Società

La legge di Facebook non è uguale per tutti

Mark Zukerberg ha deciso che i post di Donald Trump segnalati dagli utenti come incitamento all’odio razziale devono rimanere su Facebook

Fabio Chiusi
6 min readOct 22, 2016

Di Fabio Chiusi

A dicembre scorso, Mark Zuckerberg ha detto basta: i post di Donald Trump per promuovere il divieto di ingresso negli Stati Uniti ai musulmani, per quanto segnalati da svariati utenti come “hate speech”, cioè odio, devono rimanere su Facebook. Per mesi i revisori dei contenuti del social network ne avevano discusso, concludendo in molti casi il contrario: quello è razzismo, e va rimosso. Diversi hanno continuato a crederlo anche dopo il “placet” di Zuck, protestando sul sistema di messaggistica interno all’azienda, e minacciando le dimissioni.

Se lo scenario ricostruito dalle fonti consultate dal Wall Street Journal è veritiero, per Zuckerberg non deve essere stata una scelta semplice: obbedire alle condizioni di utilizzo del proprio sito, e dunque rimuovere l’odio di Trump, oppure fare un’eccezione per il candidato presidenziale?

“Moderare” Trump avrebbe di certo comportato un caso politico, e un ennesimo dibattito pubblico sulla libertà di espressione su Facebook: il magnate avrebbe gridato immediatamente alla censura, e i suoi troll e altri sgherri online trovato altrettanto immediatamente qualche modo di rendere la moneta a Zuck. E poi che figura ci avrebbe fatto Trump, l’uomo del “movimento” di popolo, a non poter nemmeno parlare agli elettori su Facebook, dove si agita proprio quanto oggi è comunemente considerato “il” popolo? Trump sarebbe divenuto, a tutti gli effetti, un “hater”.

E sarebbe stato un ennesimo e ulteriore problema. Perché “hater” è peggio che “odiatore”: oggi un post rimosso è capace di provocare più danni di una ennesima sparata razzista a un comizio. È l’ethos dell’era iperconnessa: accade su Facebook, o non accade. Insomma, si sarà detto Zuckerberg, meglio concludere che c’è odio meno odio di altri. E che se viene da Trump, e non da un comune mortale con profilo Facebook, è accettabile.

Per tutti gli altri, cioè noi utenti qualunque, c’è la pigrizia algoritmica e umana che caratterizza da sempre l’operato degli “sceriffi” di Facebook, intrisi di moralismo a stelle e strisce e dotati di linee guida che vietano di mostrare una madre che allatta, un capolavoro che immortala genitali femminili su tela, e perfino — notizia di queste ore — una campagna contro il cancro, colpevole di avere pubblicato un video di sensibilizzazione raffigurante un seno con capezzoli stilizzati, e turbare dunque la morale pubblica. In diversi casi i gestori della piattaforma si sono scusati, o sono tornati sui propri passi (sempre in modo proporzionale al contraccolpo mediatico). Se per Trump però interviene Zuckerberg, per noi di norma non interviene nessuno.

Ai giornalisti, per esempio, il fondatore non risponde mai nel merito; e anche i suoi sottoposti non parlano che in aziendalese — quando parlano. L’aziendalese, al primo posto, prevede sostenere che quella di Zuckerberg è una “compagnia tecnologica”, non una “media company” che opera precise scelte editoriali. Lui, Zuckerberg, lo ripete continuamente, compresa la recente visita a Roma. Oggi Facebook però introduce una novità: potrebbe diventare più permissivo con post che “violano gli standard della comunità”, se “notiziabili”.

La replica è semplice: sono gli editori a occuparsi di “notiziabilità”, non le “compagnie tecnologiche”. Se i post d’odio di Trump restano online in quanto notizie, Facebook si contraddice. A meno di spiegare cosa intenda per “notizia”, esattamente, per chi valgano le eccezioni — Trump, e? — e soprattutto come si possano formulare giudizi simili lavandosene le mani con la scusa della “tech company” che non media.

