La sfida, la crisi, la felicità.

Sergio Cagol
7 min readSep 14, 2015

Io la montagna la amo. Punto.

È l’unica spiegazione che riesco a darmi per essere alla partenza del Dolomiti di Brenta Trail, una “non-gara” di 64 km nelle montagne più belle del mondo, con oltre 4.000 metri di dislivello e tante emozioni di vivere.

Non ho mai fatto un trail, non amo le competizioni, a correre mi stufo, durante l’estate ho cambiato idea cinquemila volte (la faccio, non la faccio, sì che la faccio, ma via siam scemi…), mi sono allenato così così e non ho la minima idea di cosa voglia dire affrontare una corsa che (per me) durerà almeno dodici ore.

Ma sono alla partenza, e sono felice come un bambino alla vigilia di Natale, non vedo l’ora di affrontare questa bellissima sfida e… vada come vada.

Mi metto in coda, voglio partire piano, e andare in progressione. Dopo i primi chilometri interlocutori inizia la salita, quella vera.

Mi conosco e so che tendo a strafare. E mi dico “vai piano”, mentre le gambe fremono e comincio a spingere. Adoro la salita, adoro cercare il ritmo e portare il mio fisico ai suoi limiti. Sono sette/otto chilometri, 1.300 metri di dislivello. Salgo forte e deciso, passo spinto. Ho voglia, tanta voglia. Al ristoro mi fermo e bevo tanto, penso che bere sia fondamentale per star bene lungo la giornata. In realtà sto improvvisando, e lo pagherò.

In cima alla salita mi pare di essere appena partito, mi aspettano circa 15 chilometri di terreno misto, si sale e si scende. Comincio a correre. Mi rendo conto che non so che ritmo tenere, quando correre, quanto correre. Cerco un treno, ma sono impaziente, mi pare che vadano tutti troppo piano. Poi si crea un piccolo gruppo, ci sono due ragazzi emiliani che se la raccontano, hanno un buon ritmo e mi accodo. Il panorama è straordinario, il lago di Tovel ci saluta con i suoi colori spettacolari, le cime sono accese dal sole anche se non fa caldo, al secondo ristoro mangio qualcosa e bevo ancora tanto. Arrivo alla salita che ci porta al passo del Grostè e sono felice. Mi piace il gruppo che si è creato, ma sul finale della salita, quasi senza volerlo, me ne vado, salgo ancora bene e forte, le gambe stanno benissimo, i panorami sono splendidi, cosa volere di più? Ho un po’ di mal di pancia, sarà la fame, mi dico. Mangio una barretta e continuo; sarà l’ultima cosa che riuscirò a mangiare in tutto il giorno.

Vivo un momento di sospensione, ignoro quello che mi sta succedendo e mi godo il mio stato di grazia.

Ho già fatto più di trenta chilometri. Non ho mai fatto un sforzo simile, non ho mai corso tanto, non so cosa mi potrà aspettare. Una settimana prima ho fatto un allenamento “lungo” di trentadue chilometri, il mio record di lunghezza. Da qui in avanti entro nella zona ignota. Arrivo al terzo ristoro, provo a mangiare, ma mi accorgo che faccio fatica. Bevo molto, qualcosa comincia a non andare.

Si riforma il gruppetto e quando riparte mi accodo. Dopo trecento metri mi accorgo di aver lasciato i bastoncini al rifugio, torno indietro e perdo il gruppo. Maledizione.

C’è la discesa, il mio terreno peggiore. Ho allenato i muscoli delle gambe, ma le articolazioni di ginocchia e caviglie sono vecchiarelle e so che prima o poi si faranno sentire. Scendo piano, pensando che sono solo e che vorrei riprendere gli amici avanti. E comincio ad ascoltarmi. E finalmente capisco che non sto bene. Ho lo stomaco bloccato e gonfio, e la corsa in discesa mi provoca fitte violente. Ripercorro le ultime ore e penso che ho bevuto troppo, che non fa poi così caldo e che forse ho sudato meno del previsto. Stringo i denti, passerà, penso. Finisce la discesa e si ricomincia a salire, verso il rifugio Tucket. Comincio a tirare davvero, voglio ricompattarmi al gruppo. Li prendo dopo un paio di chilometri e mi accodo. Le voci rassicuranti di Alessandro e Francesca mi tranquillizzano, saliamo assieme. Io intanto cerco di capire, sono attentissimo a tutto quello che mi succede. Capisco che ho sbagliato tutto, che ho preso freddo da subito e che ho un blocco allo stomaco. Al ristoro del Tucket non tocco niente, indosso tutto quello che posso e aspetto il gruppo. Mi rassicura la loro presenza.

Scendiamo assieme ma appena si ricomincia a salire li perdo. Per la prima volta sono preoccupato, mi concentro su me stesso. Ho un passo deciso, devo tenermi caldo e attivo. Ho davanti la salita più impegnativa, quella che porta alla bocca di Brenta, la parte più tecnica. Ormai sono solo, salto il ristoro del Brentei, tiro dritto, continuo a spingere e a cercare la motivazione: ormai è chiaro che le gambe vanno, devo rimanerci con la testa. Il nevaio e le roccette sono utili diversivi, l’incoraggiamento delle guide alpine una spinta in più.

