Destinazione Minorca

zage
17 min readJun 20, 2015

Racconto di viaggio

Di chihuahua astronauti, karaoke stonati, riti
di iniziazione, ricette per il pane, veneri nudiste
e spiagge paradisiache di un’isola che nessuno dovrebbe conoscere.

Ad accompagnarci durante il check-in e l’imbarco c’è Vittoria. Vittoria è un chihuahua bianco “da braccio”. La sua padrona, una signora di cinquant’anni, la tiene come un trofeo sul proprio avambraccio. La tiene per così tanto tempo che cominciamo a credere che l’arto sia finto. Per quanto abbiamo potuto osservare, Vittoria non tocca mai terra. Forse non l’ha mai toccata e pensa di essere un’astronauta. Avrà anche dei tubicini per i bisogni che vanno a nascondersi da qualche parte, sotto la maglietta della signora. Ci convinciamo che la padrona sia un robot e che Vittoria la guidi con dei controlli sulla mano. In aereo la perdiamo di vista. Probabilmente avranno dovuta metterla in una gabbietta, signora e tutto.

Con questi pensieri per la testa, in poco più di un’ora e mezzo, cambia il paesaggio attorno a noi. Dalla laguna di Venezia, all’isola di Minorca.

Il primo sguardo all’isola offre un territorio desertico. L’erba arsa, i cespugli di rovi e i rari vigneti sono tutta la vegetazione di cui si può godere. La strada ondeggia dolcemente sulle basse colline bruciate dal sole.

Nel tragitto verso l’albergo attraversiamo il piccolo paesino di Sant Climent che ci getta subito in un’atmosfera che trasuda Spagna. Sopra di noi si agitano festoni colorati appesi tra le basse case dalla facciata bianca e i cornicioni celesti. Alcune transenne stanno contenendo una grande festa poche vie più in là, dove la banda in camicia bianca intona note che non arrivano a noi. Il resto della città è desolato, tranne per pochi cani randagi e gruppetti di giovani che si affrettano, cerveza in mano.

Cala en Porter

Cala en Porter è un piccolo villaggio turistico sulla costa sud che ci ospita per tutta la vacanza e che ogni tanto utilizza il font “Comic Sans” sui cartelli stradali. È fastidiosamente inglese. Nei pub i camerieri neanche sanno parlare lo spagnolo; i biondissimi avventori con la pancia da birra urlano con forte accento cockney contro le partite di soccer alla tv; i ristoranti pubblicizzano pancake, hamburger e breakfast pantagruelici;

Nei karaoke serali gruppi di amiche pallide e obese ascoltano duetti imbarazzanti e stonati, su canzoni dei Muse.

Dall’albergo 180 gradini scendono fino a una spiaggia che non si trova nelle classifiche ma che è indubbiamente meravigliosa. Un’acqua trasparentissima, una sabbia bianca che non si scalda mai e una folla contenuta per gli standard balearici. Due alte rupi la costeggiano creando una strana eco. Ci sorvegliano da una parte le casette della città arroccate in alto, dall’altra le aquile che sorvolano la vegetazione incontaminata.

Macarella

La mattina del lunedì percorriamo con un auto noleggiata l’unica strada che permette di attraversare l’isola. La radio minorchina propone a rotazione She’s So Lovely, una hit (?) del 2007 degli Scouting For Girls.

Per raggiungere la costa dalla strada principale bisogna imboccare le vere arterie dell’isola: strette viuzze tortuose, ottime per un rally, costeggiate da interminabili muretti di pietra a secco che diventeranno uno dei ricordi più vividi dell’isola. Le strade sono tutte ben segnalate e quasi sempre in ottime condizioni, ma sembra che ci sia una certa ossessione nella costruzione dei muretti, nati probabilmente con la scusa di recintare pascoli di capre, cavalli, vacche bianche e nere che sì, si incontrano qua e là, ma non così numerosi.

