Facebook sotto accusa, ma è una buona occasione per mollarlo e spingere il ‘rinascimento cooperativo online’

Beccato alla grande con le mani nel sacco, Facebok diventa target facile e cerca di rimediare con le solite PR. Ma, questo il punto, riuscirà quest’ennesima débâcle a far emergere riflessioni (e azioni) serie sul Potere che abbiamo delegato alle odierne mega-piattaforme social?

bernardo parrella
6 min readMay 16, 2016

La scoperta dell’acqua calda. È questo, in estrema sintesi, quanto emerge dal can-can mediatico sulla cosidetta Facebook controversy. Meglio, si va denunciando Facebook come maggior ‘influencer’ della pubblica opinione. Da cui potrebbe perfino dipendere l’esito delle prossime elezioni presidenziali Usa – e chissà quant’altro. Quindi, la manipolazione dei newsfeed e trending topic è atto pericoloso anzichè no. Ma non lo sapevamo di già? Ah, no, un momento.

Molti si affrettano infatti a (ri)spiegarci la scontata e irresistibile conquista di un tale ruolo primario acquisito (per magia divina?) dalla creatura di Mr. Zuckerberg nelle odierne società del mondo intero. E scoprendo l’acqua calda, appunto, rimarcano piuttosto che il problema stavolta starebbe semplicemente nell’impossibile neutralità di newsfeed e trending topic proposti dalla piattaforma ai suoi utenti (sia tramite algoritmi che da redattori umani). E, udite udite, la soluzione è comunque a portata di mano: trasparenza, accountability, professionalità.

Basterebbe insomma affinare e imporre a Facebook «gli strumenti sviluppati in passato per responsabilizzare il mondo dell’informazione», oltre a intensificare la stessa «competizione tra i media». E mentre in Usa partono apposite inchieste parlamentari per far luce su quest’ennesimo episodio oscenamente manipolativo orchestrato dietro le quinte, s’invoca al contempo l’intervento delle agenzie governative per imporre specifiche procedure e altri compromessi de facto (inclusa la cosidetta “privacy immunity”). In altri termini, si offre su un piatto d’argento allo stesso Facebook la possibilità di schivare le «accuse di bias e manipolazioni» nel ‘fornire informazioni’ al miliardo e mezzo di propri utenti. E rimettersi in sesto come nulla fosse grazie al tipico dispiegamento di potenti strategie di PR. Senza grosse perdite d’immagine e, quel che più conta, di utenti — ormai stufi dellle continue vessazioni e malpractices di questo colosso dai piedi d’argilla.

Per carità: è sacrosanto ribadire che Facebook, divenuta potente testata mediatica a livello globale e non più soltanto un semplice “social network”, debba rispondere al pubblico dei suoi comportamenti in tale ambito. Come pure vitale è analizzare «chi controlla la sfera pubblica nell’era dell’algoritmo?», che è poi il titolo di uno stimolante workshop tenutosi alcuni mesi fa a New York sotto l’egida della Data Society, e i cui testi online sono caldamente consigliati ad addetti e profani.

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Eppure, quale l’importanza reale di questi tentativi manipolatori e opachi di Facebook nel contesto generale della quotidianità vissuta? Non è che, tra la distrazione imperante e il sovraccarico d’informazione tipici dell’era dei device onnipresenti & always on, in fondo in fondo si gira su quella piattaforma solo per chiacchierare, perdere tempo e rilassarsi (pratica altrimenti nota come “socializzare”) anziché per, ahem, tenersi al passo dell’ultim’ora? Anzi, spesso la molla per perdervi le ore è proprio la fuga dalla realtà. E assai più che nel caso di Twitter, si finisce per seguire solo distrattamente, (oppure ignorare del tutto) i trending topic e il newsfeed su Facebook, preferendo invece buttarsi a capofitto nell’andirivieni del proprio giro di “amici”. Insomma, c’è da scommettere che quest’ennesima débâcle finirà per interessare ben poco l’utente comune, soprattutto nei Paesi non occidentali. (Anche se cova la speranza che così non sia, ma divenga anzi l’ultima goccia che fa traboccare il vaso, come dirò più avanti).

Comunque sia, va ricordato che di pari passo alla penetrazione di Facebook esiste il ‘criticismo di Facebook’, divenuto poi un filone a sé della Net Critique, che ha infine conquistato una vera e propria pagina su Wikipedia (non tradotta in italiano). Né mancano le continue accuse sulle ovvie lacune in tema di privacy e trasparenza o sulle ambiguità della corsa alle amicizie virtuali, nonché sul ‘contratto sociale’ più o meno tacito che da tempo impera nel cosiddetto social web. Mentre le controversie sul palese ricorso agli algoritmi e annesse discriminazioni non è affatto storia nuova.

Nel complesso, dunque, un andazzo opaco, grossolano e spesso irrispettoso dei diritti degli utenti che, attenzione, vale un po’ per tutti i giganti high-tech oltre Facebook, tra cui Apple, Google, Amazon Microsoft, (cioè i ‘Tech Fab Five’, il cui valore di mercato supera complessivamente i 2,2 trilioni di dollari). Giganti che, al pari di tante piattaforme e app social più recenti (tipo la stessa WhatsApp, che per un breve periodo è parsa un’alternativa in tal senso, un rifugio nei confronti proprio di Facebook, finché non è stata acquistata da quest’ultimo) hanno perso da tempo l’innocenza originaria e i cui attuali modelli gestionali non possono più contare sul necessario consenso degli utenti per operare in maniera efficace e adeguata alle bisogna.

