Perché servono le competenze tecnologiche del “saper fare”

Non basta “saper gestire” o “saperne parlare”: bisogna conoscere la “materia prima”

Alfonso Fuggetta
La bella terra

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1. Una disputa infinita

I tecnologi e le tecnologie in Italia non vanno molto di moda. Non è facile per un tecnologo raggiungere cariche di rilievo sia nel privato che nel pubblico. È un fatto. Perché accade? Ed è questo un fatto positivo o piuttosto un problema sul quale sarebbe necessario riflettere con maggiore attenzione?

Le tecnologie nelle imprese

Guardando il mondo delle imprese, indubbiamente lo scetticismo e la “lontananza” verso le tecnologie e i tecnologi è giustificata da molte “ubriacature da tecnologia” del passato che hanno generato in tanti casi solo sprechi e fallimenti. Nei primi anni 2000, un famoso articolo di Nicholas Carr (“IT Doesn’t Matter”) analizzò tutti questi fallimenti e ne trasse conseguenze piuttosto radicali: l’IT (Information Technology) è una commodity e come tale non costituisce un elemento differenziante o una leva strategica di sviluppo. Ciò che conta sarebbero, per esempio, i modelli di business e organizzativi, il marketing, le strategie distributive.

L’analisi di Carr è stata più o meno consciamente fatta propria da molti manager in giro per il mondo. Purtroppo, in Italia più che in altri paesi, per motivi anche di carattere culturale ai quali accennerò tra poco, le posizioni di Carr sono state estremizzate, creando così una serie di storture e cattive pratiche:

  1. I servizi e prodotti IT vengono acquisiti sostanzialmente sulla base del solo costo, indipendentemente da considerazioni di carattere qualitativo, con conseguenza devastanti sia sulla qualità complessiva delle realizzazione IT che sul mercato dei professionisti del settore.
  2. Le competenze e le funzioni IT sono considerate funzionali alla pura execution e all’operation, e come tali un centro di costo o una funzione di staff (spesso alle dirette dipendenze del CFO o del Manager delle Risorse Umane e non, come sarebbe giusto, del CEO).
  3. L’innovazione digitale viene fatta molto spesso in modo estemporaneo dalle linee di business, spesso senza avere le competenze e conoscenze adeguate per perseguire queste iniziative in modo lungimirante e realmente efficace.

La società

Ma è il paese nel suo complesso ad avere una visione distorta, limitata e sostanzialmente immatura del ruolo delle tecnologie:

  • Ci piacciono i prodotti di ultima generazione che però compriamo e usiamo come gadgets piuttosto che come strumenti per incrementare la nostra produttività. È ciò che emerge in modo disarmante dal confronto tra il tasso di acquisto e diffusione di prodotti come smartphone e tablet, e i trend di (non) crescita della produttività del paese nel suo complesso.
  • I media, la politica, molti opinion makers troppo spesso dipingono le tecnologie e soprattutto la rete Internet principalmente come una minaccia e non come una straordinaria opportunità.
  • Troppo spesso in tanti ambiti piccoli e grandi della nostra società penalizziamo l’uso delle tecnologie digitali. Basti osservare le reazioni alle proposte relative alla promozione dei pagamenti digitali o degli investimenti nelle reti a banda larga: è una continua levata di scudi a metà tra la protezione interessata di monopoli e di interessi consolidati nei decenni, e l’ignorante paura di ciò che non si conosce e non si ha il coraggio e la volontà di studiare.

Le tecnologie sono viste troppe volte come problema o minaccia,
invece che come straordinaria opportunità.

Le tecnologie non sono commodity

Ovviamente, ci sono tecnologie digitali che, come sosteneva Carr, sono commodities. Oggi una chiavetta USB o una memoria su disco o un modem ADSL sono certamente, come tanti altri prodotti, delle commodities. Ma le tante tecnologie che hanno un impatto “disruptive” sulle imprese non lo sono per nulla. Persino applicazioni standard come SAP, da molti considerata una “commodity” nel campo della gestione di impresa, in realtà per diversi aspetti non lo è del tutto. Se lo fosse, perché mai sarebbe così costoso e rischioso affrontare un processo di passaggio a sistemi ERP integrati?

Se guardiamo a tante architetture e soluzioni messe in campo nelle amministrazioni pubbliche viene naturale in tanti chiedersi “ma chi ha concepito quell’obbrobrio”? Oppure, come è stato possibile scrivere norme che non tengono in alcun conto delle caratteristiche, peculiarità, vincoli e trend delle tecnologie? O anche, su quali basi si sono scritte regole e scadenze (spesso impraticabili) per lo sviluppo di certi sistemi e servizi?