Sotto sotto però sembra celarsi un nervoso senso di proprietà privata per i loro cotos privados de caza (come viene avvertito sui cancelletti di legno). Sulla carta dovrebbero consentire il passaggio agli estranei, ma in tutta probabilità garantiscono una schioppettata accidentale dai cacciatori. I muretti sono talmente aggressivi che le strade diventano troppo strette e in alcuni casi il transito è consentito in un solo senso. Spesso è addirittura impossibile sostare sul ciglio e per questa ragione la disponibilità di parcheggio alla spiaggia viene segnalata da cartelli luminosi molti chilometri prima.

Giusto per capirsi: al di là dei muretti
c’è sempre e solo erba arsa.

Ad ogni modo il nostro cartello luminoso dice che ci siamo svegliati troppo tardi e che il parcheggio di Cala En Turqueta è esaurito. Così deviamo per Macarella, seconda in lista.

Si tratta di un’insenatura attorniata da alte rocce e boschi. L’acqua qui è un po’ sporca e lattiginosa, ma solo per il primo tratto. Superata la folla di gente l’acqua diventa bellissima e prende tutte le sfumature di verde che esistono in natura.

In spiaggia (ma l’avevamo imparato ad Ibiza) giovani studentesse si guadagnano la paga estiva vendendo a trenta euro vestitini leggeri comprati con tutta probabilità in negozi cinesi a dos eulos (sic).

Però ti fanno la sfilata,
con ombrellino e molta convinzione.

Macarelleta

Dopo aver pranzato con panini al cheddar e fettine di tacchino confezionate extra jugosas (succose, come tengono a pubblicizzare), percorriamo un sentiero che sale intorno alla caletta rocciosa per tuffarsi nella più tranquilla e riparata Cala Macarelleta, un gioiellino di Minorca.

L’acqua è così trasparente che le barche, le canoe, gli snorkeler sembrano galleggiare nel nulla con la loro ombra ben visibile sul fondale. Aspettiamo il tramonto attorniati dalla natura incontaminata e qualche nudista, ancora stupiti dall’essere in un posto così incantevole di cui non si parla molto.

Tornati nella sera calda di En Porter ci imbattiamo in uno spettacolino all’aperto di un quartetto di neri doo-wop in giacca di lustrini. Cantano e ballano successi ‘60-’70 come solo loro sanno fare. Coinvolgono tutti, ma proprio tutti, culone inglesi e camerieri che lanciano via i vassoi. Andiamo a dormire, cantando Shout degli Isley Brothers.

La mattina scosto le tende della finestra che dà sulla nostra bella cala e vedo un cielo sgombro di nuvole e le palme che si agitano con forza. È più divertente ricordarsi Minorca come isola della maionese, ma sarebbe più nota come isola del vento. Uno esperto sa che si tratta di Tramontana. Uno esperto sa che spira da nord. Uno esperto in una giornata di Tramontana evita le spiagge del nord.

Quella mattina decido di esplorare
le spiagge del nord.

Cavalleria

Raggiungendo il parcheggio deserto di Cavalleria, nota come Platja Roja, vediamo il paesaggio cambiare considerevolmente intorno a noi. Ha un aspetto africano, il terreno è argilloso e colora tutto di rosso, le rocce sono più scure. Sembra di essere in un’altra isola, in un altro continente.

Oltrepassata la sommità di una collinetta si staglia davanti a noi un panorama dipinto dalle forze della natura: la spiaggia giallo rossa è investita da alti cavalloni la cui cresta bianca acceca per il contrasto col grigio del mare, le onde sbattute contro gli scogli neri si alzano cercando di afferrare le nuvole che corrono veloci sopra di noi, il vento sferza tutta la costa e i nostri visi sono punti da granelli di sabbia lanciati come spilli.

Resistiamo mezz’ora, incappucciati e avvolti nei nostri teli, in compagnia di altri pochi sprovveduti e un giovane bagnino armato di tavola da surf.

