Ma Ken Loach, in fondo, è un ottimista

La forza straordinaria delle relazioni umane, dell’empatia, della solidarietà

Alessandro Gilioli
3 min readNov 1, 2016

Di Alessandro Gilioli

Difficile vedere in “Io, Daniel Blake” tracce di fiducia e di speranza. Tanto meno di “militanza politica”: il protagonista non ha uno straccio di sindacato o di partito a cui rivolgersi, in cui identificarsi, nel quale trovare strumenti di lotta collettiva.

Gli spettatori — i più sensibili, almeno — escono quindi dal cinema con gli occhi lucidi. O comunque con sentimenti assai più cupi di quelli che accompagnavano il finale di “Il pane e le rose”.

Invece Daniel Blake — il film e lui stesso, il protagonista — mostra un tesoro inestimabile e di cui spesso ciascuno di noi dubita: la forza straordinaria delle relazioni umane, dell’empatia, della solidarietà.

Non sto scherzando. Tutto il film è disseminato di questo messaggio.

C’è prima di tutto il rapporto di limpida amicizia tra il disoccupato in età Daniel e la madre single Katie: un’amicizia che è anche mutualistica, perché prima lui aiuta lei poi sarà lei ad aiutare lui.

C’è la complicità di Daniel con il giovane vicino di origine africana, di nuovo solidale e a tratti mutualistica: Daniel lo aiuta nel business delle scarpe, il ragazzo ricambierà dandogli una mano coi moduli on line — e gli offrirà una disponibilità totale vedendolo vendersi i mobili.

Ci sono inoltre tanti gesti di generosità gratuiti: il direttore del supermercato che grazia Katie quando lei è beccata a rubare, le donne del banco alimentare che si fanno in quattro per la ragazza che sta male, l’ex collega che passa a Daniel un legno da lavorare, la funzionaria dell’ufficio disoccupazione che lo aiuta di nascosto.

E ci sono anche gli applausi dei passanti (superficiali, ma autentici) quando Blake inscena la sua protesta davanti all’ufficio che gli nega l’assegno a cui ha diritto.

C’è insomma (al netto dei pochi servi dell’ingranaggio) un’umanità sana.

Ed è questa la speranza di Ken Loach, quella che cerca di trasmetterci. L’ultima barriera di civiltà e di futuro quando è già finito tutto il resto: il lavoro, il welfare, il partito, il sindacato, la sinistra, la lotta.

Non so se Ken Loach ha ragione: o se, al contrario, il tratto caratterizzante di questo difficile passaggio storico sia proprio il contrario. Cioè la disgregazione egoistica. Il tutti contro tutti. Gli odiatori di ogni categoria diversa dalla propria, giovani contro vecchi, precari contro operai, indigeni contro immigrati e così via all’infinito.

Non sono affatto sicuro che Loach abbia ragione, ad esempio, quando vedo i disumanizzati di Goro, i seguaci incazzati di Trump, i livorosi lettori di Libero. Ma non perché questi sono “di destra”: semplicemente, perché non vedono l’uscita dalla propria disperazione nella solidarietà mutualistica con altre disperazioni, bensì nel ridurre l’altro in una condizione di disperazione peggiore della propria.

L’opposto dei personaggi di Loach, insomma.

Ecco perché non si può essere sicuri che abbia ragione, l’ottimista Loach.

Si può solo sperarlo — tantissimo — e non smettere mai di sperarlo.

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