«Scrivo per me stesso, per abbattere quel senso di impotenza che mi circonda»

Shady Hamadi, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, parla della sua Siria e racconta come, attraverso la scrittura, stia provando a “combattere una grande battaglia culturale”.

Marta Perroni
Iride Magazine
7 min readJun 8, 2016

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Cover del Libro “La Felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana” — ADD Editore©

Per capire cosa sta succedendo in Siria in questi mesi è importante cercare di conoscerne la Storia e la Memoria e purtroppo quello che si conosce in occidente di storia siriana è davvero molto poco.
Shady Hamadi è un giornalista che, italiano da parte di madre e siriano da quella del padre, porta con sé due grandi culture, quella occidentale e cristiana e quella araba e musulmana. Sullo sfondo di una guerra che dal 2011 è arrivata a causare 90.000 vittime e più di un milione di profughi, Shady è divenuto la voce di un intero paese.
Nel 2013 esce per ADD editore La Felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana che ha avuto e ha ancora un grande successo. Shady, mostrando come la sua storia personale e quella della sua famiglia si siano intrecciate alla Storia (con la S maiuscola), ha rivelato la grande forza del suo popolo contro la recidiva cecità dell’Occidente. Il 28 aprile scorso è uscito Esilio dalla Siria, una lotta contro l’indifferenza, il cui tour di presentazione ha portato l’autore anche a Torino, in “un passaggio” presso i Magazzini Oz e al Salone del Libro.

• Su Wikipedia ti definiscono “scrittore”, in altre interviste “attivista per i diritti umani”, come fai convivere queste due definizioni? E riesci a far dialogare, anche attraverso la scrittura, le tue due terre d’origine, l’Italia e la Siria, e gli uomini che, qui e là, vivono?

Mi definiscono in molti modi ma io mi ritengo una persona che ha scelto di scrivere per denunciare, tutto il resto è collegato alla mia attività di scrittore. Nei miei libri parlo di persone, incarcerate o uccise, e questo fa sì che quello che ho scritto sfoci in questioni legate ai diritti umani. Io scrivo per me stesso illudendomi di abbattere quel senso enorme di impotenza che mi circonda e questo è quanto. È naturale che oggi provi empatia per quello che avviene in Siria perché lì ho le mie origini. Se accadessero le stesse cose che si stanno verificando in quel paese qui in Italia allora mi batterei, come sto facendo ora, per il nostro paese. Non devo mettere in dialogo le mie origini in quanto entrambe formano la mia identità, ciò che sono.

• Pensi che, da quando hai cominciato con il tuo primo libro La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana ad oggi, siano stati abbattuti alcuni dei pregiudizi sulla Siria contro cui ti sei scontrato? Trovi che qualcosa sia cambiato in questi anni e quali sono le difficoltà più grandi che hai affrontato?

Non credo che sia cambiato molto dal 2013 ad oggi. In Italia, spesso non contano le cose che una persona dice ma conta, piuttosto, la persona che le dice. Mi sono accorto che dobbiamo combattere una grande battaglia culturale. Esiste una cultura araba che dobbiamo sostenere. Vogliamo parlare di Siria, bene, interpelliamo i siriani. Ho notato che non c’è una classe intellettuale italiana pronta a sostenere gli scrittori del cosiddetto terzo mondo. Oggi abbiamo bisogno di conoscere la Storia di questi paesi, dalla Siria all’Iraq, per comprendere le dinamiche che hanno condotto le società al punto di oggi ma non c’è un reale interesse per la storia. Ogni settimana esce un libro nuovo sull’Isis, perché? Perché basta avere un’opinione. Sulla Siria o sull’Iraq ne esce uno ogni tanto, perché? Perché devi conoscere la storia di questi stati. Se, ad esempio, non sai chi era presidente della Siria nel 1954 non hai nessuna credibilità in quanto non stai dicendo nulla. Il non conoscere la storia dei paesi del Medio Oriente è una pratica diffusa nei giornalisti italiani, che normalmente non sanno l’arabo pur occupandosi di mondo arabo. Qualche settimana fa ho incontrato un giornalista inglese che ha cominciato a raccontarmi delle cose sulla Siria degli anni quaranta che mi hanno spiazzato perché non ero abituato a sentir parlare un giornalista di storia della Siria. Ma, appunto, era inglese il giornalista.
Di cose positive posso dire che non mi aspettavo, insieme a me la casa editrice ADD editore, che la Felicità araba continuasse a venire richiesta così tanto nonostante i tre anni passati dall’uscita. Questo vuol dire che ho raggiunto lo scopo che desideravo: scrivere un libro che dica cose sempre attuali e che fornisca gli strumenti culturali per comprendere.

