Caro CoderDojo, mi licenzio

Agnese Addone
10 min readJan 6, 2017

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Di Agnese Addone

(Ph. Agnese Addone)

English version here

L’innovazione non è solo una questione di fortuna, di scoperte fulminee o di alchimia, e nemmeno è cosa che appartiene esclusivamente alle menti più brillanti. L’innovazione può anche essere gestita, supportata e coltivata. E ogni persona, se lo vuole, può far parte di questo processo.” (da Il Libro bianco dell’innovazione sociale, di Robin Murray, Julie Caulier Grice, Geoff Mulgan, ed. italiana a cura di Alex Giordano e Adam Arvidsson)

Armando è un pescatore, uno bravo. Come ogni giorno va a pesca. Una sera, sulla strada del ritorno, incontra un povero che gli chiede un pesce per sfamarsi. Armando non cede e gli insegna a pescare.

“Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita.”

Questa storia la leggevo da piccola, era un libro verde quadrato che stava in casa mia.

Per me Armando, con quella faccia tutta storta che mi ricordava un famoso attore italiano degli anni ’50 e i suoi stivali rossi, era quasi un eroe. Uno che non aveva ceduto alla tentazione sbrigativa di fare beneficenza senza ragionare, uno che non aveva scelto la strada più semplice. Era uno che aveva capito a cosa serve insegnare ma soprattutto che valore può avere imparare.

Non avrei mai pensato, a sette-otto anni leggendo quella storia, che un giorno sarei davvero diventata un’insegnante, che avrei condiviso con i bambini le mie giornate lavorative, che avrei imparato e non solo insegnato.

Non avrei neanche mai immaginato di diventare champion di un CoderDojo.

Eppure è successo.

E’ successo che ho incontrato per caso tutto questo. Esisteva davvero al mondo una rete di persone che voleva fare la rivoluzione in campo educativo. Esisteva un “modello” per imparare che era open source, libero, indipendente, alla portata di chiunque, gratuito.

Per me il passo è stato quasi immediato, senza esitazione è iniziata una seconda vita lavorativa, quella che avevo tante volte immaginato e che finalmente stava diventando reale.

I laboratori ospitati qua e là in posti sempre diversi, i computer portati da casa, la merenda organizzata dai genitori, la collaborazione, la creatività che finalmente trovava uno spazio che a scuola spesso non trova, la condivisione.

Per me tutto questo era davvero necessario sul piano personale, mi serviva entrare in questa dimensione. Da insegnante forse ci ho visto molto più di quello che altri vi avranno trovato: avevo bisogno di uno spazio totalmente libero dai meccanismi e dai processi della scuola. Non avrei avuto una classe né un team di colleghi definito, non avrei dovuto valutare i bambini, gli errori sarebbero finalmente stati interpretati come risorse e non come insuccessi.

Ho lavorato duro per tre anni e mezzo, ho seguito una strada bellissima che mi ha dato molte soddisfazioni, gioie, anche successi.

Ma oggi mi fermo, caro CoderDojo, mi licenzio.

Dopo tanto lavoro in trincea, ho capito che non c’è altro da fare. Ho riflettuto a lungo sulla mia decisione, oltre un anno, ma è davvero il momento giusto per farlo.

La vita di un champion è bellissima ma anche molto impegnativa.

Ogni giorno pensa al dojo, ai mentor che vi operano, alle attività che si progetta di fare o a quelle che sono state fatte. Ogni giorno riflette sulla linea educativa che ha scelto e condiviso con il gruppo dei volontari, alla relazione con i ninja e i genitori.

Ogni giorno cerca le strategie migliori per far fronte ai mille problemi quotidiani: la sede più o meno stabile, il Wi-Fi, il materiale e i device che possono servire e il loro acquisto, quanti bambini riuscirà a far partecipare ogni volta e così via.

Ogni giorno il dojo è parte della sua vita, in un modo o nell’altro.

Questo è successo nella mia vita.

Un champion CoderDojo opera così nella dimensione piccola, quella locale, quotidiana del luogo in cui vive e opera, dalla grande città al piccolo centro di provincia.

Poi c’è la dimensione nazionale, nella quale ogni giorno tesse una rete di rapporti, più o meno stabili e duraturi, con altre sedi, si confronta, propone soluzioni e attività, accoglie proposte da altri dojo.

La forza dei dojo italiani è stata proprio questa: fare rete.

Lo è stata perché l’Italia, soprattutto nel biennio 2013–2014, ha dimostrato talento: ha lavorato per colmare un gap che lasciava isolati i dojo, costruendo e autocostruendosi una community nazionale forte e di valore educativo originale, ha saputo comunicare e divulgare principi e metodi che, benché informali e ben lontani dalla forma istituzionale di una scuola o dagli studi delle università, funzionavano. La community è stata ben gestita e coordinata dalla sua nascita e per almeno un anno. L’Italia ha generato impatto sulle scelte della Fondazione, prima ancora che all’interno di CoderDojo si cominciasse a parlare dell’opportunità di costituire dei regional body, i coordinamenti nazionali.