Arrivo in cima. Ho freddo, molto freddo; ho la pancia rotta, non mangio da cinque ore, non bevo da quattro. Al ristoro del Pedrotti c’è the caldo, ne bevo un bicchiere, sperando che smuova qualcosa.

E’ il momento peggiore. Non ho più l’adrenalina della salita, mi mancano solo 15 orribili chilometri di discesa. Ogni passo è una fitta allo stomaco; vorrei fermarmi, ma sarebbe solo peggio. Mi sorprendo della mia lucidità. Sono passate più di dieci ore dalla partenza, ho fatto cinquanta chilometri e sono perfettamente presente. Decido che devo correre, che devo dimenticarmi del mio stomaco, delle punture di vespa prese in mattinata, della gola arsa, dei sassi che in discesa sbattono sulle caviglie, dei dolori che arrivano tutti assieme. Il mio ginocchio sinistro mi avvisa subito: “non ci provare a correre in discesa”. Lo ignoro, è in buona compagnia con tutto il resto, penso.

Ignoro anche la fame. Mi sorprendo del fatto che riesco a scherzare con me stesso, e ricordo tra me e me la battuta che facevo il giorno prima osservando il fisico degli altri partecipanti: “vincerò la mia classifica speciale, quella degli atleti con la pancia”. Di energie in corpo ne ho, si tratta solo di trovare il modo di utilizzarle.

Cerco un pensiero positivo, ho bisogno di tenere la testa altrove. Ho bisogno di ignorare i segnali negativi che mi manda il mio corpo e tenere duro. Ho passato i primi trenta chilometri in sospensione, come in una favola. Ora la realtà mi riporta a terra.

Non voglio pensare al lavoro, non voglio pensare ai casini quotidiani, cerco un pensiero positivo. Allora decido che scriverò questo post, che voglio raccontare come si possa affrontare una sfida complicata e non perdersi d’animo quando le cose vanno peggio del previsto. Comincio a ricostruire le ore precedenti, a fissare le emozioni, le sensazioni e gli stati d’animo.

Determinazione e forza di volontà: sono sempre state due mie caratteristiche, nel bene e nel male. Mi attacco a quelle, sia mai che per una volta non diventino utili.

E intanto scendo. Sto correndo. Decido di correre finché il mio ginocchio sinistro non mi urla tutto il suo dolore. Quando penso di non farcela più, continuo a correre contando fino a dieci e poi rallento, cammino un po’ e riparto a correre.

Funziona. Non sono mai stato così bene stando male.

Poi di colpo vomito. E rinasco. Dopo sei ore di violente fitte allo stomaco, mi pare di stare in paradiso. Saranno passate dodici ore dalla partenza e sono felice.

Dovrei incontrarmi con Laura al rifugio Selvata, ma sono in ritardo. Quando arrivo Laura non c’è, proseguo per il Croz dell’Altissimo, ma è andata via anche da lì. Peccato. Mi sarebbe piaciuto fare gli ultimi chilometri in sua compagnia. La strada dopo il Croz è incantevole, e io sto correndo. Dopo sessanta chilometri sto ancora correndo, mi pare impossibile: che straordinario miracolo è il nostro corpo.

Ormai ho superato la prova, gli ultimi chilometri sono una passeggiata, non serve più la concentrazione delle ore prima. E la mia testa va, si perde in mille riflessioni, sulla poesia di quel momento, sul darsi obiettivi complicati, anche se sai quanto sia difficile raggiungerli, sulla soddisfazione di raggiungerli poi, sulla forza della testa rispetto alle debolezze del corpo, sull’importanza di essere lucidi nei momenti che contano, sul non mollare mai. Penso tra me e me che ho contraddetto tutte le buone pratiche di un trail, dall’allenamento al vestiario, dal cibo alla condotta di gara, eppure ce l’ho fatta.

Fortuna che sono solo, perché indosso un sorriso ebete che mi sta perfetto. Mi godo gli ultimi chilometri. Vado pianissimo perché ormai la sfida è superata e non c’è motivo per mettere in crisi ulteriormente le ginocchia. Avevo un obiettivo: arrivare prima della notte. C’è ancora tanta luce, ce la farò.

L’arrivo è splendido. Dopo tante ore di sassi e rocce, la morbida erba della spiaggia di Molveno sotto le scarpe è come una carezza. Dopo oltre tredici ore e mezzo taglio il traguardo. Vorrei che il mondo si fermasse lì. Sono felice, sereno, quasi riposato, sto bene. Non mangio da nove ore, ma non importa. Saluto e ringrazio gli amici del Trentino Trail Running che hanno organizzato e che sono lì ad attenderci, scambio due battute e vado a cercare Laura. Ci siamo rincorsi tutto il giorno, è il momento di abbracciarci.

Chiudo con doccia meritata, un piattone di pasta, e tanti ricordi da tenere stretti stretti tutti per me.

Per finire: le domande che mi hanno fatto in tanti.

Lo rifaresti? Subito.

Lo consiglieresti? A tutti, a ognuno la sua distanza.

Lo rifarai? Non credo :-)

--

--

Sergio Cagol

Non seguitemi, mi sono perso anch’io [cit.] In quest’epoca di cambiamento perpetuo, l’unica regola è continuare a cercare. https://sergiocagol.it