• Sei al tuo secondo libro e hai un blog sul FattoQuotidiano. Parliamo, anche in occasione dell’ultimo Salone del Libro, della differenza di pubblico tra la carta stampata e l’online. In che modo ti rapporti con l’una e l’altro? E che ruolo svolgono per te i social network?

Premetto che non sono un giornalista. Mi hanno dato la possibilità di avere un blog sul fattoquotidiano.it e l’ho colta. Penso che la carta stampata rivesta ancora molta importanza e che sia letta di più rispetto all’online. Mi accorgo che un articolo sul cartaceo arriva a una fascia di lettori che non vive sui social. Ecco, i social sono una grande innovazione e una grande condanna. Innovazione perché danno la possibilità alle persone di far rete e di dire la loro. Una grossa condanna perché si pensa di fare informazione su Facebook o Twitter e questo è quanto di più lontano dalla realtà. Basta guardare quante “bufale” riprese anche dalla carta stampata hanno avuto fortuna grazie alle condivisioni su Facebook. Una cosa che non sopporto sono gli insulti e le minacce che la gente ti fa attraverso Facebook o Twitter perché sicura di mantenere l’anonimato. Prima dei social queste persone si ritrovavano al bar e lì potevi zittirle facilmente.

• Come è stata la tua esperienza al salone del libro di Torino, pensi di essere riuscito a far emergere la tua voce in mezzo a tante storie? Hai trovato un pubblico interessato e partecipe?

La presentazione è andata bene, c’erano 400 persone. Il problema è che le storie non emergono se non c’è l’interessamento dei giornali. Come dicevo prima, se fosse stato un grosso nome a dire le mie stesse cose allora si sarebbero tutti fiondati ad ascoltarlo e a intervistarlo. Invece, a me tocca spesso rincorrere i giornalisti!

• Da giovane reporter sono molto interessata al giornalismo narrativo. Quale pensi che sia la strada da percorrere per non far cadere un libro divulgativo denso di contenuti così importanti nell’artificialità dello “storytelling”? Hai mai pensato fino a che punto ci si possa spingere nel raccontare la propria storia attraverso un libro (rischiando che l’emozione abbia il sopravvento sui dati di realtà) rimanendo però credibili nei confronti del pubblico? Come sei riuscito a coniugare cronaca ed esperienza personale?

Potevo scrivere un libro asettico sulla storia della Siria e sarei stato sicuro che la maggior parte non mi avrebbe capito. Invece, ho pensato di fare un libro ibrido metà saggio e metà storia personale per rendere accattivante al lettore la narrazione e attraverso le storie che ho raccontato volevo condurlo a porsi domande che trovavano risposta nei capitoli successivi. Non credo che scrivere delle torture di mio padre o dei morti ammazzati mi renda meno oggettivo riguardo a quello che avviene nel paese, anzi. C’è chi dice che non sono oggettivo perché sono troppo coinvolto personalmente nella vicenda allora, parallelamente, non sono oggettivi neanche i famigliari dei morti per mafia quando parlano di “cosa nostra”?

Foto: MagazziniOz©

• Hai già percorso gran parte della tua strada, sono passati cinque anni dal tuo primo libro, che obiettivi hai ora? Quali altre mete ti sei prefissato di raggiungere?

Vorrei lasciare tutto, smettere di scrivere al più presto possibile e tornarmene a una vita molto tranquilla e semplice. Questo è quello che auspico.

• Ho letto che a molti siriani quasi non interessa più un ritorno in patria proprio perché in questi anni di stravolgimenti politici si sono sentiti traditi o non la riconoscono più. Cosa ne pensi? Tu ti vedi a vivere in Siria? Pensi che per un giovane siriano (o di origini siriane) della nostra generazione sia possibile immaginare là un futuro sereno non troppo lontano?

I siriani sono stati traditi sì ma non dalla Siria o dalla loro patria. Piuttosto da tutto il resto. Vorrebbero starsene a casa loro ma non possono, per il momento. Io vorrei tornare e vivere là per un po’ di tempo per riappropriarmi della mia famiglia.

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