Poi qualcosa si è spezzato, la community si è allargata e dall’iniziale, enorme vantaggio di essere plurali ci siamo trovati ad avere a che fare anche con spinte individuali e individualistiche forti, a persone che volevano emergere e guadagnare visibilità personale trasformando la base pura, quella della qualità, in un gioco di numeri sempre più grandi.

I dojo italiani però hanno proseguito dandosi un taglio educativo molto netto e forte, rifiutando la logica per cui un bambino debba necessariamente diventare un programmatore, scegliendo le attività con cura e dedizione, legandole strettamente a quelle di altre community open source importanti come Scratch, Arduino o Linux, generando un flusso importante di materiale condiviso su molte piattaforme.

Personalmente ho dato moltissimo al movimento qui a Roma, ma anche molto in Italia e in una certa misura anche a livello internazionale.

Non è un redde rationem, però ho bisogno di spiegarmi.

Ho girato l’Italia in lungo e in largo, ho aiutato molti dojo a nascere, ne ho supportato le attività e collaborato con molti champion, ho co-fondato la rete dei dojo italiani e l’ho gestita finché mi è stato possibile ma soprattutto concesso dalle alzate di ingegno di qualcuno. Ho rappresentato, probabilmente autoproclamandomi in modo inconscio, il lavoro dei tanti mentor italiani e ne ho parlato, per prima, nelle principali sedi istituzionali.

Il nome CoderDojo, grazie anche alla mia attività di promozione e divulgazione, ha percorso corridoi e luoghi istituzionali, dalla Camera al Senato alla Commissione Europea, quelli delle grandi manifestazioni come la MakerFaireRome. Ho avuto credito presso docenti universitari italiani e all’estero, innovatori, giornalisti e anche collaborando con il Digital Champion italiano; ho parlato più volte del movimento in radio, in TV, a teatro, sui quotidiani nazionali.

CoderDojo, anche grazie a tutto questo, in Italia ha aperto molte nuove sedi, l’attività dei mentor italiani e la community che ne è nata ha generato un notevole impatto sociale.

Le istituzioni si sono accorte che qualcosa stava accadendo, che tanta gente ci stava lavorando, che tanti bambini ne stavano beneficiando.

Abbiamo tenuto un CoderDojo dentro la Camera dei Deputati, uno dentro il Ministero della Pubblica Istruzione, uno di recente al Campidoglio.

Dall’azione paziente, costante, quotidiana dei dojo, che ha rappresentato uno spazio di sussidiarietà dove la scuola ancora non c’era, si è generata una spinta sulle istituzioni per la realizzazione di un Piano Nazionale Scuola Digitale. Nella sua prima formulazione infatti, il Piano riportava e di fatto citava tanti temi già più volte espressi pubblicamente dai rappresentanti dei dojo italiani. E, aggiungo io, peccato che su questo nessuno abbia mai ritenuto opportuno riconoscere a CoderDojo, né ufficialmente né in modo meno formale, una paternità almeno morale.

Tutto questo avveniva mentre, a monte, la Fondazione CoderDojo non prendeva l’iniziativa sulla gestione di processi fondamentali per un esperimento così ampio di autentica innovazione sociale.

Ne ho individuati alcuni davvero nevralgici, in questi anni.

Il più critico è senza dubbio la sostenibilità.

CoderDojo non è un modello sostenibile. Ogni champion, ogni mentor si è dovuto misurare con tante difficoltà quotidiane. Da un lato abbiamo accettato tutto questo pur di poter cominciare o proseguire, pur di garantire continuità agli incontri, per soddisfare la richiesta delle rispettive comunità locali di appartenenza; dall’altro ci siamo ingegnati per cercare le soluzioni giorno per giorno.

La sostenibilità in CoderDojo l’hanno fatta e continuano a farla le persone, quelle stesse persone che ci lavorano dentro, l’hanno fatta i champion chiedendo ai volontari di donare tempo libero, di rinunciare al proprio tempo personale per offrirlo durante una sessione, un evento, un laboratorio. L’ha fatta chi ha elaborato un modello educativo altamente innovativo che ha generato impatto sulle istituzioni pubbliche. L’ha fatta chi si è misurato con le difficoltà economiche tassandosi o cercando sponsor.

Un altro processo mai affrontato in modo efficace è stato quello che, con un termine un po’ ampio, bisognerebbe chiamare controllo.

Nessuno ha mai controllato che tutti i dojo fossero davvero attivi e non fasulli, che non avvenissero abusi contrari al codice etico, soprattutto quelli di tipo commerciale che hanno rischiato di screditare il lavoro di tante persone davvero motivate. L’unica forma di controllo è stata la logica dei numeri: ci siamo contati, mucchi di volte, in Italia e nella rete internazionale. CoderDojo oggi misura il suo successo e la forza del suo brand solo contando i suoi numeri: quante sedi, quanti mentor, quante bambine partecipano, quanti adulti, quante donne….

Ma il punto è, numeri a parte, la qualità chi la controlla?

