni dell’oggetto. La teiera ritornò al suo proprietario più bella, più preziosa e con una storia da raccontare.
Quest’arte è stata tramandata di generazione in generazione, ed è tuttora molto diffusa in Giappone dove esistono laboratori esclusivamente dedicati al Kintsugi. Si narra, addirittura, che alcuni collezionisti abbiano deliberatamente frantumato alcune ceramiche antiche e di valore per farle riparare in oro.

Kintsugi at Pitt Rivers Museum — Oxford

L’idea che dall’imperfezione possa nascere qualcosa di bello e unico ha le sue radici nella tradizione culturale del Giappone. La transitorietà delle cose, l’idea del tempo come flusso indistinto e spontaneo sono infatti principi alla base di tutta la dottrina buddhista giapponese. Secondo questa filosofia, poiché la realtà è in continuo cambiamento, noi dobbiamo saper accettare, o meglio ammirare, la permanenza delle cose e la loro inevitabilità fragilità. ​

Nel Namporoku (1690), una collezione di detti del monaco buddista zen e maestrodelte’Senno Rikyu, leggiamo:​

«Nella piccola [sala] da te’, e’ auspicabile che ogni attrezzo sia meno che adeguato. Ci sono quelli che non amano un oggetto quando e’ anche solo leggermente danneggiato, un simile atteggiamento dimostra una completa mancanza di comprensione».

Addirittura il Wabi­Sabi (侘寂), una particolare estetica e visione del mondo giapponese, sostiene che il concetto di bellezza stia proprio nell’imperfezione delle cose. Come sintetizza lo studioso ​Richard R. Powell,

​«Il Wabi­Sabi nutre tutto ciò che è autentico accettando tre semplici verità: nulla dura, nulla è finito, nulla è perfetto».

Oro al posto della colla, errori come opportunità e accettazione dell’imperfezione. ­Sarebbe bello prendere esempio dai principi del Kintsugi e dall’estetica Giapponese.

A ben pensarci, il vaso, con le sue crepe, è davvero una perfetta metafora della vita: mai lineare ma ricca di spaccature, fratture e scissioni. E sono tutte queste imperfezioni a renderci unici, proprio come le ferite di un guerriero sono la dimostrazione del suo valore in guerra. Dovremmo forse provare a mettere da parte la nostra ossessione del perfetto perché, come disse il critico d’arte John Ruskin:​

«L’imperfezione è in qualche modo essenziale per tutto ciò che sappiamo della vita. E’ il segno della vita in un corpo mortale, vale a dire, di uno stato di progresso e cambiamento».

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Giulia Viganò
Iride Magazine

“Inventiamo storie per poter vivere in qualche modo le molte vite che vorremmo avere quando invece ne abbiamo a disposizione una sola” — M. V. Llosa