Senza medaglia, ma con onore

La storia della più immeritata sconfitta italiana alle Olimpiadi

Remo Gilli
Iride Magazine
6 min readAug 12, 2016

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La storia delle Olimpiadi è legata da sempre a grandi imprese di grandi uomini, vittorie destinate a rimanere impresse nelle menti e nei cuori degli appassionati di sport e non solo. Sono celebri le imprese di Abebe Bikila, il maratoneta etiope che vinse la maratona dei Giochi di Roma 1960 correndo scalzo, o del nuotatore statunitense Michael Fred Phelps che riuscì a vincere ben otto medaglie d’oro ai Giochi Olimpici di Pechino 2008 nella propria disciplina.

Ma ciò che rende affascinanti le Olimpiadi è una particolarità, spesso sottovalutata: ai Giochi Olimpici non vengono premiati soltanto i primi, i cosiddetti “iridati”, ma anche il secondo e il terzo classificato. Inoltre, la storia delle Olimpiadi è costellata di tante piccole vittorie individuali, che spesso si sono consumate lontano dal podio.

Questo è il caso di un italiano della fine del XIX secolo: Dorando Pietri, un maratoneta nato a Correggio il 16 ottobre 1885 e trasferitosi in giovane età a Carpi, in provincia di Modena.

Dorando Pietri

Parlare di atleti d’altri tempi e paragonarli agli atleti di oggi è spesso inadeguato, vuoi perché le tecniche di allenamento sono cambiate, vuoi perché le tecnologie sono progredite, rendendo difficile il confronto a livello oggettivo. C’è da fare un’eccezione, però, per quanto riguarda la maratona: la distanza non è quasi mai stata cambiata dagli organizzatori (si passò dai 40 chilometri iniziali ai 42,195 stabiliti nel 1921) e l’allenamento è, sin dagli albori della disciplina, legato soltanto alla corsa e alla resistenza. Non c’è tecnologia che tenga, per essere un buon maratoneta l’unica cosa da fare è correre. Questo per dire che, verosimilmente, un buon maratoneta degli inizi del Novecento è paragonabile senz’altro a un buon maratoneta dei giorni nostri per quanto riguarda la fatica e l’impegno profusi nella disciplina.

Ma torniamo alla storia di Dorando Pietri.

Pietri crebbe in un contesto rurale in una famiglia composta da un padre agricoltore, una madre massaia e quattro fratelli. Quando il padre decise di passare dalla produzione alla vendita di prodotti agricoli, l’intera famiglia si trasferì a Carpi. Dorando iniziò così a lavorare come garzone in una pasticceria.

Il ragazzo aveva sempre avuto una forte passione per quanto riguardava la corsa e la bicicletta, che lo spingeva ad allenarsi in solitaria per le strade di campagna nei pressi suo paese. Non deve stupire questo genere di passione, che forse stona con gli interessi dei giovani di oggi: all’epoca le prove di resistenza (tanto di corsa quanto di bicicletta) rappresentavano il massimo dell’intrattenimento per la popolazione, richiamando tantissimi appassionati a seguirne gli esiti e a cimentarcisi in prima persona.

Dorando Pietri durante una maratona

Capitò un giorno che venne organizzata una maratona passante proprio dal paese di Carpi a cui partecipava Pericle Pagliani, uno dei massimi esponenti del fondo dell’epoca. La storia narra che, visto passare Pagliani, Dorando si sia messo a corrergli dietro fino al traguardo, con ancora gli abiti da lavoro addosso, riuscendo a tenerne il ritmo. Passarono pochi giorni, e Pietri partecipò alla sua prima competizione sulla distanza dei 3000 metri a Bologna, classificandosi secondo.

In quegli anni Pietri affinò la tecnica e migliorò resistenza, conseguendo tanti ottimi risultati anche se non riuscì a partecipare alle Olimpiadi Intermedie di Atene del 1906 a causa di problemi di salute. Il 7 luglio 1908 vinse la maratona di qualificazione alle Olimpiadi con un risultato da record: 2 ore e 38 minuti. Si qualificò così alle Olimpiadi di Londra del 1908 con la delegazione italiana, pur essendo ancora un amatore e non un professionista.