Chi fa attenzione a cosa succede nelle sedi, anche le più piccole e remote? Chi cura le community nazionali, chi le supporta? In Italia abbiamo provato a fare questo per circa un anno e mezzo con CoderDojo Italia, poi tutto si è sgonfiato e quasi spento quando ho deciso di farmi da parte smettendo di occuparmene in prima persona, accusata da qualcuno di aver fatto un uso personale e strumentale dell’intera rete nazionale. Oggi quel coordinamento tenta di ripartire, con enorme fatica. Un tentativo era già stato avviato mesi fa, ma come molte cose italiane poi ci si ferma. Siamo abituati a farci male da soli, è lo sport nazionale. Quando qualcosa esprime virtù lo affossiamo, chiunque abbia meno scrupoli prova ad attribuirsene la paternità oppure ci si accusa a vicenda, invece di costruire. Vedremo cosa ne sarà di questo tentativo.

Un altro processo che è mancato, paradossalmente, in una rete che si rivolge prima di tutto a bambini e ragazzi, è stata una seria azione antipedofilia.

Questo tema secondo me avrebbe dovuto essere inserito nel charter, nel codice etico che ogni champion sottoscrive al momento dell’apertura del dojo. Per un movimento che ha sempre dichiarato ed espresso la sua forte connotazione etica, questa è una dimenticanza non da poco. Abbiamo prevenuto gli abusi, nulla è mai successo, ma perché non dichiarare apertamente la propria posizione in merito ad un tema così importante? I dojo irlandesi sono tenuti dalla legge a sottoscrivere un impegno sulla child protection, ma nei paesi in cui questo non è obbligo di legge come ci si regola?

CoderDojo ha anche un Committee che dovrebbe occuparsi di questi come di altri temi, ma che ancora stenta perfino a definire se stesso e il proprio campo d’azione.

L’ultimo processo che ho individuato riguarda l’attribuzione e validazione del nome dei dojo.

A mie spese, circa due mesi fa, ho dovuto fare i conti con quello che ero convinta fosse un processo con una serie di passaggi ben definiti.

Mi sbagliavo, non è così. È invece un momento come un altro, una rapida trafila apparentemente burocratizzata ma sostanzialmente e tragicamente casuale.

Così ho perso il nome del mio dojo, l’ho visto regalare ad un’altra sede in modo maldestro e con spiegazioni assurde, al limite della superficialità.

Ecco, per me perdere il nome, anche solo trovarmi a doverne discutere o a chiedere di avere ragione, è stato il momento più pesante in assoluto di questi tre anni e mezzo di attività, la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo.

Quel nome non è, e non era, banalmente solo il nome di un luogo fisico, della città che lo ospita. Era la storia di un gruppo, la mia storia personale all’interno di un movimento, il racconto della mia attività, quella che ho svolto per tutti pensando di rappresentare un pensiero comune e condiviso. Quel nome ha ideato, promosso, sviluppato attività e un pensiero educativo non formale, lontano da una stretta contaminazione con il mondo della scuola. Quel nome si porta dietro un suo codice etico, delle scelte educative precise, una comunità di bambini, genitori e mentor ma anche di amici e sostenitori che negli anni hanno creduto in noi.

Alla fine la cosa più preziosa che c’è, per ciascuno di noi, è il nome, la nostra identità. Per me era un simbolo, una partenza e un traguardo.

Bene, io questo nome non l’ho avuto garantito. Avevo dato per scontato che lo fosse, ma così non era, la Fondazione CoderDojo ha ragionato con logiche diverse dalle mie.

Eppure pensavo che aver militato tanto in una rete in qualche modo mi salvaguardasse e soprattutto proteggesse il nome e il valore dell’esperienza maturata nella mia città, nella mia nazione.

Non è stato così. L’identità costruita in questi anni, la mia personale attività non hanno tutelato il mio gruppo e la Fondazione non ha avuto risposte accettabili per me.

Oggi non sono più una champion, ho salutato il gruppo dei mentor romani, quelli italiani e alcuni nel frattempo conosciuti anche all’estero. Ho comunicato alla mia rete di contatti che non sono più in CoderDojo.

Io adesso so che in questa rete non ci sono più perché l’ho deciso. Non mi riconosco più in un movimento che in anni di attività non ha ritenuto fondamentale garantire ai volontari un’adeguata gestione di processi che ritengo fondamentali.

La stagione d’oro di CoderDojo l’abbiamo vissuta, c’è stato un momento in cui alcuni dojo hanno mostrato la vera forza dell’innovazione, abbiamo condiviso momenti importanti e bellissimi, c’eravamo.

Il più grande e gioioso esperimento di innovazione sociale digitale al mondo.

Ma l’innovazione sociale la fanno le persone, non i numeri, cara Fondazione.

Le persone hanno un’identità e bisogna imparare a rispettarla, proteggerla, tutelarla.

Da oggi osserverò e basta, mi dedicherò ad altro.

Continuando a pensare che “be cool” sia la cosa migliore mai detta ad un bambino e il motto più ricco di senso da scambiarsi tra bambini e ragazzi.

Il resto invece, purtroppo, è roba da grandi.

Ad maiora,

Agnese

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Agnese Addone

The Accidental Teacher | Historian and PhD in CS | IGDORE, @c-a-s-t and @ lascuolaopensource fellow| former champion @CoderDojoRoma