Prima di ripiegare a sud passiamo per la vicina Pregonda con una lontana speranza che sia riparata dai venti. Desistiamo presto e ci limitiamo a guardare la costa da lontano, dietro un muretto a secco col filo spinato,

Col presentimento che dal mare sconvolto possano spuntare le imbarcazioni d’assalto del D-day.

Binigaus

Ci coccola Binigaus, una lunga spiaggia di sabbia bianca finissima lungo la costa meridionale. La distesa di mare azzurro e trasparente come una piscina (uno dei mari più belli di Minorca) è rotta solo da un’isolotto di rocce che dona carattere al panorama.

Qui non arriva il clima di Cavalleria. L’acqua è calma e calda, la sabbia scotta e una bassa costa d’argilla ci ripara dal vento che spira alle nostre spalle. Alcuni bagnanti inumidiscono le pareti rocciose e ne raccolgono il fango argilloso. Si spalmano corpo e viso, fino a diventare dei golem rossicci, e vanno a seccarsi al sole.

Es Castell

Le strette vie dell’isola prive di lampioni, ma illuminate a giorno da una magica luna piena, ci portano nel minuscolo e affollato porto di Es Castell. Al contrario di quanto ci si aspetta da un porto, l’acqua è cristallina e per niente inquinata. Si scorgono nitidamente i banchi di enormi — tiro a indovinare — pescegatti che la popolano e che protendono le loro bocche baffute in attesa che cadano briciole dai tavoli dei ristoranti a mezzo metro di distanza.

O che cadiamo noi,
dallo stretto e tremolante boardwalk.

Entriamo in caratteristici negozietti ricavati all’interno di fresche grotte naturali, una volta usate come magazzini dai pescatori. Gustiamo un gelato, che si dichiara italiano, di El Cucurucho, dove si trovano gusti come “Oreo” o “Filipinos”. Per la prima volta considero che a Minorca non s’incontrano zanzare.

Son Saura

Un nuovo giorno, le sveglie suonano presto: abbiamo deciso di attaccare nuovamente Cala Turqueta. Alle rotonde di Ciutadella i cartelli luminosi ci dicono che il parcheggio è libero e proseguiamo felici. Alcuni minuti dopo e a pochi chilometri dalla spiaggia, un altro cartello ci dice che nel frattempo è stato raggiunto il numero massimo di auto.

Affranti, noi (e tutti quelli che ci guidavano davanti) prendiamo il bivio per la vicina Son Saura, col terrore che il posto si stia esaurendo anche lì.

Ci torna subito alla mente la Sardegna: uno splendore d’acqua trasparente, una lunga spiaggia attorniata dalle dune. Si sprofonda in una sabbia bianca estremamente fina coperta da una prateria di posidonia, l’alga che non viene raccolta per non danneggiare l’ecosistema. La spiaggia è vuota… per breve tempo. A quanto pare questo luogo è meta di numerose escursioni organizzate che con i loro comodi barconi dal fondo di vetro vomitano frotte di turisti ad ogni ora.

Turqueta

Al pomeriggio il caldo si fa pressante e visto che Turqueta è lì vicino, le diamo l’ultima possibilità. Torniamo al bivio ma il cartello luminoso segna ancora un rosso lleno. È presente anche un addetto al conteggio delle macchine e a lui facciamo gli occhi dolci,mostriamo come la nostra Micra verde sia pequeña pequeña e ci facciamo dare il permesso di passare ugualmente. Scopriamo che c’è un sacco di posto e che evidentemente si tengono assai larghi coi conteggi.

A Minorca per raggiungere la maggior parte delle spiagge è necessaria una lunga camminata sotto freschi pini. È così importante questa camminata che non solo significa che a ridosso delle spiagge non ci sia alcun lugubre hotel o altra costruzione umana.

È un vero e proprio rito di iniziazione che ti spoglia dalla crosta metropolitana e ti immerge con violenza nella natura incontaminata.

Quando sbuchi nella spiaggia ti senti sperduto. E felice.