Se le tecnologie fossero veramente commodity, dovrebbe essere ovvio e semplice utilizzarle, come nel caso dell’energia elettrica o del gas. Perché non è così?

La verità è che le tecnologie digitali sono in perenne evoluzione e cambiamento. Inoltre, sono molto complesse e hanno un impatto profondo, pervasivo e discontinuo su tutti gli aspetti della vita di una impresa (o di una amministrazione). Per questi motivi, molte di esse per definizione non sono e non possono essere considerate commodity. E se non lo sono, è evidente che conoscerle — bene! — è una precondizione necessaria e ineludibile per usarle con successo.

2. Le sciagurate conseguenze

La valutazione erronea del ruolo delle tecnologie induce una serie di sciagurate conseguenze che sono la causa dei tanti fallimenti totali o parziali che sperimentiamo quotidianamente nell’uso delle soluzioni digitali nelle imprese e nelle amministrazioni.

Non sappiamo distinguere bravi e cattivi professionisti

Troppe volte confondiamo colpe individuali con difetti collettivi. Capita certamente di vedere tecnologi e progettisti che non si curano di tanti aspetti importanti di una soluzione digitale quali, ad esempio, usabilità, efficacia, economicità, coerenza con i processi di business e i modelli organizzativi. Sono cattivi tecnologi e cattivi professionisti. Un bravo tecnologo (e professionista) deve saper concepire e collocare la propria soluzione tenendo conto di tutti gli aspetti che ne determinano il successo. In particolare, deve saper integrare e valorizzare tutte le altre competenze e professionalità necessarie quali ad esempio:

  • Analisi e reengineering dei processi.
  • Conoscenza del dominio applicativo dove si colloca la soluzione.
  • Modelli di business e di investimento.
  • Usabilità e costo delle soluzioni.
  • Comunicazione e supporto agli utenti.

Purtroppo, spesso a fronte di fallimenti e carenze di specifici progetti ci si rifugia nel semplice sillogismo “l’ha gestito un tecnologo, il progetto è andato male, quindi non servono i tecnologi ma altro”. È un sillogismo sbagliato che ignora la causa vera del problema (una scarsa professionalità di “quel tecnologo”) e lo banalizza, illudendosi che si possano utilizzare e plasmare tecnologie complesse (non commodity) senza conoscerle.

Non sappiamo avere una visione strategica

La scarsa o spesso obsoleta e aneddotica conoscenza delle tecnologie impedisce di rispondere a molte domande essenziali:

  • Quali sono le traiettorie di sviluppo delle tecnologie?
  • Quali sono i trend e le velocità che caratterizzeranno il loro futuro?
  • Quali sono i “limiti del possibile” che si possono esplorare oggi e in prospettiva?
  • Quale impatto avranno le tecnologie “su di me” nei prossimi mesi e anni?
  • Cosa si può fare, come, con quali tempi e costi?
  • Quale la relazione con norme, leggi, processi, organizzazione?

La conseguenza è la concezione di soluzioni vecchie, superate o addirittura incoerenti con lo sviluppo delle tecnologie. Per esempio, all’epoca di Internet, del cloud e del mash-up applicativo ha senso continuare ad avere soluzioni informatiche frantumate, replicate e incoerenti, create e gestite sulla base di confini amministrativi concepiti decenni or sono? Allo stesso modo, questa carenza di visione strategica ci rende incapaci di cogliere in modo tempestivo le straordinarie opportunità proposte dallo sviluppo delle tecnologie. Per esempio, se aveva senso fare carte a microprocessore dieci anni fa, si può dire la stessa cosa oggi, all’epoca degli smartphone e dei sistemi di comunicazione a corto raggio come NFC e BT 4.0? Ha senso investire sul vecchio invece di guardare al nuovo?

Non sappiamo più progettare e di conseguenza comprare e gestire

L’aver considerato le tecnologie come delle commodity a basso costo induce errori enormi che impattano profondamente sia gli utenti che le imprese. Non sappiamo più progettare soluzioni efficaci e spesso sbagliamo completamente gli investimenti in tecnologia, penalizzando allo stesso tempo le prestazioni complessive e le possibilità di sviluppo e crescita delle aziende e delle amministrazioni pubbliche.