Alle Olimpiadi di Londra la maratona fu senza dubbio il momento più esaltante dei Giochi: 56 atleti di ogni nazionalità avevano preso parte all’evento e, tra questi, c’era anche il nostro Dorando Pietri, ormai conosciuto anche dai suoi avversari. Essa si snodava dal castello di Windsor allo stadio olimpico per un totale di 42.195 chilometri (per la prima volta fu adottata questa distanza, prima dell’ufficializzazione del 1921) e iniziò alle ore 14:33 con la principessa del Galles a dare il via alla competizione.

Fu una gara dura, anzi durissima, per tutti. D’apprima gli inglesi si misero in testa a dettare il ritmo di gara, per poi essere superati dall’atleta sudafricano Charles Efferon al primo terzo della competizione. Dorando Pietri partì in sordina, per poi recuperare uno ad uno agli avversari fino a piazzarsi secondo, proprio dietro al sudafricano. Saputo che l’avversario era entrato in crisi, Pietri aumentò il ritmo e al 39° chilometro della gara lo sorpassò mettendosi in testa al gruppo. Ormai mancavano un paio di chilometri all’arrivo, e Pietri sarebbe entrato di diritto nella storia dei Giochi Olimpici e della storia dello sport italiano.

Un recupero così, però, non si compie senza un enorme dispendio di energie. Pietri iniziò ad accusare la stanchezza, a perdere lucidità. Giunto allo stadio, sbagliò strada. I giudici lo richiamarono sul percorso, ma una volta rimessosi in carreggiata cadde stravolto dalla fatica. Fu allora che gli stessi giudici lo aiutarono a rialzarsi per percorrere gli ultimi duecento metri di tragitto.

L’arrivo di Dorando Pietri

Tagliò il traguardo barcollando e subito dopo svenne, e fu portato in ospedale dai medici di gara. Il tempo finale fu di 2 ore 54 minuti e 46 secondi, Pietri era primo ed entrava finalmente nell’olimpo dello sport.

Poi, lo shock.

La delegazione statunitense di Johnny Hayes, il secondo classificato, presentò subito un ricorso che venne accolto dalla giuria. Pietri era stato aiutato nell’ultimo tratto e per questo venne squalificato a rigore di regolamento. Lo seppe soltanto dopo essersi ripreso in ospedale, quando ormai i giochi erano fatti. Non una medaglia, non un riconoscimento dal CIO, il Comitato Olimpico Internazionale. Squalificato come l’ultimo degli atleti, come se si fosse ritirato, come se avesse barato.

La storia finisce qui, Pietri tornò a Carpi senza nulla in mano e con soltanto un grande rimorso, che lo accompagnò fino al termine della sua vita.

Forse sarebbe andata così, se non fosse che, quel giorno, in tribuna era presente un cronista piuttosto affermato all’epoca in Inghilterra: stiamo parlando di un certo Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes, che in quel periodo lavorava per il Daily Mail e si trovava all’arrivo per seguire l’epilogo della prova di maratona per il proprio giornale.

Il cronista si accorse del valore dell’atleta e della sciagura che gli si era scagliata addosso, al termine di quella che, diversamente, sarebbe stata una vera impresa. Riuscì a intercedere per l’atleta presso l’opinione pubblica e la stessa Regina Alessandra, la quale conferì un premio di commemorazione a Dorando Pietri, a eterna memoria della sua impresa personale: una coppa d’argento placcata d’oro recitante:

« To Pietri Dorando — In remembrance of the Marathon race from Windsor to the Stadium — July. 24. 1908 From Queen Alexandra. »

La Regina d’Inghilterra Alessandra consegna la coppa a Dorando Pietri

Non solo, grazie a una raccolta fondi, il futuro scrittore riuscì ad elargire all’atleta un premio di 300 sterline, una cifra più che considerevole per l’epoca.

Dorando Pietri poté così tornare in patria a testa alta, conscio che la sua impresa, in qualche modo, era stata riconosciuta da tutti. Questo episodio segnò completamente la sua vita, catapultandolo nel mondo del professionismo.

Per la cronaca, vennero organizzate ben due rivincite tra l’americano Hayes e Pietri, entrambe vinte dall’italiano.

Una bella storia che coniuga lo sport, la fatica e il giornalismo in un’impresa senza pari e senza medaglie. Insomma, la più grande vittoria della Storia compiuta da un non classificato.

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