Illustrazione di Hervé Baudry, dopo gli attentati del 13 Novembre a Parigi

Le parole giuste per dirlo

Lo smarrimento di una collettività che dopo Parigi ha capito che sta succedendo qualcosa di enorme

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di Alessandro Gilioli
illustrazione di
Hervé Baudry

Nel flusso ininterrotto di parole che ho silenziosamente seguito in queste ore, mi ha fatto pensare una riflessione di Federico Ferrazza, (direttore di Wired Italia, ndr), uomo che di mestiere segue le grandi trasformazioni tecnologiche e sociologiche in corso nel mondo; e che notava ieri come «in un’epoca in cui stanno cambiando le definizioni di tutti i nostri contenitori (famiglia, lavoro, salute) facciamo fatica a capire che si tratta semplicemente di una guerra».

È vero solo in parte, che si fa fatica a capire che si tratta di una guerra: anzi, molti non fanno che ripeterlo quasi con entusiasmo neofuturista da “igiene del mondo”.

Vero, verissimo, è invece che la complessità e la velocità dei cambiamenti è maggiore della capacità di adattamento delle parole, del linguaggio: quindi del nostro parlare e del nostro ragionare.

Ferrazza accenna ad esempio alla parola lavoro, e non c’è dubbio che questa sia diventata imprecisa nel definire vite dove tempo del lavoro e tempo del non lavoro si mescolano come il tuorlo e l’albume di un uovo strapazzato.

E sì, si è sfocato anche il termine famiglia, che ha iniziato a confondersi rispetto alla sua vecchia identità anche prima che si parlasse di quella gay — semplicemente con la rivoluzione dei costumi di mezzo secolo fa — tanto da generare tentativi di ridefinizione con ulteriori specifiche tipo “allargata” o “liquida”, “arcobaleno”, che in realtà certificano solo l’incapacità di trovare termini più aderenti al nuovo reale.

L o stesso tipo di sorte ha subito appunto da una ventina d’anni la parola guerra, a cui pure si è aggiunto un aggettivo (“asimmetrica”) per cercare di ricondurre a una cosa vecchia e conosciuta qualcosa di nuovo e di più complesso, scivoloso, nebbioso.

In altre occasioni abbiamo addirittura rovesciato il vocabolario definendo le nuove guerre “missioni di pace”, e qui l’insufficienza semantica del vecchio vocabolo è diventata uno strumento e un alibi per perpetrare un inganno politico e mediatico.

Ma al netto dei trucchi ipocriti, è vero che la parola guerra spesso non definisce più gli accadimenti contemporanei o al massimo li definisce alla carlona: un po’ come quando un mio più anziano collega, una quindicina di anni fa, diceva “registrami questa canzone sul computer” intendendo “scaricami questo brano da Internet”. Non era sbagliato, ciò che diceva; era solo impreciso e obsoleto, frutto di un linguaggio che non sapeva adattarsi al presente. Proprio come quando oggi parliamo di lavoro, famiglia, guerra.

D’altro canto, sono ormai due o tre decenni che nel mondo le guerre si combattono senza dichiararle, come si faceva invece nel secolo scorso: quando all’ambasciatore nemico si consegnava una lettera e poi lo si metteva sul primo treno per oltre confine. Anche questo mutamento rituale qualche cosa vuol dire: si mantiene la parola ma se ne rigettano i consequenziali addobbi, come se si avesse una vaga coscienza che con quel vocabolo ormai s’intende altro. E quanto ci sono sembrati fuori tempo i parlamentari italiani che il mese scorso hanno dibattuto sulle nuove modalità costituzionali per proclamare lo “stato di guerra”? Quanti lustri sono che si combatte — si muore, si uccide — senza bisogno di quell’antico passaggio formale?

Non so quindi neanch’io come chiamarla, questa cosa che chiamiamo guerra. Ma so che la parola vecchia non funziona più, almeno non più molto bene.

Ma, soprattutto, quest’esercizio di umiltà linguistica potrebbe venire utile anche nell’accostarci a tutto il resto della realtà che a questa guerra sta intorno, anch’esso definito con terminologie non più bastanti.

Prendete ad esempio, se siamo in guerra, anche il fronte: ed è chiaro al primo sguardo come questo sia oggi incerto e discontinuo, da downtown Manhattan alla periferia di Kobane, dai cieli del Sinai alla stazione di Madrid, dai teatri di Parigi alle coste della Somalia — e domani chissà. Come si fa a definire fronte questa mappa mondiale a macchia di leopardo, così straordinariamente confusa e mutevole? Tecnicamente, del fronte non ha proprio nulla.

E poi, ancora di più, sentite quanto suona sbilenco in questo disastro il termine alleati: al momento — cioè contro l’Isis — più consono all’Iran degli ayatollah che ai prìncipi dell’Arabia Saudita, benché questi siano ancora amici di sangue della Casa Bianca e dell’Occidente in genere. Per non dire della Turchia, addirittura nostra cugina dentro l’Alleanza Atlantica, che tuttavia bombarda chi sul campo combatte contro il Califfo. Alleato, che parola rasa al suolo da questo decennio.

E poi c’è l’ultimo termine dissestato dal presente, forse quello più rognoso di tutti, che è nemici.

Perché, certo, nemici sono i terroristi di Daesh e quelli di AlQaeda, più i loro simili con altre sigle, e fin qui si è tutti d’accordo. Peccato che poi, per molti qui in Europa, nemici siano anche gli islamici in generale o addirittura i non cristiani, forse gli immigrati, magari i “buonisti”; mentre per altri — e io tra quelli — i nemici in questa guerra sono tutti gli odiatori reciproci per credo religiosi o etnici o d’altro tipo ancora, nemici sono gli intolleranti, i confessionali, i fondamentalisti, gli identitaristi, quale sia il dio in nome del quale sono tali.

L’abisso di opinioni su chi siano i nostri nemici non è nuovo — da noi, risale almeno allo scontro tra Fallaci e Terzani nel 2001 — ma si rinfocola ogni volta che scorre il sangue in America o in Europa e rende bene l’idea di come anche questa parola abbia perso il suo senso condiviso, rispetto alle guerre del secolo scorso.

Ricapitolando, siamo di fronte a una cosa che chiamiamo guerra solo per vetustà, comodità, per incapacità di formulare un termine più adatto a ciò che avviene; e che accade su un fronte indefinito, incerto, ogni giorno cangiante; con alleati che non sono tali e non alleati che invece ci aiutano, più o meno; e comunque senza neppure trovarci lontanamente d’accordo su chi sono — se non i nemici — di certo gli alleati dei nemici.

Probabilmente è figlia di tutto questo, la sensazione comune di queste ore, di questi giorni.

Che è non solo di paura, ma soprattutto di smarrimento.

Lo smarrimento di una collettività che ha capito che sta succedendo qualcosa di enorme, ma non possiede le parole giuste per dirlo.

(pubblicato originariamente su gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it on November 15, 2015)

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