Ovviamente esiste un diretto rapporto socio-politico di causa ed effetto in questa vicenda della mancata trasparenza (non dell’impossibile neutralità) dei meccanismi di newsfeed e trending topic su Facebook.

Ma c’è da scommettere che presto tutto verrà dimenticato, come già in passato per questioni analoghe. Grazie all’attenta opera di PR in corso e a qualche veloce compromesso tecnico, continueremo (o torneremo) a usare tranquillamente Facebook come meglio e più ci aggrada. E quel che più conta: nessun danno economico per azionisti e corporation.

E tutto questo bailamme mediatico, allora? In buona parte è per battersi forte il petto, e puntare il dito contro un diretto concorrente pesante, beccato alla grande con le mani nel sacco. Chissà, magari la prossima volta toccherà a Google News o, in un contesto differente, a iTunes/Apple o altre piattaforme social. Come un altro recente ‘scandalo’ di cui si parla poco, ma del tutto significativo: le montagne di spam-bot e ‘fake accounts’ che infestano in particolare Instagram (per vendite di merce di lusso contraffatta e altri loschi traffici), altra start-up acquista da Facebook nel 2012 e con oltre 300 milioni di utenti. Ovvio che per sistemi (proprietari) di simili proporzioni e portate non ci sono algoritmi o uamni che possano garantirne funzionamenti sempre corretti. Nè si può sperare che ciò avvenga grazie a misure tecnico-legali complesse, che richiedono l’accordo di istituzioni e aziende di mezzo mondo, peggio dei trattati sul cambiamento climatico.

Siamo anzi davanti a pratiche monopolistiche degne della miglior (o peggior) Microsoft anni ‘70–’80, che però oggi vengono giustificate o perché molti sono ammanicati/coinvolti (high-tech, media) o perchè imposte (agli utenti globali) sotto l’etichetta al di sopra di ogni sospetto del social/sharing. E quindi, l’attuale can-can mediatico rimane in sostanza acqua calda. Semmai utile solo per affermare una certa “vigilanza” dell’ecosistema dell’informazione: non ha però senso far finta di stracciarsi le vesti.

In definitiva, passata l’ennesima burrasca, chissà se faremo come suggerisce uno dei critici più attenti in quest’ambito, Geert Lovink, ne L’abisso dei social media (in uscita per Egea con traduzione del sottoscritto): «Nonostante tutto, l’abitudine quotidiana all’uso dei social media tramite gadget sempre più striminziti è divenuta parte integrale della nostra vita indaffarata. Ci ritroviamo incastrati tra l’ansia da dipendenza e il loro uso ossessivo, subliminale».

Oppure no? Nel senso che, a livello di ‘cittadini digitali’ e di impegno sociale-civico la speranza è che tutto ciò porti a riflessioni di ampio e respiro, grazie anche alle preziose analisi degli esperti e degli addetti di cui sopra. Ancor meglio, che si concretizzi una rinnovata spinta all’azione (individuale e collettiva) per rivendicare spazi online (ma non solo) decentralizzati, autonomi e fluidi come d’altronde si conviene all’era digitale. Non dimentichiamo infatti che centralizzazione, automazione e opacità sono i pontelli chiave di quel Potere che la Silicon Valley e le sue creature (new media, sharing, social, ecc.) aveva promesso di voler debellare una volta per tutte. E che molte fonti ribadiscono come oggi la crescita continua non sia certo obbligatoria, ma si rivela anzi controproducente per tutti.

Mentre c’è urgente bisogno di alternative sistemiche atte a costruire paradigmi sociali basati sui commons, per esempio.

E se è vero che oggi i social media rappresentano «una confortevole norma generale e uno uno strumento soft di influenza, che viene raccolta nello sfondo, più che nelle immagini», altrettanto (o anche più) vero è che siamo al punto giusto per mollare definitivamente tutte queste ammiccanti opzioni a la Facebook, anziché trovare giustificazioni mediatico-sociali all’ennesimo flop. È ora di progettare una diversa sensibilità digitale, puntando a reti organizzate, gruppi di utenti mirati, mini-strutture decentralizzate, progetti flessibili, e quant’altro capace di «operare al di fuori dell’economia del ‘mi piace’ e dei suoi deboli link».

Cioé dire basta a quest’indiscriminata attenzione e spazio che abbiamo volutamente delegato ai nuovi ai cyber-Poteri, nel bene e nel male. E (ri)prendere in mano il ‘bene comune internet’, per attivarne al meglio le potenzialità creative e la partecipazione dal basso sul territorio. Insieme all’importanza di un approccio critico sul digitale in senso complessivo. In sostanza (citando ancora Lovink), impegnandoci a rilanciare, qui e ora, «un rinascimento cooperativo su internet».

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bernardo parrella

Freelance journalist, media activist & translator mostly on digital culture issues, an Italian living in the US Southwest (@berny)