Turqueta è un piccolo paradiso, caraibico dicono, ma preferisco non fare paragoni (d’ora in poi un paradiso sarà per me minorchino). Ricorda Macarella per acqua e vegetazione. La baia è attorniata dal verde, da alte scogliere nude e levigatissime da cui ci si tuffa in un’acqua che ha dei bei colori turchese e smeraldo, il fondo è sempre ben visibile.

Due romani, un ragazzo e una ragazza, sono stesi dietro di noi:

“Se po’ fa’ il pane in casa?”

“Ce sta ‘n zacco de ggente che o fa.”

“Farina… acqua?”

“Sicuramente ce sta un miscuglio de farine… oh guarda là, ce sta un nuddista! UN nuddista. Uomo, no donna.”

“Qui in Spagna c’è una cultura diversa. Se noti so’ più scosciate, se vede l’ombellico…”

“Mejo la nostra mentalità! No no, non è cultura, è sempre e solo esibbizione. Ma che cazzo me rappresenta? Camminà vicino al ragazzino, tutto barzocchiotto… non esiste proprio! Oltre al fatto che c’ha un bellissimo viso, te guardo er viso mica serve che te guardo er batacchio.”

La mattina scosto le tende della finestra che dà sulla nostra bella cala e… niente vento. Sono uno esperto ormai, io.

È ora di riprovare le spiagge del nord.

Platjes d’Algajarens:

D’Es Bot

D’Es Bot è una spiaggetta del nord attorniata da bassi rilievi. Quasi non ci sorprende più, per come ci sta abituando Minorca. L’acqua è azzurra e trasparente e al di là di un piccolo promontorio boscoso intravvediamo un’acqua ancor più verde smeraldo.

Per esperienza abbiamo visto che la prima spiaggia è sempre accompagnata da una seconda leggermente più difficile da raggiungere e che nasconde tesori meno noti. Così decidiamo di non fermarci e di cercare subito un modo per superare il promontorio.

È un labirinto di sentieri che spesso portano a vicoli ciechi e dove si incontrano pochi turisti con lo sguardo sconfortato. I più volenterosi raggiungono la punta rocciosa del promontorio da cui finalmente si può vedere cosa si cela dietro.

Platjes d’Algajarens:

Es Tancat

È una distesa smeraldo attorniata da natura vergine, ma da questa posizione, a meno di voler scalare gli scogli, non è raggiungibile. Così torniamo indietro. Riproviamo ogni sentiero ma non c’è niente da fare.

Proprio quando raggiungiamo la soglia della rassegnazione scorgiamo due bambini prendere sicuri un sentiero nascosto tra la vegetazione, il più stretto, il più lontano, il meno probabile. Corrono e noi li inseguiamo addentrandoci a fatica tra le invadenti frasche. Sembra che il cammino aggiri il promontorio da dietro.

Sbuchiamo davanti a un grazioso fiumiciattolo paludoso attorniato da un alto canneto. I bambini oltrepassano una duna e scompaiono. Si odono lontane le risate cristalline di giovani ragazze. All’improvviso dal nulla ci corre incontro un grande labrador. Divertito si tuffa in acqua a rinfrescarsi. Lo inseguono tre veneri nudiste che se la ridono e rimangono indecise sul bordo se tuffarsi o spingersi dentro l’un l’altra per scherzo.

In tutta franchezza non erano veneri. Non erano neanche lontanamente belle.

Anzi erano abbondantemente sovrappeso,
ma la situazione e tutta l’atmosfera le faceva sembrare le custodi di un Eden.

Al di là della duna finalmente si svela la lunga spiaggia e il bellissimo mare di Es Tancat, che degrada così lentamente da permettermi di spingermi un centinaio di metri dalla costa con la macchina fotografica.

Qui c’è poca gente. Quelli che sanno seguire il filo di Arianna e le italiane con la puzza sotto il naso.

I loro “canotti” con cui arrivano dai catamarani ormeggiati in mezzo al panorama.

