Nella Rete dell’odio

Dove i sentimenti si amplificano in un click

Iride Magazine
Iride Magazine
5 min readJan 5, 2017

--

Nel maggio 2013 Facebook supera il miliardo di utenti registrati nel mondo, diventando dimora stabile delle nostre vite virtuali. Oggi è uno strumento potentissimo in cui i nativi digitali sanno muoversi benissimo ed esprimersi a pieno.

Come ogni sentimento umano reale trova la sua espressione virtuale nel web, così l’odio non è esime da tale meccanismo. Hate speech è il termine coniato negli Usa che definisce i discorsi di incitamento all’odio e che in Italia si ritrova nella stragrande maggioranza dei casi abbinato all’ambiente del Web: è il linguaggio della discriminazione razziale, sessuale, culturale. Come prevenire il dilagare dell’odio 2.0? Difficile dirlo. Esistono figure pagate per moderare le piazze virtuali che oggi sono pressoché ovunque. Nelle testate giornalistiche on-line più autorevoli e seguite, troviamo spazio per commenti e interazione tra utenti. I moderatori esistono e lavorano incessantemente, ma dove si pone il confine tra buonsenso e censura? Quello della libertà di espressione è un diritto che nella Rete trova la sua massima espressione, accendendo però i riflettori sulla evidente lacuna legislativa in merito.

In Italia una legge che punisce l’incitamento alla discriminazione razziale e religiosa è stata emanata nel 1993; la cosiddetta legge Mancino però è debole oggi, incapace di far fronte alla situazione attuale, che necessita di norme specifiche e più attuali comprendendo le discriminazioni di genere e punendo l’omofobia, ad esempio. La legge in questione, promossa dal segretario del PD Ivan Scalfarotto, esiste ed è stata approvata dalla camera il 20 settembre 2013, ma non è mai arrivata alla discussione in Senato.

Di casi celebri di incitazione all’odio e linguaggio violento potremmo fare una lunga lista. Uno dei più significativi e mediaticamente di impatto fu quello del “caso Bersani”. L’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, colpito da un grave malore nel gennaio 2014, fu oggetto di commenti che esprimevano contentezza per “la buona notizia”, mentre altri arrivavano ad augurargli la morte.

L’impressione è che in Rete tutto sia legittimo. Come se valesse meno una conversazione virtuale di una reale. Forse sarebbe vero se gli interlocutori fossero avatar che discutono delle loro vite di finzione, ma così non è. Al centro dei loro discorsi di odio, ci sono persone reali. Talvolta quando si parla di un personaggio, definito pubblico, egli perde il rispetto e la sensibilità che invece merita ogni persona. Nel contesto virtuale in cui a interagire sono i nostri alterego virtuali, e siamo tutti personaggi, è quindi molto facile confondere e fondere i concetti.

La società liquida, infatti, porta con sé il grande privilegio, ed al contempo il grande pericolo, della depersonalizzazione dell’individuo. Si gioca alla rinascita, alla chance di diventare qualunque cosa si voglia, senza alcuno sforzo ed in qualunque momento. E questa non è solo un’ipotesi che fluttua come illazione nello sconfinato mondo delle culture digitali, ma una comprovata teoria su cui dibattono gli psicologi sociali che prende il nome di “Online disinhibition effect”. La possibilità di anonimato permette al singolo di applicare alla vita cibernetica un atteggiamento talvolta completamente opposto alla spontanea interazione quotidiana; eliminando il contatto faccia-a-faccia il comportamento si estremizza, con la stessa percentuale di probabilità, in positivo oppure in negativo.

Perché se da un lato l’idea di non essere visti, di fare parte di un innocuo universo parallelo, può rassicurare e spingere l’essere umano ad accentuare le proprie carenze in senso benigno — provando empatia per gli altri o semplicemente interessandosi appassionatamente a qualsivoglia argomento — l’altro lato della medaglia vede un inasprimento delle tendenze negative. L’acutizzarsi di questo fenomeno è inoltre favorito dalla struttura dei social media che, a partire dal marketing, tendono ad attirare l’utente verso una parte della rete disegnata sui suoi interessi e le sue convinzioni. Zygmunt Bauman, uno dei massimi interpreti della società odierna, riassume perfettamente il ruolo attribuito ai social che di per sé non hanno una connotazione negativa, ma vengono utilizzati dagli utenti in maniera limitante rispetto alle più ampie possibilità insite nello strumento. Invece di instaurare un dialogo costruttivo tra diversità, si finisce per ricercare il consenso virtuale di chi già la pensa come noi, per arruolare adepti in una crociata 2.0 contro chi dissente.

Molte persone usano i social network non per unire e per ampliare i propri orizzonti, ma piuttosto, per bloccarli in quelle che chiamo zone di comfort, dove l’unico suono che sentono è l’eco della propria voce, dove tutto quello che vedono sono i riflessi del proprio volto.

In questo modo, la piazza virtuale, diviene possibilità di riverbero di un coro che grida all’odio e che talvolta permette a gruppi inneggianti all’azione violenta di organizzarsi attivamente sul territorio, quello reale.
Come Daryush Valizadeh detto Roosh V, che sul suo blog xenofobo ha organizzato circa 165 incontri in 43 differenti paesi dedicati allo “Stupro Legale” di donne. Come il gruppo facebook “Sei di Goro se…” attraverso il quale gli abitanti del paesino in provincia di Ferrara rivendicavano le loro azioni contro i 12 migranti che avrebbero dovuto ospitare.

Come ogni giorno il web diviene bacino di reclutamento di numerosi giovani alienati, perfetti candidati ad un processo di radicalizzazione religiosa. Non è dunque pericolosa, in termini di effetti dispiegati sulla società attuale, questa influente presa che internet esercita, in modo sempre più crescente, sulla cultura di massa? Forse facevano bene a preoccuparsi gli apocalittici di internet, quei sociologi dei media che avevano previsto una regressione di massa, un’incapacità di giudizio collettiva, un generalizzato asservimento alla parola dei mass-media.

E adesso che siamo immersi fino al collo nell’epoca della democratizzazione dei regimi autoritari, l’epoca in cui si vota un presidente se ci piace la GIF che lo ritrae, non possiamo certo dire che non ci abbiano provato ad avvertire.

Lorenza Pensato

Grazia Tomassetti

--

--