Il musictelling: intrecci tra musica e vita.

Intervista a Federico Sacchi, il giovane torinese che ha inventato un nuovo modo di raccontare con immagini e suoni.

Marco Bonadonna
Iride Magazine
6 min readJun 17, 2016

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Federico Sacchi

Nato ad Asti nel 1978, grafico di formazione ma capisce ben presto che quella non è la sua strada e inizia a fare il mercante di dischi. Da Asti alla Fnac di Via Roma a Torino. Per 8 anni è il responsabile del reparto dischi Fnac. Molla tutto sul più bello avvertendo già la chiusura ormai imminente del negozio. A dicembre 2013 inizia col suo primo evento d’ascolto, con grande successo arriva al Salone del Libro nel 2016.

Come definiresti il lavoro del “musicteller” e come si arriva al Salone del Libro?

Il musicteller fa delle performance di divulgazione e storytelling, dedicate a intrecci tra musica e vita. Partendo da artisti e dischi che hanno generato e ispirato rivoluzioni e movimenti culturali.

La storia di Wonderful Visions che arriva al Salone del Libro è un po’ una favola.

Wonderful Visions: il sogno di Martin Luther King secondo Stevie Wonder

Il seme di questo spettacolo e di un altro spettacolo, Hidden Roots: Gil Scott-Heron e le radici dell’Hip Hop, è stato piantato 2 anni fa esatti al Salone del Libro. Io mi trovavo lì per fare la presentazione del FuoriLuogoFestival, festival di cui faccio la consulenza musicale, e quando stavo andando via dalla presentazione ho visto una gigantografia di Gil Scott-Heron, mi sono avvicinato allo stand e ho detto alla ragazza che era lì che conoscevo il libro, The Last Holiday: A Memoir, e che avevano avuto un coraggio da leoni ad averlo tradotto.

Hidden Roots: Gil Scott-Heron e le radici dell’Hip Hop

Dopo aver scritto Hidden Roots: Gil Scott-Heron e le radici dell’Hip Hop per un evento di tre giorni sulla cultura Hip Hop, Rap: potere alla parola, organizzato da Il Circolo dei lettori, mi sono ritrovato a rileggere il libro per l’ennesima volta ed è spuntato in me quel seme. Si è creata un’altra cosa nella mia testa, facendo i conti mi sono accorto che il 15 gennaio 2016 sarebbero stati i 30 anni dal primo Martin Luther King Day, che è stato nel gennaio del 1986. Quindi ho deciso per celebrare il trentennale del Martin Luther King Day di scrivere questo mostro, perché appunto sono 3 episodi da 70 minuti l’uno, uno spettacolo di 3 ore e 30 minuti, sono visibili indipendentemente ma è un racconto unico per mettere in relazione la figura di King e di Wonder.

The Last Holiday: A Memoir.

Allora, il libro è un romanzo di formazione scritto da Gil Scott-Heron, intellettuale afro-americano negli anni ’70 fino ai 2000, negli anni ’70 è sicuramente la voce più autorevole tra gli afro-americani, lui è un poeta, scrittore e musicista, è l’autore di un pezzo mitico, The Revolution Will Not Be Televised, in cui sostiene che la rivoluzione non verrà trasmessa in televisione ma la rivoluzione sarà dal vivo. Esorta quindi gli americani a non farsi lobotomizzare dal piccolo schermo e scendere in strada per riprendersi la loro vita.

Il motivo vero per cui scrive quel libro e il tema del libro è questo: lui si trova ad essere testimone oculare del tour dell’estate del 1980. Stevie Wonder va in televisione a Twenty Twenty, talk-show importante negli Stati Uniti, e annuncia che uscirà il suo album, Hotter than July, e farà un tour di supporto a questo disco per chiedere che venga promulgata una legge per far sì che il giorno del compleanno di Martin Luther King, il 15 gennaio, diventi festa nazionale.

Antefatto: quel disegno di legge è fermo da 12 anni al Congresso degli Stati Uniti, non riescono a farlo andare avanti. Il giorno del funerale ad Atlanta del dottor King, Stevie Wonder è presente, ha 18 anni, e incontra John Conyers, delegato del Black Caucus, il quale gli dice di aver presentato un disegno di legge il giorno precedente per chiedere una festa per il dottor King, che è stato assassinato.