Per spiegare questo punto, mi piace raccontare un piccolo aneddoto che mi capitò anni fa e che credo sia emblematico. Mi fu richiesta una consulenza da una primaria banca italiana. Mi chiesero di aiutarli perché un loro sistema informatico molto importante (gestione dell’anagrafica clienti del mercato azionario) aveva prestazioni inaccettabili (30 secondi per recuperare una scheda cliente!). In una moderna base di dati, tale operazione richiede poche frazioni di secondo. Con i miei colleghi, iniziai ad analizzare il software che gestiva quella anagrafica e in pochi minuti ci rendemmo conto che l’operazione di ricerca della scheda cliente era scritta in modo completamente sbagliato. L’errore era così marchiano che nemmeno uno studente al triennio di ingegneria avrebbe potuto commetterlo (quanto meno, se lo avesse commesso di certo non avrebbe passato l’esame relativo). Ebbene quell’errore non solo si ripercuoteva in modo “tragico” sul funzionamento della banca e sulla soddisfazione dei clienti, ma ne ingenerava altri ancora più gravi. Infatti, per rispondere alle carenze di prestazioni del sistema, il dirigente dei sistemi informativi della banca, ignorante in materia e incapace di fare una semplice analisi del sistema da lui gestito, si era rivolto ai fornitori di hardware che, ovviamente, avevano proposto la soluzione per loro più conveniente: “compri una macchina più potente e vedrà che le prestazioni miglioreranno”. Solo il valore esorbitante della cifra richiesta lo dissuase dal procedere immediatamente all’acquisto, e lo indusse a richiedere aiuto “a chi ne sapeva qualcosa”.

In sintesi:

  1. in presenza di quell’errore, le prestazioni non sarebbero divenute adeguate nemmeno comprando una macchina dieci volte più potente;
  2. il calcolatore in uso era più che sufficiente e quindi quegli ingenti investimenti (si trattava non di un semplice PC, ma di un server di grosse dimensioni) si potevano tranquillamente dirottare su aree più critiche per lo sviluppo della banca.

Quante volte vediamo esattamente questa situazione! Sistemi e soluzioni che non funzionano e al tempo stesso investimenti milionari che appaiono incomprensibili e al tempo stesso inefficaci! È accettabile che la progettazione e la gestione delle soluzioni digitali siano delegate “alla cieca” ai fornitori? Non è che tante delusioni che viviamo nell’uso delle tecnologie derivano dal fatto che non sappiamo progettare e, di conseguenza, comprare ciò di cui abbiamo bisogno?

Nota per i tecnici: la clausola “where” dell’istruzione SQL “select” utilizzata per recuperare la scheda cliente era scritta in un modo tale per cui l’ottimizzatore SQL era indotto a non utilizzare l’indice. Di conseguenza, la ricerca della scheda anagrafica avveniva sempre tramite scansione sequenziale dell’archivio, operazione che sarebbe stata mediamente lenta anche avendo a disposizione un calcolatore molto più potente. Bastò modificare poche righe di quel codice SQL per far si che l’indice venisse usato correttamente, ottenendo così prestazioni in linea con le attese. E, ovviamente, risolvendo in un pomeriggio il problema, senza che fosse necessario comprare un nuovo server …

3. Le conoscenze tecnologiche sono necessarie, ancorché non sufficienti

Quali sono quindi le competenze necessarie per gestire in modo strategico l’innovazione nelle imprese e nelle amministrazioni pubbliche?

Ovviamente serve un bouquet di competenze ricco e articolato, così come accennato in precedenza. I leader di questo processo, peraltro, non possono non avere una conoscenza ampia e matura delle tecnologie. Se così non fosse, si troverebbero di fatto ad essere eterodiretti o da altre figure aziendali o, peggio, dai fornitori e dai consulenti.

La conoscenza e la capacità di dominare le tecnologia sono condizioni necessarie ancorché non sufficienti: le tecnologie di per se stesse non risolvono i problemi, ma sono l’elemento abilitante essenziale per perseguirne la risoluzione.

Peraltro, c’è da prestare molta attenzione anche ai cosiddetti “esperti” che troppo spesso ci sommergono di proclami. Saper fare non è saperne parlare o discuterne: di quello francamente non ne sentiamo più il bisogno. Servono professionalità, rigore, competenza, track records veri e non millantati. E servono manager e dirigenti illuminati che sappiano interpretare questi temi e queste scelte in modo avveduto e lungimirante.

Pubblicato su techeconomy.it il 2 Febbraio 2015.

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Alfonso Fuggetta
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