Ancora in fase di elaborazione

Monica Cainarca
6 min readMar 31, 2016

di Erin Lee Carr
traduzione di
Monica Cainarca

Mio padre mi aveva mandato 1.936 email tra il 2008 e il 2015. Erano quasi tutte brevi e su cose di lavoro, anche quando il lavoro era piacere: “ti ho preso i biglietti, non fare tardi. baci, papà”. Altre erano più lunghe, il tipo di lettere che oggi la gente non scrive più, stando a quanto dicono gli opinionisti. Erano insolite lettere d’amore, piene dell’amore incrollabile di un genitore che era fin troppo entusiasta dell’adulta che stavo diventando per rimpiangere gli anni della mia infanzia.

1.936 email, ma ce n’è solo una che continuo a rileggere anche oggi, quella in cui mi scriveva: “sappi che io ci sono sempre per te”.

E poi non c’è stato più.

Il 12 febbraio dell’anno scorso, mio padre ebbe un collasso nel suo ufficio nella redazione del New York Times. Mi chiamò la mia matrigna per raggiungerla in ospedale e subito mi sentii avvolta dal panico. Papà era il nostro intrepido capotribù (un soprannome che si era dato da solo). Che diavolo avremmo mai fatto senza di lui? Ero preoccupata per le mie sorelle, per la mia matrigna, per la famiglia allargata di mio padre e poi, per puro istinto di sopravvivenza, anche per me stessa. Come avrei potuto andare avanti?

Decisi di chiedere aiuto, rivolgendomi ad altre donne che conoscevo e che avevano perso un genitore. Le mie domande erano su cose fondamentali, questioni pratiche, del tipo: “Come faccio a dormire? Come faccio a lavorare? Come faccio a frenarmi prima di uccidere chi mi dice che tutto si sistemerà?”. Le risposte erano in uno spirito altrettanto pratico e didattico: “Crollavo dal sonno quando ero stanca, lavoravo quando ero costretta a farlo”. Alcune non erano nemmeno risposte, solo la realtà: “Il risveglio è il momento peggiore perché devi ricordarti di quello che è successo”.

È passato un anno e sono ancora in fase di elaborazione. Se potessi parlare a quella ragazzina straziata dal dolore – ed ero ancora una ragazzina prima della morte di mio padre – le direi: ti sentirai a disagio quando qualcuno vicino si accende una sigaretta; vorrai premere il tasto silenziatore quando i tuoi amici si lamentano dei loro genitori; perderai alcuni di quegli amici; dovrai uscire dalla stanza quando il tuo fidanzato risponde al telefono e sussurra un ciao al suo vivissimo e vegeto padre; maledirai te stessa per aver cancellato i messaggi vocali che tuo padre ti aveva lasciato; ti sembrerà di dover camminare ogni giorno controvento con pesi alle caviglie.

Se quella ragazzina mi stesse ad ascoltare, mi piacerebbe continuare così:

Inizierai a scambiarti messaggi in gruppo con le tue sorelle e la tua matrigna, per tenervi in contatto e confortarvi a vicenda. Reggerai gli eventi di lavoro fino alla fine senza tirarti indietro. Manterrai i tuoi impegni con gli altri il più possibile. Parteciperai a un gruppo di sostegno al lutto chiamato The Dinner Party e incontrerai altri uomini e donne tra i venti e i trent’anni che hanno perso un genitore. Imparerai che piangere può farti sentire meglio, soprattutto se lo fai lontano dal lavoro. Smetterai di bere dopo aver condotto approfondite ricerche sul campo sugli effetti della combinazione tra alcolici e dolore. Passerai ore a fare scansioni di incredibili foto degli anni ’80 e ’90 di quella famiglia piccola ma piena di risorse. Scoprirai che la tua famiglia, oggi diventata più piccola, è ancora piena di risorse. Renderai orgoglioso tuo padre.

Sei mesi fa, ho avuto un importante incontro di lavoro, del genere che ti fa svegliare di colpo alle 6 del mattino in un bagno di sudore freddo, con la sensazione di non esserti mai addormentata veramente. Sono arrivata un’ora prima, ovviamente, così sono andata in un bar lì vicino. Mi ero preparata, avevo i miei dischi rigidi e c’erano cose grandi su quei dischi, ma non riuscivo a scacciare la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Sedendomi al bar a mangiare frettolosamente una fetta di torta al cioccolato, mi sono resa conto che mi sentivo strana perché non avevo parlato con mio padre, una tradizione che osservavo prima di ogni importante appuntamento di lavoro. Non avevo avuto la possibilità di una telefonata preparatoria con lui la sera prima, per ripassare le parole che avrebbero potuto farmi ottenere quello che volevo. Avevo solo i miei pensieri che mi si agitavano in testa. Mi sembrava di aver perso l’asso nel mio mazzo di carte e vi garantisco che chi ha conosciuto mio padre capirebbe cosa intendo.

Quell’incontro è andato bene. Quando ne sono uscita, in stato confusionale, mi è venuto in mente che proprio un anno e un giorno prima ero uscita da un incontro con la HBO ed ero andata dritta alla sede del New York Times. Dopo una intensa fase preliminare di sviluppo durata nove mesi, la HBO aveva deciso di dare il via libera al mio documentario. Mio padre era in piedi fuori dall’ufficio, una sigaretta in una mano e il cellulare nell’altra. Vedendomi arrivare aveva chiuso subito la telefonata: “Scusa, ti richiamo dopo, è arrivata mia figlia”. Gli avevo dato la buona notizia e mi aveva rivolto un enorme sorriso gongolante: “Lo sapevo”. Rientrando in redazione, lo aveva riferito a tutti i suoi colleghi che si avvicinavano per chiedergli qualcosa, senza nemmeno lasciarli parlare: “Erin qui ha appena avuto il via libera dalla HBO”. All’epoca non era ancora stato firmato un contratto definitivo e non mi sembrava il caso di annunciarlo ai giornalisti del New York Times, ma papà aveva messo a tacere ogni mia obiezione.

Un anno e un giorno dopo, avevo di nuovo una buona notizia. Mi sono avvicinata al grattacielo del New York Times e l’ho sussurrata a bassa voce. Nessuno mi ha sentito, ovviamente. Ho pianto, tanto, ma non mi sono vergognata. Ero più vicina ad essere la persona che mio padre vedeva quando mi sorrideva: una persona che è emersa dalla lotta contro la disgrazia, che è sopravvissuta a quella lotta grazie alla fiducia trasmessa da mio padre e che ha imparato che va bene prendersi un momento per festeggiare, anche se il contratto non è ancora stato firmato e l’esito è tutt’altro che certo. In fondo, non sono poi così tanti i momenti di una vita.

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Grazie, papà. Mi manchi.

David Carr, storico giornalista del New York Times, è morto nel febbraio 2015 all’età di 58 anni. Ha scritto articoli anche per Medium, tra cui “Press Play”, una riflessione sul futuro del giornalismo digitale, e “The Wrestler”, un ricordo dell’attore Philip Seymour Hoffmann.

Sua figlia, Erin Lee Carr, è regista e produttrice di documentari. Il suo ultimo lavoro realizzato per la HBO, Thought Crimes, è stato presentato al Tribeca Festival lo scorso aprile 2015.

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Monica Cainarca

Translator, editor, dreamer • formerly translator and editor for Medium Italia