Ma è davvero questa la ragione del trattamento preferenziale a Trump? Realisticamente, non lo sapremo mai, perché i casi di rimozioni insensate e ingiustificate — anche TOS alla mano — di contenuti sono vecchi quanto Facebook. E c’è da giurare continueranno.

Il problema non è solo di uguaglianza, ma di democrazia a tutto tondo. Il social network di Palo Alto è sempre più il luogo dove i cittadini si informano, discutono e partecipano. Quel che troppi di loro non sanno, tuttavia, è l’uso inconsapevole di Facebook può causare distorsioni e manipolazioni scarsamente visibili, ma preoccupanti.

La letteratura e la cronaca le fotografano con sempre maggiore precisione. Un esempio è che a seguire i consigli linkati nella sezione delle notizie del momento, i “trending topic”, si rischia di finire in mano a siti di disinformazione suggeriti, si noti bene, da Facebook. Poco cambia, in termini di ignoranza del lettore, che a farlo sia non il giudizio esclusivamente umano ma, come da qualche mese, un algoritmo. Non funziona. E qualcuno, dopotutto, deve averlo programmato.

Un altro è che quella stessa sezione è già stata anche accusata di censurare abitualmente le notizie di parte repubblicana. Un po’ un pregiudizio contro Ted Cruz dei revisori, un po’ la loro incapacità di riconoscere quelle notizie, scriveva Gizmodo a maggio; ma anche qui, a parte il riproporsi del cortocircuito tra imprenditore tecnologico e media, è il risultato che conta: la minore esposizione a un certo tipo di idee. Non a caso la leadership repubblicana ha ottenuto un incontro in Silicon Valley con il capo di Facebook, andato talmente bene da far scrivere a Wired che Zuck è “un grande politico in the making”. “Liberal” sì, insomma, ma costretto ad apparire neutrale.

Che sia per questo che oggi Zuckerberg difende gli 1,25 milioni di dollari donati da Peter Thiel, che siede nel board dell’azienda, a Trump? E lo difende, nonostante la sua visioni dell’immigrazione sia esplicitamente diversa, anche per rimediare alle accuse di censura arbitraria? Una delle più recenti è anche tra le più dure: quella del direttore del quotidiano norvegese Aftenposten per la rimozione della celeberrima foto con la “napalm girl”.

Se la strategia è questa, non sembra funzionare. Consentire alle opinioni di Trump in materia una licenza espressiva maggiore di quella dei restanti 1,7 miliardi di utenti, nemmeno.

Quando discutono, poi, gli utenti di Facebook sono vittima di un altro algoritmo, quello di selezione delle notizie del “feed” principale; e se quell’algoritmo ci presenta, come accade, troppi contenuti già affini alla nostra visione del mondo, contribuendo a confermarla più che smentirla, è naturale si disimpari a confrontarsi con chi ne ha una diversa. Ed è naturale radicalizzarsi nelle proprie posizioni.

Non che Trump sia prodotto di Facebook: Trump è prodotto degli Stati Uniti, al loro peggio. E no, Facebook non genera necessariamente seguaci di Trump, o suoi simili. È che, restando alla scienza, si può dire che gli effetti di lungo termine sulla formazione del consenso e dell’opinione pubblica sono imprevedibili, e da molti punti di vista non positivi.

Facebook deve perciò cominciare ad affrontare questi problemi a viso aperto, con trasparenza e chiarezza, e con un diverso e maggiore senso di responsabilità.

Perché, nel “mondo aperto e connesso” propagandato instancabilmente da Zuckerberg, il social network non ha interpellato in qualche modo i suoi utenti sulla questione dei post d’odio di Trump? Zuckerberg è abbastanza “aperto e connesso”, oltre che sfaccendato, da mandare in streaming su Facebook Live un barbecue pre-dibattito presidenziale da oltre 120 mila utenti, rispondendo uno a uno a decine di loro con un saluto (robotico, a dirla tutta), ma non da usare lo stesso strumento per chiedere se un post in cui Trump vuole vietare l’ingresso nel paese ai musulmani è accettabile o meno. E noi, soprattutto, siamo talmente sudditi da nemmeno notarlo.

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