L’ Amore che non osa pronunciare il suo nome

La condanna e la pena di Oscar Wilde

Simona Raimondo
Iride Magazine
4 min readMay 25, 2016

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Oscar Wilde e Alfred Douglas detto Bosie

Non ci sono orologi all’interno della cella in cui l’hanno rinchiuso, né luci che rischiarino il buio, né coperte per proteggersi dal freddo; solo una piccola finestra chiusa da sbarre di ferro e la branda nuda su cui è seduto da quando la guardia carceraria l’ha spinto dentro senza alcun garbo. Quanto tempo è passato da allora? Un’ora? Una vita intera? Il prigioniero non sa dirlo, solo, capisce che fuori è ancora giorno -quel maledetto giorno- dalla sottile striscia di luce che, attraverso le sbarre, raggiunge il pavimento di pietra.

«Guardia, una guardia per carità»

Una supplica disperata, venuta fuori dalla gola all’improvviso, un lamento che il prigioniero si trova a ripetere ancora due volte mentre si tira su per raggiungere le sbarre che fanno da porta a quella che per due anni sarà la sua abitazione.

«Cosa c’è, Wilde, cosa volete?»

Una guardia, accorsa al richiamo del prigioniero per paura che stesse cercando di togliersi la vita, si affaccia oltre le sbarre, stizzita nel constatare di aver corso inutilmente.

Oscar e Bosie

«Della carta ed un calamaio, siate gentile», è la preghiera del detenuto. La guardia lo fissa per un istante, spiazzata da quella richiesta che in principio gli pare assurda, poi si volta senza dire nulla e si allontana; alle sue spalle l’uomo rinchiuso in cella grida ancora con voce implorante che gli venga portata della carta. Passano alcuni minuti e la guardia, sempre più infastidita, ritorna porgendogli un pennino sottile ed un pezzo di carta strappato al fondo.

«Fatevela bastare»

«Grazie, grazie di cuore»

A preghiera esaudita, il prigioniero torna a sedersi sulla branda, il pezzo di carta sulle ginocchia e il pennino pronto.

Reading, Berkshire,

25 maggio 1895

Caro Bosie,

siamo lontani da poche ore, eppure temo già che l’incrociarsi dei nostri sguardi mentre venivo trascinato via dall’aula di tribunale sarà per noi l’ultimo incontro, e temo, ancor più che su di me, quali saranno gli effetti che questi due lunghi anni di prigionia cui sono stato condannato, avranno su di te. Sei libero da sbarre e catene, è vero, ma sarai da solo ad affrontare tuo padre e la sua stupidità, la meschinità di una società che non ci accetta, la cecità di un’Inghilterra non ancora pronta per ciò che siamo e preferisce condannarmi come mostro senza pudore né morale: l’Amore che non osa pronunciare il suo nome, questo siamo io e te insieme, Bosie, pure se quel giudice col cuore avvizzito ha preferito non accettarlo. “L’amore naturale è quello tra un giovane ed una giovane”, ha sentenziato, un amore giusto per come l’amore dovrebbe essere.

Eppure, se non con la parola amore, come chiameresti tu, mio caro, il sentimento che ci unisce? L’ Amore che non osa dire il suo nome in questo secolo, non può forse essere il grande affetto di un uomo anziano nei confronti di un giovane? Lo stesso che Platone pose alla base della sua filosofia? Lo stesso che si può trovare nei sonetti di Shakespeare? Per me la risposta non può essere che sì, e so che il tuo pensiero si lega al mio. So che per questo, come me, sopporterai ed attenderai, e se ti scrivo queste righe, adesso, è per darti il coraggio necessario ad affrontare quest’attesa a cui ci condannano, a difendere questo amore che esiste ed è forte, ostinato e vero nonostante il divieto di pronunciarlo. Aspettami Bosie adorato, la separazione non è che un’illusione.

Tuo, in eterno,

Oscar

È notte quando il prigioniero finisce di scrivere, la prima delle interminabili notti solitarie che lo attendono dentro quella cella, lontano dall’uomo che ama e che lo ama; dalla finestrella che illuminava la cella all’inizio, non entra più alcuna luce. Ancora uno sguardo verso la libertà oltre le sbarre, poi la stanchezza ed il dolore per la condanna finiscono per avere la meglio: due anni di carcere e lavori forzati perché giudicato colpevole di sodomia. “Colpevole di aver dato un nome a quell’amore che ancora nessuno ha il coraggio di accettare, di questo soltanto sono colpevole, di questo e della mia onestà”, è l’ultimo pensiero prima di addormentarsi.

Simona Raimondo

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