Quando è il momento di ribellarsi alla tradizione

Il progetto multimediale UNCUT sulle mutilazioni genitali femminili raccoglie le testimonianze delle donne che combattono per un futuro diverso

Claire Power
Iride Magazine
6 min readJul 22, 2016

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L’arbusto di Qodax. Le spine di questa pianta selvatica vengono usate come aghi per la cucitura della vagina nella pratica dell’infibulazione. Somaliland, 2015. Foto di Simona Ghizzoni

La stampa davanti ai miei occhi inquadra nient’altro che un arbusto. I rami rozzi del qodax girano, si contorcono spingendo aculei bianchi in tutte le direzioni.

Rabbrividisco.

Anche le piante più ostili trovano per la razza umana utilità impensate.

Le spine di questo particolare cespuglio, ad esempio, vengono usate in alcune comunità per tenere uniti i lembi di una ferita speciale, giusto per qualche settimana, finché non si rimargina, creando una spessa cicatrice scura.

Un segno permanente del taglio imposto a bambine e ragazzine per rimuovere il clitoride, le piccole labbra e le grandi, e poi chiuderle quasi completamente fino alla prima notte di nozze.

L’infibulazione è il più estremo di quattro tipi di Mutilazione Genitale Femminile (MGF), riconosciuta nel 1993 dalla Conferenza Mondiale dei Diritti Umani a Vienna come una delle forme più brutali di violenza di genere. La MGF nelle sue varie forme (dalla rimozione totale e parziale del clitoride, al raschiamento delle piccole e grandi labbra, fino all’infibulazione) è un tradizionale rito di passaggio che riguarda oltre 125 milioni di donne nel mondo, concentrandosi in 29 paesi situati prevalentemente in Africa. In Somalia e Somaliland, si stima che il 98% delle donne abbia subito l’infibulazione, mentre inaspettatamente l’Egitto detiene il primato mondiale per numero di vittime di MGF, circa 27,2 milioni.

E con i flussi migratori degli ultimi decenni, il fenomeno ora riguarda anche l’Italia dove circa 35.000 donne hanno subito una forma di MGF e tra le 1.100 e le 7.700 bambine sono a rischio di avere la procedura effettuata illegalmente nella penisola o durante visite al paese di origine.

Incontro con Emanuela Zuccalà e Simona Ghizzoni (a destra) mediato da Renata Ferri, foto editor per IoDonna.

Ed è da due donne italiane che arriva Uncut (in mostra fino al 2 Ottobre al festival internazionale di fotografia Cortona on the Move), un progetto fotografico e videodocumentario fondato su un’approfondita inchiesta di data-journalism. Emanuela Zuccalà e Simona Ghizzoni hanno intrapreso un viaggio in Etiopia, Kenya e Somalia per raccogliere le testimonianze delle donne vittime, spesso carnefici e primo motore della lotta alle MGF.

Le foto del progetto Uncut affrontano il tema cruento con delicatezza, favorendo, alla sensazionalizzazione della violenza che lo sguardo desensitizzato evita di ricordare, scatti dal soggetto allusivo. Gli aghi del qodax si sono impressi nella memoria più come sensazione della carne che attraverso gli occhi.

Protagoniste indiscusse del reportage le donne che combattono contro la tradizione delle MGF: dalle ragazze fuggite di casa per evitare la circoncisione o un matrimonio combinato, alle volontarie di organizzazioni locali, alle ex-tagliatrici che hanno rinunciato ad un introito stabile e ora sono in prima linea per la sensibilizzazione delle loro vicine.

Nimco Yousuf Omar, 35 anni, ex tagliatrice. Daami area, Hargeisa. Somaliland, 2015. Foto di Simona Ghizzoni

La fronte corrucciata di Nimco in piedi davanti ad una capanna mi ha dato subito un’impressione di durezza. Dopo aver letto la didascalia “ex-tagliatrice”, il mio giudizio si è intensificato. “Che donna cattiva”, ho pensato. Chissà da quante bambine avrà tratto sangue mentre le madri le tenevano ferme e bloccate sul letto di una capanna scura. Come è possibile che, avendo provato il dolore del taglio sul proprio corpo, e conseguentemente quello della prima notte di nozze e poi quello del parto, infliggano la stessa pena alle loro figlie e nipoti e vicine?

La poetessa somala Dahabo Ali Muse raccontando dell’infibulazione in una poesia del 1988, ricorda le parole della nonna per descrivere quei momenti proprio come i “tre dolori femminili”. “È solo dolore femminile”, aggiunge.

Una ferita ineluttabile da accettare come parte intrinseca della condizione femminile. Infatti, questo rito di passaggio, cioè teso a definire un cambiamento nell’identità sociale, trasforma la bambina in una donna, non soltanto metaforicamente ma proprio fisicamente. Attraverso la rimozione dei genitali esterni “maschili” si eliminano gli elementi androgini per “fare” una donna. Le ragazze che rifiutano il rito sono condannate ad uno stato bambinesco e, nel rimanere aperte, considerate donnacce, impure.