Binimel-la

Pregonda

Pregondò

Il pomeriggio rimaniamo a nord e proviamo ad affrontare Pregonda, l’ultima volta vista da molto lontano, dietro a un filo spinato.

Dopo le solite viuzze con muretti a secco si raggiunge un tratto di larghissima strada sterrata così sconnessa che sono esposte a monito carcasse di marmitte.

Il navigatore esorta “tornate indietro quando potete” e io sento “tornate indietro voi che potete”.

Raggiungere Pregonda richiede una lunga camminata dal parcheggio. Si passa uno stagno popolato da anatre, si cammina sulla grossa arenaria scura della spiaggia di Binimel-là. L’acqua del mare qui non viene esaltata dalla luce del pomeriggio. Oltre una collina si è investiti dalla bellezza di un paesaggio desertico attorniato da dolci poggi di cespugli verdi (Hobbiville?) che contrastano col terreno rosso fuoco (Marte?) che sporca ogni cosa e fa arrivare da sotto il calore di un forno.

Si cammina in questo nulla, a bocca aperta, occhi spalancati. C’è una seconda spiaggetta. Desolata… a seconda dei punti di vista. Col tempo è nata una colonia infinita di “omini di pietra”, cumuli di ciottoli di tutte le altezze che chiunque passi contribuisce a costruire o rimettere in piedi. L’effetto è magico, ce ne sono a migliaia.

Dietro l’ultima altura finalmente sorge Pregonda e le solite barche ormeggiate al largo. Siamo subito attratti da una calettina nascosta a destra.

Quando pensavamo di aver visto il meglio dell’isola e che il livello di bellezza non potesse essere superato, veniamo smentiti con violenza. È un luogo roccioso, le pietre sono bianche, rosse, gialle e nere, con fanghi argillosi tra le fenditure, l’acqua è trasparente e di un verde intenso, un isolotto ci nasconde da viste indiscrete.

Il sole è vicino al tramonto e la luce dorata inonda ed esalta i colori di questo paradiso rotto solo dagli schiamazzi esagerati dei turisti italiani (ma immergetevi nell’acqua, chiudete gli occhi e immaginatela senza, come facevo io).

Binibequer Vell

A Binibequer Vell si arriva con una comoda strada da Maò.

Oppure ci si arriva seguendo i segnali stradali che ti conducono su strade senza linee di carreggiata, senza lampioni, attraversate dalle lucertole, attorniate solo da arbusti secchi claustrofobici. Unico punto certo la luna.

Nessuno le percorre e a un certo punto si comincia a pensare che sia tutto uno scherzo per turisti e che la strada finirà direttamente in mare dopo la prossima curva.

Invece alla fine si raggiungono i silenziosi quartieri di Binibequer. Si intravedono delle luci in fondo a una via e seguendole si arriva in un frenetico paesino completamente costruito con roccia bianca e cornicioni marroni. La chiamano la città di “panna e cioccolato”.

È costruita senza un minimo disegno geometrico da un architetto che ha utilizzato solo la parte destra del cervello. Ho visto posti identici nei miei sogni. Le stradine percorribili solo a piedi si insinuano tra le case, diventando cunicoli bianchi che diventano scalette bianche che si aprono su piazzette mignon che danno su altri bivi e altre scalette bianche. È tutto curvo, non c’è nulla di squadrato. Escher osserva da una delle finestre, buchi messi a caso sulle pareti, tutti perfettamente disallineati.

I cartelli invitano al silenzio.

Riemergiamo nella piazza centrale e proviamo il Gelato 57, un prodotto tipico del posto. Rimaniamo abbastanza delusi. È una tavoletta confezionata coperta di cioccolato, con marmellata di fichi, vaniglia, un pan di spagna imbevuto di caffè, col sapore delle cose confezionate.

Prima di tornare a casa rientriamo nel labirinto prendendo bivi a caso e perdendoci volutamente ancora per un po’.

Mitjana, Mitjaneta

Mitjana è ormai un classico. Una lunga scarpinata sotto il bosco per raggiungerla, una cala rocciosa che accoglie una lunga lingua di sabbia e un’acqua verde-azzurra.