Come si è evoluto quindi quel seme nel cuore di Wonder?

Dodici anni dopo quel seme piantato il giorno del funerale nel cuore di Wonder, il quale ha creato una sua visione del sogno di King nella sua musica, arriva nel 1980 quando Conyers torna da Wonder e gli dice che tutti lo rispettano, anche i bianchi, e se prendesse posizione su questa cosa potrebbe essere determinante. E lui lo fa: scrive una canzone, Happy Birthday, molto giusta per quel momento storico per veicolare un messaggio forte, cioè che ci vuole una festa per il dottor King.

Annuncia la sua tournée da settembre a dicembre e successivamente chiama la gente a fare una marcia su Washington per chiedere una festa per Martin Luther King. Heron si trova ad essere invitato da Wonder per fare la tournée insieme: le prime 8 date insieme a lui e il resto del tour con Bob Marley. Arrivano alla terza data e arriva la notizia che Bob Marley è stato ricoverato a Sloan Kettering, all’epoca il più importante centro di cura del cancro al mondo. Marley entra lì dentro e non ne esce più.

Si creano quindi le condizioni perché Heron faccia tutto il tour: Wonder si impone col suo management perché sia Heron a continuare, fino alla marcia conclusiva su Washington. Pertanto Heron si trova ad essere il testimone oculare di quel tour e di quella marcia, facendo crescere in lui il desiderio di scrivere un resoconto oggettivo di quello che è successo, perché nei fatti anche negli Stati Uniti stessi pochissimi sanno che se esiste un Martin Luther King Day, il merito è di Stevie Wonder: è grazie a quella marcia del 1981 se il presidente Ronald Reagan, diciotto mesi dopo, firma la legge che istituisce la festa nazionale dedicata al Reverendo.

Ronald Reagan firma la legge che istituì il Martin Luther King Day (1983)

Prima di fare il “musicteller” eri un mercante di dischi, dove hai lavorato?

Ho lavorato per 5 anni ad Asti, nel negozio più grande di dischi che c’era all’epoca. Poi sono tornato a Torino e ho lavorato al reparto dischi della Fnac di Via Roma e per 8 anni ne sono stato il responsabile.

Dal 2009 al 2013, il negozio di Torino è stato il negozio di dischi che ha fatturato di più in tutta Italia, non tra tutte le Fnac ma tra tutti i negozi di dischi d’Italia.

Pertanto come hai strutturato la vendita alla Fnac?

Con la passione, bisogna avere una certa visione nel vendere i dischi: vendere dischi non è solo vendere un prodotto, come per i libri anche i dischi sono opere d’arte. Per il nostro paese è un po’ difficile capire questo concetto, però se li vendi in quel modo e strutturi le proposte alla clientela in un certo modo, unendo la grande visibilità del posto, riesci ad arrivare a molta più gente.

Eravamo un grande negozio ma con l’atmosfera della piccola bottega.

Il tuo lavoro alla Fnac si può dire che è stato uno step che ti ha aiutato a diventare “musicteller”?

Assolutamente sì. Ti porto un esempio: a Natale 2008 esce per un’etichetta francese il disco di un cantautore del Burkina Faso che si chiama Victor Demé, questo signore debutta a 63 anni. L’album è meraviglioso, me ne innamoro e decido di scrivere una recensione e di attaccarla a una delle colonnine d’ascolto della Fnac. Si trattava di mini-racconti con cui presentavamo alcuni album speciali. A volte naturalmente li consigliavamo anche a voce ai clienti.

Allora di quel disco ne vendiamo indicativamente 120 copie, un’enormità per un artista che nessuno conosce. Come dimostra il fatto che in tutti gli altri negozi d’Italia ne hanno vendute appena sedici.

Victor Demé — Victor Demé (2008)

Quell’esperienza mi ha fatto capire che si poteva andare anche oltre. Nel seminterrato di un negozio di dischi ti confronti con qualche migliaia di persone ogni anno. Se vai in mezzo alla gente, provando a raccontare certe cose, codificandole attraverso un tuo linguaggio personale, puntando a diffondere una certa idea di bellezza, potenzialmente il pubblico si moltiplica in modo esponenziale. Ci voleva un grande atto di coraggio, certo. Ma non provarci non avrebbe avuto senso.

Marco Bonadonna

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