1976 Fly Away Duke Live

L’uomo delle stelle in una corsia d’ospedale

Federico Pucci
3 min readJan 11, 2016

Ieri notte, prima di andare a dormire, io e Roberta abbiamo visto un documentario su Netflix chiamato ‘Tig’: parla della comica stand-up Tig Notaro, della lunga serie di sfortune che l’hanno colpita nel 2012 (una pericolosissima infezione intestinale, la morte della madre, un cancro ai seni), di come ne sia uscita anche attraverso il suo lavoro e di come il suo lavoro ne abbia risentito a sua volta. Il 3 agosto di quell’anno Tig tiene uno show al club Largo di Los Angeles che, grazie al passaparola e alla pubblicità di Louis C.K., diventa celeberrimo prima ancora di essere distribuito come album: in quel monologo Tig parla apertamente della propria situazione personale e della malattia, un topos che diventa centrale nei mesi e anni a venire della sua carriera. Il merito riconosciuto alla comica è stato non quello di aver fatto eufemismo e burla del cancro, ma piuttosto di aver dimostrato come anche una persona gravemente malata possa creare e produrre arte con forza e lucidità, talvolta perfino meglio di prima. La parabola di Tig, per certi versi, ha permesso a molti di riflettere su una forma di emarginazione non palese come quelle con cui siamo diventati tristemente familiari ma molto pungente: lo stigma sociale verso i malati, terminali o meno, ritenuti come esseri umani di seconda classe, pesi per la società, persone invisibili e inutili, al limite da compatire.

Oggi abbiamo scoperto nel peggiore dei modi che David Bowie ha lottato contro un cancro negli ultimi 18 mesi: possiamo dirci che lo sapevamo, possiamo anche pescare i presagi di morte di ‘Blackstar’ (l’ho fatto anch’io), un album che certamente suona come un testamento spirituale. Ma l’importanza di quest’ultimo capitolo non sta nella sua posizione terminale: le sette tracce sono belle canzoni, nuove canzoni che quasi all’unanimità hanno convinto critici e giornalisti all’oscuro della malattia. I colleghi con i quali prima di Natale ho avuto la fortuna di ascoltare in anticipo ‘Blackstar’ erano d’accordo con me sull’eccezionalità di quest’opera, e nessuno di noi sapeva nulla di bollettini medici.

L’album della stella nera, insomma, non è bello perché è l’ultimo. Ma è tristemente e ineluttabilmente l’ultimo, ed è probabile che Bowie ci abbia lavorato con qualche presentimento fatale: lo si nota di certo nei testi, lo si vede nei videoclip usciti, soprattutto in ‘Lazarus’ dove sembra levitare sopra un letto d’ospedale. ‘Blackstar’ è un grande album scritto da un malato terminale, un malato che trova una nuova vena creativa ricchissima, che ha la forza e il coraggio di viaggiare verso territori inesplorati in 50 anni di storia, di provare anche un nuovo modo di cantare fatto di acciaccature e acuti contro-tempo. Abbiamo già sentito Johnny Cash e Freddie Mercury a un battito cardiaco dalla loro fine produrre ancora qualcosa di memorabile, ma qui il passo è ulteriore. ‘Blackstar’ ha una visione d’insieme, fatta di grafica (l’alfabeto ‘stellino’ con il quale è scritto il suo nome nella cover dell’album di cui ha parlato bene su Wired Michele Boroni) e film, di specifiche scelte musicali (una deviazione dal rock presa con consapevolezza, andando a pescare una band jazz poco nota e fortissima) e complessità poetica, tutti criteri che definiscono un’opera di ampio respiro, frutto di un grande lavoro probabilmente svolto anche fra angosce e dolori. E ancora di più, ‘Blackstar’ è un disco che supera di gran lunga l’esito del lavoro precedente e si pone senza problema fra i migliori prodotti di uno dei migliori cantautori di sempre.

‘Blackstar’ in questo senso è il disco che smentisce un altro vizio culturale del pop: il concetto che gli anni della maturità per definizione non siano i migliori di un artista, un atteggiamento estraneo alla storia della letteratura o dell’opera lirica e più familiare alla ricezione dell’intrattenimento popolare — cosa che il pop non è più necessariamente proprio per merito di David Bowie. E adesso che è andato via alla fine di una vita in cui ha stravolto i confini convenzionali di sessualità e popolarità, musica e cultura, moda e teatro, l’ultima rivoluzione potrebbe essere ancora più profonda e radicale, pure se non l’avesse programmaticamente ricercata: dimostrare che la malattia è uno stato dell’essere umano non necessariamente peggiore della sanità, che non minaccia la creatività, che non rende gli uomini piccoli scriccioli da tenere nel palmo di una mano. Che si può essere giganti mentre si muore, come gli eroi dei tempi lontani.

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Federico Pucci

Punk col culo degli Altro. (Parlo di musica, intervisto di musica, scrivo format di musica)