Siamo ormai così assuefatti da questi paesaggi
che alziamo un sopracciglio e cerchiamo subito di meglio spingendoci ad esplorare i dintorni.

Mitjaneta è un’insenatura rocciosa riparata dalla vista della cala più grande. L’acqua, inutile dirlo, è da urlo. Qui però non c’è proprio posto per stendersi così per stare più comodi a pranzo torniamo a Mitjana da dove inizieremo la nostra ultima avventura.

Trebaluger

Trebaluger è nella nostra lista di spiagge che a fine vacanza doneremo a una coppia di italiani in albergo. Da quanto sappiamo si raggiunge solo da qui. Il problema però è che non c’è nessuna segnaletica.

La scelta più ovvia ci sembra quella di prendere il sentiero battuto che parte proprio dietro la spiaggia. Si tratta del famoso Camì de Cavalls, un antico sentiero che univa le torri di vedetta lungo l’intero perimetro dell’isola. Col sorriso, l’entusiasmo, e i pesanti zaini ci incamminiamo.

Le prime diramazioni non ci preoccupano. Teniamo d’occhio alcuni cespugli di riferimento e proseguiamo.

La mia fidanzata continua a ripetermi che è un po’ strano che nessun altro stia facendo questa strada. Ma io fiero continuo. È il Camì de Cavalls, percorre tutta la costa.

Dopo un po’ la mia fidanzata mi fa notare che non si sente neanche più il mare. Oppure si sente, dalla parte opposta, vittima di qualche eco che risuona. Felice del suono dei pettirossi, insisto.

All’ennesimo bivio, col terrore di rimanere dispersi nel bosco più profondo torniamo indietro.

A Mitjana c’è una scaletta che sale la scogliera,

c’è un cartello a forma di freccia,
con disegnata una freccia.

Eppure non ci sembra così ovvio e così, una volta saliti sopra la costa, ci inoltriamo nel bosco seguendo coppie di turisti a caso. Rischiamo di perderci nuovamente e capiamo che l’unico modo per arrivare a Trebaluger è… seguire i cartelli a forma di freccia con disegnata la freccia.

Il sentiero è molto lungo, si allarga, si stringe, sbuca in praterie trivellate dalle talpe, riprende nel sottobosco e finisce scendendo la costa con scalini ricavati dalla roccia.

Ogni quarto d’ora s’incrocia un turista
che ti dice che manca un quarto d’ora.

Siamo così spossati che vogliamo arrivare solo per sfida e veniamo ripagati dalla vista di un mare verde fosforescente che fa capolino tra le fronde degli alberi.

Maò

La sera vogliamo visitare il porto della capitale. È la capitale, sarà pieno di gente. E invece tutti i negozi sono chiusi, tranne poche gelaterie con una finta bandiera italiana. Le strade sono deserte. C’è un festival musicale nelle piazzette, anch’esse deserte, dove suonano gruppetti locali ascoltati dai loro tre amici. Ogni tanto si incrociano gruppi dispersi di turisti nelle loro avarques, le calzature tipiche di qui. Lungo il porto ci sono i soliti ristoranti che ci tengono a dirti che la pizza è fatta in casa.

Affranti decidiamo di tornare indietro. Sono le undici e un quarto e le gelaterie che avevamo incrociato all’andata sono tutte chiuse.

Ultimo giorno

L’ultimo giorno ci svegliamo molto lentamente.

Ci dedichiamo molto lentamente ad un late breakfast. Pane imburrato, mix di succhi di frutta, un tè, un uovo all’occhio con pancetta croccante, un croissant alla marmellata, un muffin. Non osiamo prendere fagioli e ketchup come fa il bambino inglese pochi tavoli più in là.

Abbiamo riconsegnato la macchina a noleggio e così non ci resta che scendere i 180 scalini della nostra spiaggia.

Molto lentamente.

Agosto 2013

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