Bisogna comprendere che, nonostante non sia sempre apparente, il “genere” è un concetto fluido definito arbitrariamente all’interno di ciascuna cultura. Un esempio banale: in Italia associamo il rosa al “femminile” e il “blu” al maschile, ma nessuno di questi colori è essenzialmente l’uno o l’altro. Chi contravviene alla corretta assegnazione viene ridicolizzato (considerato “maschiaccio” o “femminuccia”), un espediente efficiente per prevenire la riproduzione del comportamento sconveniente.

La tradizione della circoncisione femminile si inserisce, sebbene in modi differenti, all’interno di sistemi sociali ed economici in cui la verginità è il valore di scambio del contratto matrimoniale. Le ragazze, spesso molto giovani, vengono date in moglie in cambio di una dote in bestiame per la propria famiglia. La MGF dovrebbe garantire l’integrità della donna, difenderla dalla violenza degli impulsi maschili (non matrimoniali) e dai propri desideri sessuali. Un taglio ed ecco assicurata una donna femminile, in quanto umile e fedele. Le ragazze e le famiglie che si ribellano rischiano sia l’esclusione sociale che proventi mancati a causa della dote venuta meno.

Un’adolescente in travaglio all’ospedale universitario Edna Adan ad Hargeisa. Le MGF provocano un travaglio prolungato e rappresentano una delle prime cause di mortalità materno-infantile in Somaliland. 2015. Foto di Simona Ghizzoni

In un tale sistema di pensiero il rito naturalizza la subordinazione e la repressione sessuale della donna rendendo “invisibile” la cruda violenza esercitata sulle bambine inermi e normale il dolore come parte essenziale della condizione femminile. E in questo contesto, il lavoro di tagliatrice è un servizio utile alla società e alle bambine stesse.

Ma tramite l’opera di sensibilizzazione e informazione condotta dalle organizzazioni locali sulle conseguenze delle mutilazioni sia psicologiche che fisiche (infezioni, rapporti dolorosi, fistole, aumento del tasso di mortalità durante il parto sia per la madre che per il figlio) molte donne riconoscono il trauma di una tradizione patriarcale e oppressiva. Ed è anche grazie a questa consapevolezza che donne come Nimco lasciano alle spalle il loro lavoro.

Ex-tagliatrice. Il mio pregiudizio aveva impedito che prendessi in considerazione la sillaba “ex”.

E così, invece di accogliere l’ambivalenza del ritratto, avevo voluto definirlo con giudizio assolutistico.

Cattiva, ho pensato.

Fin quando le video interviste e i testi non hanno aperto una piccola finestra interpretativa che, senza mettere in discussione un’inflessibile opposizione al fenomeno, fanno trasparire almeno una visione alternativa del mondo in cui l’atto possa avere senso.

I testi diventano in questo modo una guida per l’osservatore e il suo pregiudizio, lasciando alla fotografia una delle sue caratteristiche essenziali: l’ambiguità.

Sadia Abdi, direttrice di ActionAid Somaliland e attivista contro le MGF nel suo Paese. 2015. Foto di Simona Ghizzoni

Testi e foto nella mostra si arricchiscono a vicenda, offrendo da un lato un’immagine generale della complessità del fenomeno e dall’altro la fisicità e individualità che lo rendono reale. Il semplice ritratto di Sadia Abdi, direttrice ActionAid Somaliland, una donna di una bellezza straordinaria che regge il capo alto e sereno, viene esaltato dalla sua intervista che dona anche ai dettagli più minuti significato simbolico.

«Finora non ho nemmeno fatto il buco nell’orecchio a mia figlia, se lei lo deciderà, per me andrà bene, ma non voglio infliggere alcun dolore al suo corpo, per nessuna ragione. Sarà lei a decidere, per ora lei resta intatta completamente».

La piccola perla luminosa nel lobo di Sadia si staglia a emblema di un’autodeterminazione sociale che passa anche e soprattutto per il corpo, permessa dalla lotta quotidiana di una sorellanza in formazione.

Grazie al coraggio e all’orgoglio di queste donne si può cominciare a immaginare una nuova tradizione che guardi al futuro di una società fondata sull’eguaglianza di genere. Per esempio, l’Amref, un’organizzazione internazionale che promuove il diritto alla salute in Africa, sostiene in Kenya un rituale di passaggio alternativo, simile a quello tradizionale, che includa danze e canti ma senza il taglio. Nei giorni precedenti, le ragazze ricevono lezioni di educazione alla sessualità, sensibilizzazione su Aids e Hiv e diritti umani. Poi, il giorno del rito, le ragazze vengono svegliate nella notte, lavate, vestite e allontanatE dalla loro casa per prestare giuramento su un libro, benedette da una penna”.

Così finalmente diventare donna non significherà sofferenza e sottomissione, ma sarà accompagnato da un augurio all’educazione e all’autodeterminazione.

Il progetto multimediale UNCUT sulle mutilazioni genitali femminili, è stato realizzato grazie all’“Innovation in Development Reporting Grant Program” dello European Journalism Centre e alla Bill & Melinda Gates Foundation, con il supporto della Ong ActionAid e dell’associazione Zona. Per informazioni su UNCUT: zona.org.

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